sabato 30 luglio 2011

Venere nera

Abdellatif Kechiche

“Venere nera” porta sullo schermo la storia vera di un'ottentotta sudafricana di nome Saartjie Baartman che nel primo Ottocento venne esibita come un freak a Londra e Parigi. Le caratteristiche fisiche delle donne ottentotte – natiche ipertrofiche, labbra vaginali ipersviluppate – calamitano il voyeurismo sessuale di un pubblico bianco nutrito di senso di superiorità razziale, e l'interesse dei naturalisti, che la vedono come un ponte fra l'uomo e la scimmia. Saartjie finisce in un bordello e poi, malata, a prostituirsi per strada. Oggetto dello sguardo da viva, lo è anche dopo morta: i genitali e il cervello vengono asportati e preservati in alcool, dal calco del cadavere si realizza una statua dipinta a scopo didattico. Solo di recente i suoi resti sono stati restituiti al Sudafrica per la sepoltura.
Sorretto da un'eccellente interpretazione di Yahima Torres, un'autentica presenza schermica nella sua maschera, Abdellatif Kechiche realizza un film importante, ma in ultima analisi deludente.
Fin dalla prima esibizione che vediamo, Saartjie fa finta di essere una creatura primitiva e feroce, ma i suoi primissimi piani riportano l'occhio dello spettatore cinematografico alla realtà della sua natura umana. Costruito dalla macchina da presa, il dialogo fra l'umanità (il viso) e la ferinità (la finzione) è il punto nodale della sequenza; ed è il momento in cui questo film contraddittorio raggiunge la maggiore verità.
Detto per inciso, la messa in scena non sfugge a quell'evidenza di “passato ricostruito” che apparteneva al cinema di una volta e oggi attribuiamo alla televisione. Quei denti bianchi e perfetti in una folla di popolani inglesi del 1810 sanno di falsità. In contrasto, basta pensare al recente e bellissimo “Ladri di cadaveri” di John Landis: lì sì che il cinema sa trasmettere il senso del passato (né mancano altri piccoli bloopers storici in “Venere nera”).
Trasferitasi col suo socio-sfruttatore a Parigi, questi affitta Saartjie a un gruppo di scienziati (guidati da Cuvier in persona!) che vogliono esaminarla e misurarla, discettando sulla somiglianza “fra questa ottentotta e l'orangutan”. Allo scontro di lei con gli scienziati perché rifiuta di far vedere i genitali, segue il passaggio a un altro “manager” - ed eccola esibire tristemente i suoi genitali ai curiosi in quello che pare un bordello, ma è la descrizione alquanto goffa di un'aristocrazia francese decadente. Questo passaggio violento fra il suo pudore con gli scienziati e la sua sottomissione piangente in seguito è tipico del film: il fatto è che a Kechiche non interessa mostrare uno sviluppo psicologico ma accumulare scene della progressione di Saartjie come vittima. In questo senso, a ben pensarci, il film ricorda le serie di “quadri” dei tempi della lanterna magica e del protocinema.
Il problema radicale del film è che - a parte un paio di sequenze importanti ma non sufficienti - non veniamo realmente a conoscere questa donna. Manca al film l'articolata umanità di un capolavoro largamente analogo come “Elephant Man” di David Lynch. C'è una basilare affermazione di Saartjie nella sequenza del processo in Inghilterra: “Nella vita reale non sono ciò che sono sul palco – io recito”. Qui si aprirebbero drammatiche profondità pirandelliane di cui il film non si cura. Ma c'è altro. In questa sua rivendicazione, ingenua quanto si vuole, non si nasconde una vittima predestinata, una schiava: si nasconde una lottatrice; e questo è inscritto in tutta la sua biografia, rivelata specialmente nella scena dell'intervista in carrozza col giornalista. Non una vincitrice, poiché il film è la storia di una sconfitta - ma è la storia di una lottatrice sconfitta.
Kechiche è così impegnato a definirla come oggetto dello sguardo altrui, che non riesce a trasmettercela come persona, viva e attiva. Non lo fa neppure con gli altri personaggi. Però se anche per i profittatori di Saartjie questa fosse (ma non è) una scelta politica di astrazione, di trasformarli in icone dello sfruttamento, comunque sarebbe imperdonabile rispetto alla protagonista, questa donna eccezionale che dal fondo della miseria si è lanciata nella (velleitaria) conquista di un continente che la disprezza. Così, è come se Saartjie Baartman fosse due volte oggetto: oggetto dello sguardo voyeuristico e razzista nella diegesi, oggetto dello sguardo didattico e politically correct nel discorso filmico. Sia pure involontario, questo è l'estremo insulto.

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