Michel Gondry
Bisogna dividere idealmente in due il nuovo film di Michel Gondry, “Be Kind Rewind – Gli acchiappafilm”. In che senso? Giusto per capirci, potremmo richiamare alla memoria “Malèna” di Tornatore. Quest’ultimo film consiste di due elementi in opposizione: le immagini di Monica Bellucci nuda e tutto il “crap” narrativo che le avvolge. Per lo spettatore la ragione stessa della visione è quella di arrivare al primo elemento, attraversando - come se si camminasse nella nebbia - il secondo, che tende a fagocitarlo e ottunderlo. Qualcosa di simile accade in “Be Kind Rewind”: c’è un’opposizione fra l’idea centrale del film (i film “maroccati”), buona e gustosamente realizzata, e la mediocrità della realizzazione nel suo complesso.
Gondry possiede una forte e originale ricchezza visuale, che dai videoclip fino a “L’arte del sogno” si esprime nella concretezza fisica dell’invenzione fantastica: il suo è un lavoro di artigianato, di arte povera, di bricolage. In “Be Kind Rewind” questo lavoro non appartiene alla forma espressiva come ne “L’arte del sogno” ma diventa oggetto della narrazione (assumendo un valore autobiografico): Jack Black e Mos Def – siccome Jack Black, “magnetizzato” dopo la tentata irruzione notturna in una centrale elettrica, ha cancellato toccandole tutte le videocassette del piccolo videonoleggio - ri-girano in forma casalinga e ultrapovera i blockbuster hollywoodiani. Cominciano con “Ghostbusters”, ciò che ha suggerito il sottotitolo italiano, e segue tutta una serie di deliziosi remakes/parodie (spacciati ai clienti, nota bene, per l’originale). In seguito - dopo essere stati “ghostbusted” da Sigourney Weaver (e chi se no?) in veste di avvocato - applicano la stessa forma produttiva a un “loro” film, coinvolgendo tutto il quartiere.
Quando Gondry ci regala questi brevi film-nel-film, il lavoro funziona. Il guaio è che il regista francese è di natura tanto fantasioso sul piano visuale quanto impacciato, e terribilmente verboso, su quello narrativo. “Be Kind Rewind” (da lui sceneggiato e diretto) presenta non uno ma tre difetti di base. Il primo è di scrittura: in questa commedia troppo parlata, il dialogo - semplicemente - non è divertente. Pensiamo alla scena coi tre bambini negri nel negozio di videogiochi e i due protagonisti che cercano di spiegargli chi era Fats Waller: in confronto Francis il Mulo Parlante sembra Howard Hawks. Si sente di continuo il desiderio di ottenere un rimpallo brillante, ma non ci si arriva mai: come scrittore Gondry è sempre faticoso.
La seconda difficoltà è di costruzione generale, di “storytelling”: il film è confuso e disarticolato rispetto alla costruzione della vicenda, stenta visibilmente a raggiungere il proprio centro narrativo, manca totalmente di ritmo. Ciò gli impedisce di far fruttare appieno il suo materiale comico: c’è una strana imperizia nel “porgere” l’idea brillante, nel costruire la gag. Il terzo difetto è quello che affonda il film: “Be Kind Rewind” è sfasciato e incongruo sul piano diegetico, con scene mancanti che devono essere presupposte in base allo svolgimento, come se un montatore impazzito avesse fatto tagli tanto gravi da sabotare la continuità. Per esempio, che il ragazzotto prepotente tormentasse la zia, lo apprendiamo solo in via indiretta da Danny Glover. C’è un colloquio fra Mos Def e Melanie Diaz sui “baffetti” di lei che implica un colloquio precedente. Avrei aggiunto il fatto che Jack Black a un certo punto compare con il viso annerito e segni di reticolato sul viso, pensavo ciò alludesse a un qualche incidente precedente non visto, ma un’amica gondriana mi ha spiegato che si è mimetizzato per introdursi nella centrale elettrica; benché perplesso, accetto la spiegazione (però allora è un esempio del difetto # 2). Bisogna riandare a “La donna perfetta” (“The Stepford Wives”) di Frank Oz per un simile esempio di incongruenza narrativa - ma lì il pasticcio l’avevano combinato gli esecutive della Paramount, e Oz ha il solo torto di non essersi firmato Alan Smithee.
(Il Nuovo FVG)
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