Steven Spielberg
Gli eroi del cinema d’avventura, com’è noto, hanno tutti un rapporto complicato con il tempo che passa. Il loro grande problema è quello dell’invecchiare – perché l’avventura implica sempre l’elasticità dei muscoli e dei riflessi, per non parlare di una certa giovanile incoscienza. Ora, Indiana Jones è sempre stato contestualizzato da una definizione di spazio e tempo assai puntuale come date e luoghi, sebbene, è ovvio, apertamente fantastica (poi la serie tv “Le avventure del giovane Indiana Jones” spingeva il personaggio ai limiti del presenzialismo storico). Questa delimitazione rende, in astratto, abbastanza naturale pensare all’invecchiamento e al susseguirsi delle generazioni. Tuttavia - Harrison Ford che riappare sullo schermo come un Indiana Jones invecchiato coi capelli brizzolati? Che ci informa della recente morte del padre (Sean Connery), e scopre di avere un figlio (Shia LaBoeuf, divertente parodia del giovane anni ’50)? Chi scrive non avrebbe scommesso un centesimo sull’operazione. A ulteriore conferma che chi scrive non è Steven Spielberg, invece “Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo” è delizioso: grande spettacolo (perfetto il “timing” nella parte centrale dell’inseguimento nella giungla, la migliore del film) e bel dialogo.
Siamo nel 1957, quindi il testimone dei rappresentanti del totalitarismo passa da una manica di bastardi a un’altra, dai tedeschi ai russi (con in più la notazione del contagio maccartista, per cui lo stesso Indy perde il posto all’università). E’ una perfetta “villain” Cate Blanchett nei panni della dottoressa Irina Spalko, capelli a caschetto, occhiali neri, spada al fianco, giubbotto con falce e martello sulla schiena (scienziata del paranormale, ha ricevuto tre volte l’Ordine di Lenin ed era la cocca di Stalin, ci informa il dialogo). Intelligentemente la sceneggiatura collega la sua caccia ai poteri ESP del teschio di cristallo, da rivolgere contro l’America, al sogno comunista di un lavaggio del cervello collettivo: “Trasformeremo voi in noi”. Ma nei film di Indiana Jones si declina con tutta la semplice fisicità del fumetto uno dei grandi temi spielberghiani, la terribilità dello sguardo – è per questo (attenzione, spoiler!) che passa attraverso gli occhi la morte di Cate Blanchett nel film, citazione diretta della morte di Paul Freeman ne “I predatori dell’arca perduta”. Ora come allora, la salvezza di Indy è: non guardare il non guardabile - distogliere appena in tempo gli occhi (lo illustra bene la scena in cui, costretto prigioniero a guardare il teschio di cristallo, rischia di impazzire).
Il film ha la stessa schietta e divertita improntitudine narrativa dei precedenti: in pratica il protagonista non fa altro che farsi catturare, scappare e ricominciare; come nella trilogia originaria, i personaggi sono fuscelli in mano al destino – che non è il fato greco ma il rollercoaster hollywoodiano del cinema d’avventura classico (ne era una metafora sfacciata il carrello in corsa di “Indiana Jones e il tempio maledetto”). Di quel cinema l’intera saga è l’esaltazione. Con una differenza: mentre la trilogia di Indiana Jones per riferirsi al cinema del passato guardava ai vecchi film e serial avventurosi hollywoodiani (nonché ai fumetti di Milton Caniff eccetera), il nuovo “Indiana Jones” per riferirsi al cinema del passato guarda alla propria stessa trilogia. Non evoca il cinema degli anni ’40 ma i vecchi “Indiana Jones” che evocano il cinema degli anni ’40. L’autocitazione numero uno è naturalmente quella del deposito di casse che chiudeva il primo film e apre questo (e quando tutto va a pezzi intravediamo per un momento in una cassa sfasciata l’arca perduta!). Lo dichiara satiricamente anche l’apertura del film. In apertura de “I predatori dell’arca perduta” la montagna del logo della Paramount si trasformava nella montagna del racconto, poi Indiana Jones entrava nell’inquadratura. Qui il logo Paramount si trasforma in nella tana di un cane della prateria - che viene immediatamente schiacciata da un’auto in corsa. Spielberg rifà lo scherzo dei “Predatori” come scherzo su se stesso.
Nel “Teschio di cristallo” Indy sposa la migliore delle sue donne, quella Marion (Karen Allen) che veniva introdotta ne “I predatori” mentre nella taverna batte un gruppo di ubriaconi nepalesi nella gara a chi beve più acquavite. Indiana Jones è il classico adulto-mai-cresciuto che ritorna nel cinema spielberghiano, ma qui entra alfine nella logica adulta della famiglia e del matrimonio. Di nuovo, la questione dell’invecchiare. Gli eroi sono stanchi? Forse più maturi. Certo, gli anni passano per tutti (all’università non vediamo più studentesse innamorate del professor Jones, solo studenti secchioni che gli chiedono bibliografia). Ma - come ci mostra l’ultima immagine, Indy che riprende il cappello di mano al figlio - per lui non è ancora venuto il tempo di consegnare frusta e cappellaccio al suo erede.
(Il Nuovo FVG)
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