martedì 10 agosto 2010

Occhi

Lorenzo Bianchini

Anche se non ha ancora trovato una distribuzione, è già apparso in alcune anteprime cinematografiche “Occhi”, il nuovo film di Lorenzo Bianchini.
Questo regista friulano (“Lidris cuadrade di tre”, “Custodes bestiae”, “Film sporco”) ha saputo trasformare in una costante poetica una necessità del cinema indipendente “no budget” da cui proviene: la costruzione immaginaria della location attraverso il montaggio. In “Occhi” però Bianchini trova l'ambiente perfetto già pronto a sua disposizione: la villa Stefaneo-Roncato di Crauglio (San Vito al Torre). La sua consueta capacità di vivificare i luoghi, caricandoli di minaccia, viene esaltata da questa vecchia villa e dai suoi arredi; e quest'ambientazione ha una nota in più, in quanto si sente a volte nel film un gusto documentario (vedi la digressione sull'affresco della battaglia napoleonica sul Reno).
Il restauratore Gabriele Morelli (Giovanni Visentin) è incaricato dal sovrintendente (Gianni Nistri) di restaurare i dipinti settecenteschi di questa villa disabitata. Dopo la misteriosa morte del custode semipazzo (Edo Basso), si trasferisce là; lo raggiunge l'amica Anna (Sofia Marques), per sottrarsi allo stalking dell'ex marito (o amante?). Nella villa Gabriele trova anche delle pitture murali più recenti: opera, apprendiamo, di Lorenzo Gori, l'ultimo della famiglia Gori che abitò la villa fra il 1875 e il 1900 (e tutti vi incontrarono una triste fine). Gli occhi di queste figure - ritratti-ricordo dei familiari morti - sono stati tutti scalpellati via.
Il tema degli occhi e dello sguardo è il filo conduttore del film – evocato nel dialogo dei personaggi, nelle voci spettrali, nei graffiti disseminati nella villa. “Guardano”. “Mi guardano”. “Questa mattina mi fissava”. “Non guardare, non guardare!”. Scritto accanto agli occhi cancellati: “Morte ora non vedi”. Urla Gabriele ad Anna verso la fine: “Perché mi guardi così?”. Anna racconta il suo sogno: “E loro guardavano, guardavano, col sangue negli occhi” (compare come sfondo un'enorme fotografia della famiglia Gori). E quando si scoprono i disegni preparatori delle pitture murali di Gori, notiamo l'inquietante evidenza degli occhi enormi; similmente, quel viso stregato con occhi sbarrati che compare più volte nel film è l'autoritratto di Gori (per inciso, i bellissimi disegni attribuiti a Lorenzo Gori nel film sono di Annalisa Gaudio).
Questa villa è infestata di frammenti visivi tra il flashback e lo spettrale (ma cos'è uno spettro se non un flashback?) della famiglia Gori, immagini di morte e di suicidio. Ma all'esterno della villa Gabriele scopre delle sculture che rappresentano una civetta - la dea preistorica della morte. Sono gli spettri dei trapassati a infestare la casa? O è la vibrazione delle loro emozioni che ne ha impregnato i muri, e agisce sull'inconscio di Gabriele e Anna? O è l'antichissima dea della morte che possiede ancora il luogo, dove tutto marcisce e si decompone anzitempo? L'ultimo Gori si rifugiò in una stanza segreta perché “c'era qualcosa fuori”. Ma qualunque sia la risposta, guardare apre un itinerario alla morte e alla pazzia; è come guardare la Gorgone.
Catturati, i due protagonisti vagano in una specie di tempo sospeso per i percorsi irreali della villa (come ha scritto splendidamente Carlo Gaberscek, “diventa una Marienbad friulana”). Quella forma-labirinto che caratterizza il cinema di Bianchini, l'universo-trappola, trova nella location reale della villa di Crauglio la sua incarnazione più compiuta. La fotografia di Ivano Scialino e il montaggio di Lorenzo Bianchini e Rui Branquinho cospirano per creare un'atmosfera sospesa e irreale. Un uso kubrickiano di movimenti di macchina “vuoti”, alla “Shining” (e Gabriele seduto sulle scale semi-catatonico ricorda proprio il Jack Nicholson di “Shining”); una mdp ribelle e vagante. Tutto il film è attraversato da inquadrature non correlate, da flashback non dichiarati; stacchi e dissolvenze incrociate poetici e surreali.
A un certo punto, mentre Anna e Gabriele si aggirano nella villa come spettri, c'è un bellissimo montaggio di movimenti che porta in sé qualcosa di intrinsecamente “sbagliato”: per la velocità con cui l'occhio dello spettatore registra due differenti percorsi, rinforza il concetto - presente nel film come in tutta l'opera di Bianchini - di uno spazio “einsteiniano”, incongruo, forse alla Escher.
“Occhi” è il film di Bianchini più atmosferico, attraversato da un senso soffocante di minaccia, di disperazione, di movimento inutile. E' evidente il richiamo – non parlo di citazione ma di ispirazione – all'horror di Pupi Avati, in primo luogo, e di Dario Argento: i due autori italiani ai quali Bianchini deve di più. Anche perché “Occhi” è, con “Custodes Bestiae”, il film di Bianchini che maggiormente esalta quella tendenza “antiquaria” (nel senso delle paurose “Ghost Stories of an Antiquary” di M.R. James) che gli viene attraverso Argento e Avati: i polverosi documenti e fotografie, i vecchi dipinti rivelatori, le stanze segrete, le case ammuffite dove aleggia un passato innominabile.
Tuttavia, con tutti i suoi innegabili meriti, “Occhi” è in ultima analisi un film non pienamente riuscito. Istintivamente portato verso l'horror oscuro e allusivo alla Val Lewton, Bianchini ha un restraint classico, detesta l'esibizione della mostruosità sullo schermo. Il suo film ha l'indubbio coraggio (visto che per la prima volta non è autoprodotto) di mantenere una programmatica ambiguità, un'ottica che vien voglia di definire iper-lewtoniana. Il riferimento che salta alla mente è alla ghost story tardo e post vittoriana (Oliver Onions, Henry James, l'Algernon Blackwood di “The Listener”) dove il “fatto” spettrale si inserisce e si confonde nella psicologia.
Il problema non è che il film concede poco agli spettatori sul piano della comprensione oggettiva della "fabula" (di questa si può fare a meno senza troppi rimpianti), ma che la continua costruzione della tensione non esplode mai in un lampo di catastrofica chiarezza. Nonostante il triste destino dei due protagonisti, manca il momento gripping in cui si definisce (magari per un momento, magari illusoriamente) un punto preciso; così il film lascia un'impressione di irrisolto.
E' una scelta, certo. Bianchini, sappiamo, ha lavorato molto a togliere; ha girato molto, anche con una maggiore “fisicità” del racconto, e in sede di montaggio ha molto modificato e tagliato - forse troppo. E' difficile peraltro sperare in una futura versione extended. In ogni modo “Occhi”, con la sua atmosfera crudele e mefitica, rinverdirà la sua posizione di regista oggetto di un piccolo ma convinto culto.

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