Per ragioni familiari il vostro recensore non ha potuto seguire quest’anno le Giornate del Cinema Muto di Pordenone, salvo l’inizio e la chiusura. Certo un peccato, perché il programma non è stato solo intelligente e stimolante - questo con le Giornate è un dato acquisito in partenza ogni anno - ma particolarmente divertente pure.
Già il giorno inaugurale, il 4 ottobre, bastava per capire che il viaggio delle Giornate 2008 si sarebbe svolto col vento in poppa. Avrebbe meritato l’onore di una serata già il primo film proiettato nel pomeriggio, “Knock ou Le triomphe de la médecine” (1925) di René Hervil. E’ ben nota anche in Italia la commedia satirica di Jules Romains, dove il dottor Knock - convinto che un uomo sano è semplicemente un malato che non sa di esserlo - arriva in un paese di contadini che sprizzano salute e con abile psicologia intimidatoria li converte, trasformando il luogo in un gigantesco ospedale. Realizzato due anni dopo l’uscita della pièce, il film presenta un’ottima interpretazione di Fernand Fabre nel ruolo eponimo, che a teatro era stato di Louis Jouvet. Soffre di una qualche lentezza iniziale; ma quando questo dottore dagli occhi gelidi si reca nella sua nuova condotta di St. Maurice e comincia le sue operazioni, il film prende ala, fino a sfociare (con la dittatura medica di Knock, che nel finale passa da opportunista a profeta mistico) in una delirante anticipazione del totalitarismo destinato a travolgere l’Europa. Con “Knock” si apriva la sezione “Tocco francese”, comprendente una serie di preziose ri/scoperte (con molto Jacques Feyder); congiungendola idealmente alla superba rassegna René Clair dell’anno precedente, vediamo confermarsi che il cinema francese degli anni Venti è uno scrigno dal quale le Giornate hanno ancora molti tesori da estrarre.
“Sparrows” (1926, di William Beaudine) è il film evento che alla sera ha propriamente inaugurato il festival, con il commento musicale dell’Orchestra Sinfonica del Friuli Venezia Giulia su una partitura di Jeffrey Silverman. Una magnifica Mary Pickford difende una decina di bambini maltrattati come lei, in una fattoria sperduta fra le paludi della Louisiana, dal gestore di una sorta di asilo illegale, il malvagio e sciancato Mr. Grimes (memorabile interpretazione di Gustav von Seyffertitz, un valoroso caratterista la cui galleria di “villains” include il Kaiser nel cinema di propaganda di guerra e il Professor Moriarty di Sherlock Holmes). Giustamente è stata evocata l’ombra di Dickens per questo mix di avventura e melodramma, dalle sorprendenti qualità spettacolari, che per la sua crudeltà non ebbe alla sua uscita il successo sperato.
Accanto alla ricchezza delle interpretazioni, conviene segnalare innanzitutto la scenografia, che crea un incubo di puro “Southern Gothic”, fatto di baracche cadenti fra gli alberi infiniti, paludi pronte a risucchiarti nelle proprie profondità e alligatori in agguato (le scene in cui i bambini della pericolosa fuga dei bambini contengono una carica di suspence agghiacciante; alcune inquadrature ricordano i quasi coevi pericoli di Skull Island in “King Kong”). Ma l’aspetto più importante è la presenza dell’umorismo. Senza sorpresa, “Sparrows” contiene un forte côté religioso, affrontando l’argomento più forte - le sofferenze dei bambini - che possa mettere alla prova qualsiasi teodicea. Ma allo stesso tempo inserisce nel quadro sentimental-horror (e nell’ultima parte francamente avventuroso) una coloritura umoristica di franca comicità. In tal modo il film, pur senza perdere il suo tono “dark”, nasconde quell’alone di ricatto sentimentale sul quale pure gioca: è una “versione comica del drammatico” - e un film molto griffithiano, aggiungerei, approfittandone per ricordare che quest’anno si concludeva il gigantesco Progetto Griffith.
Infine, a chiusura di serata, ha fatto scoppiare tutti dalle risate “Running Wild”, del grande Gregory La Cava, con W.C. Fields, protagonista di un omaggio alle Giornate 2008. Tutti noi, si capisce, adoriamo W.C. Fields. Uno non può essere un amante del cinema altrimenti (anzi, non può essere neppure umano). Però finora egli era per noi l’epitome stessa del comico “di parola” - nel suo caso, sarebbe meglio dire “di suono”. E’ stata una sorpresa strabiliante vedere la sua grandezza come attore del muto. Attore “trasparente”, lo vorrei definire, nel senso che riesce a trasmettere la minima sfumatura, il sentimento più sottile e passeggero, la più piccola nuance, con una capacità “telepatica” che aggancia il pubblico dallo schermo alla sala, fulminante, come raramente capita di sperimentare in tutto l’immenso corpus del cinema muto. Ecco una figura che era già grande prima e ci appare ora ancora più grande - grazie alle Giornate.
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