Lee Unkrich
Davvero oggi la Pixar rappresenta il top del cartoon occidentale. Che altro dire di una casa di produzione che in tre anni ci ha dato “Ratatouille”, “WALL-E”, "Up" e il terzo “Toy Story”?
Diretto da Lee Unkrich e splendidamente sceneggiato da Michael Arndt (“Little Miss Sunshine”), “Toy Story 3 – La grande fuga” è il migliore della serie: scatenato nella narrazione, autentico nel movimento, pieno di humour e di poesia, delizioso per caratterizzazione dei personaggi e vivezza satirica. Il film inizia con un'imprevista pagina comico-avventurosa in stile western, una rapina al treno coi coniugi Potato inseguiti da Woody; si aggiungono in continuo ampliamento gli altri personaggi, creando una spirale citazionistica che dal western va alla fantascienza, a James Bond, ai kaiju eiga, man mano che si amplia. Poi passa, con elegante transizione di punto di vista, a una vecchia registrazione video di Andy bambino che gioca. Ma ora Andy ha diciassette anni e deve partire per il college; e i suoi giocattoli temono l'abbandono (“Venite, vediamo quanto ci quotano su eBay”). Per errore, anziché in cantina finiscono regalati a un asilo: non solo vengono orribilmente maltrattati da piccoli mocciosi ma sul piano della vita segreta dei giocattoli l'asilo – governato da un orso di peluche che è una specie di boss mafioso – è un lager. E' geniale quest'applicazione ai giocattoli del cinema concentrazionario con tutte le sue connotazioni (compreso un tocco horror nell'orribile scimmia musicante che controlla i monitor di sorveglianza).
In generale, l'accuratezza e l'inventiva di “Toy Story 3” hanno del miracoloso. Il concetto di umanizzare i giocattoli descrivendo la loro vita segreta quando noi umani non li guardiamo viene da Andersen, naturalmente, ma si ritrova anche nel cartoon classico (Disney e Warner). Qui si allarga a un commento sociologico, con la new entry Ken, che viene dissezionato sul piano culturale. E' scontato che si innamori di Barbie a prima vista (nota il doppio senso di “Siamo fatti uno per l'altra”) ma al di là di questo il film parte dai dati oggettivi per dargli una psicologia perfettamente plausibile e indovinata. “Non sono un giocattolo per bambine!!!”, s'incazza al tavolo del poker con altri giocattoli che lo beffano; più tardi, il capo gioca sulle sue debolezze psicologiche insultandolo con un devastante “Tu non sei un giocattolo: sei un accessorio”. Il film trasforma la ricchezza del suo guardaroba, un dato reale del prodotto, in narcisismo (la pagina della sua “sfilata di moda” per Barbie!).
La carica inventiva del film elabora abilmente una base logica di realtà. E' normale che un giocattolo parlante possegga oltre all'inglese la modalità per la lingua spagnola, però quando per errore Buzz Lightyear viene riprogrammato in questa modalità, non solo parla in spagnolo ma acquista sentimenti e gestualità da vero hidalgo – non senza contentezza della sua fidanzata, che si ripromette di sfruttare questa scoperta in futuro. Tutti i personaggi, a partire dall'orso Lotso (un Broderick Crawford o un Sidney Greenstreet di peluche, completo di biografia melodrammatica di abbandono), posseggono una concretezza di caratterizzazione paragonabile a quella del cinema live action. “Toy Story 3” è magistrale sia a livello di sceneggiatura sia di linguaggio. Vedi per esempio il bambolotto con un occhio rovinato: alla prima apparizione, questa deformità viene giocata a effetti patetici; quando si rivela essere un guardaspalle dell'orso malvagio, la stessa deformità assume una connotazione da cinema gangsteristico; per poi scivolare nell'horror, più in là, quando il bambolotto è seduto di spalle e sentendo un rumore gira la testa di novanta gradi sul collo, stile “L'esorcista”.
Il concetto di “movimento pericoloso” - ch'è presente in tutta la serie, fatta di ingegno e acrobazie - non è mai stato esplorato bene come nel presente episodio. Non senza una particolare vena di cupezza. Sono angosciosi il senso del pericolo e lo spettacolo della morte: vedi la pagina terrificante della discarica, in cui stanno per finire bruciati in un forno, e il particolare autentico e toccante dei giocattoli che si prendono la mano l'un l'altro davanti alla morte. Anche i pupazzi più infantili e ridicoli – il signore e la signora Potato – raggiungono nel film un'imprevedibile umanità.
Al fondo di tutto c'è un'elegia malinconica del tempo umano che trascorre, dell'amico-padrone che invecchia e della necessità di passare la mano. Come in Andersen, i giocattoli possono perire, ma la loro condizione esistenziale è immutabile. Se ci si pensa, c'è in questo loro “tempo bloccato” una tristezza - e insieme una felicità.
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