Tsui Hark
Produzione cinese diretta dal maestro di Hong Kong Tsui Hark, “Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma” è un magnifico wuxiapian (film storico con duelli e arti marziali) dove, con l'estremismo che lo caratterizza, Tsui Hark inscrive una riflessione appassionata in forme di vera esaltazione narrativa e visuale. A tal punto abbacinante, che qualcosa rischia di restare non colto: perché Tsui Hark e lo sceneggiatore Zhang Jialu, mentre portano sullo schermo la grandezza e il delirio di un cinema estremo, contemporaneamente tengono dell'altro sottotraccia.
Mentre si sta completando la costruzione di una statua del Buddha alta 220 metri, che svetterà sulla capitale, due dignitari governativi muoiono misteriosamente per autocombustione. Per sciogliere l'enigma l'imperatrice vedova Wu - che sta per essere incoronata come primo Imperatore donna della storia cinese - fa uscire di prigione il magistrato Dee, grande investigatore, condannato otto anni prima perché suo avversario politico. Il divo hongkonghese Andy Lau porta al personaggio di Dee una bella gamma interpretativa: ora la furia fredda del combattente, ora il lampo dell'intuizione negli occhi, ora il dolore intimo di fronte all'onnipresenza del male, ora uno sguardo ironico da gatto.
Tsui Hark cerca la forma perfetta in una messa in scena di febbrile bellezza, che si esprime nei superbi tableaux di massa, composizioni coloristiche attorno a un colore guida; nei combattimenti, orchestrati da Sammo Hung (qui action director) con la sua usuale freschezza, eleganza, uso funambolico di spazi e oggetti; nelle possenti concezioni scenografiche in CGI. Come un Doré o un Piranesi cinese, Tsui Hark concretizza sullo schermo una concezione grafica epica e allucinata in cui gli spazi scenografici diventano unità narrative, che scandiscono in capitoli il film. E' un viaggio in sequenze di pura follia: basta citare l'apertura fantasy/horror all'interno della colossale statua cava o quell'aberrante mondo sotterraneo sull'acqua, popolato di mostri e reietti, che è il Bazar Fantasma - o anche (sebbene questo sia un luogo comune dei wuxiapian) le visioni psichedeliche del combattimento sotto l'effetto della droga al Monastero.
Il film alterna momenti solenni a fratture convulse; delirio e pazzia inseguono il protagonista Dee nella sua ricerca. La residenza, oasi di pace dopo la prigione, con l'eleganza sognante del corteo di donne che portano grandi lanterne nel parco, esiste solo per essere violata da una pioggia di frecce di ferro irrealmente fitta. Oppure il luogo della compostezza rituale che è la corte imperiale. Ritorna spesso nel film la voce over (o “impossibile”: il cervo parlante) che scandisce editti imperiali la cui monosillabica solennità staccata (nell'originale cinese) rispecchia la rigidità formale del Palazzo. Eppure anche questa rigidità verrà turbata (un solenne movimento di macchina accompagna la corsa dell'imperatrice e delle ancelle verso la donna morente); anche lì si scatenerà il disastro, con un ruolo blasfemo per la statua gigantesca del Buddha – il portatore della pace interiore per antonomasia.
Il film si apre portandoci dentro la ciclopica statua in costruzione, che al suo interno è una macchina. Inevitabile porre un parallelo fra la macchina dell'eccesso che è il Buddha gigante e la macchina dell'eccesso che è il film. Entrambi sono costruiti come meraviglia visuale spinta all'estremo, entrambi sono destinati all'apocalisse. Il set implica la propria distruzione: “Detective Dee” appartiene a quella categoria di cui parlava Enzo Ungari ne L'immagine del disastro, il cinema della catastrofe.
Un plot complesso ma non difficile da seguire intreccia il dramma storico, il cinema di arti marziali, la detective story in costume, il fantasy magico, nonché il mélo di una storia d'amore solo sussurrata. Né mancano accenni di commedia (vedi il litigio, mix di erotismo e kung fu, fra Dee e l'eroina combattente Jing'er). Uno humour bizzarro attraversa il film, non dialogando con la trama drammatica, come in genere avviene, bensì nascosto sotto lo svolgimento.
Sviluppandosi, “Detective Dee” si allarga a una riflessione allegorica sugli arcana imperii: veste di sontuose immagini avventurose una meditazione sul potere. Vibrazioni shakespeariane puntualmente registrate nella potente interpretazione di Carina Lau nel ruolo dell'Imperatrice Wu, figura drammatica che intesse i suoi dolorosi giochi di potere sacrificando tutto alla sua determinazione. “Per raggiungere la grandezza, chiunque è sacrificabile”, dice l'imperatrice (uso le parole della versione originale sottotitolata, più convincente della vacua traduzione italiana); queste parole ritornano ossessivamente nel film. Non meno drammatica è la figura della sua favorita Jing'er (Li Bingbing), la donna guerriero, l'arma che non vuole continuare ad essere un'arma (il sentimento in contrasto con le obbligazioni è uno dei concetti base dei wuxiapian).
Di qui, il film si allarga ad avvolgere i grandi temi tragici. Qual è il prezzo del potere? Come si può rapportare la giustizia alle necessità dello Stato? E' possibile l'amore in questa prigione di costrizioni che è la vita? Fino a dilatarsi nella grande angosciata domanda che le comprende tutte: esiste per l'uomo puro la possibilità di muoversi nel mondo? Questo è il dramma del magistrato Dee, anticipato in un dialogo fra prigionieri, ma sempre presente in filigrana. “Il Cielo e la Terra non hanno posto per me, ma il mio cuore è in pace” sono le parole finali.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento