venerdì 23 maggio 2008

Gomorra

Matteo Garrone

Un film, di solito, è una storia. “Gomorra”, di Matteo Garrone, invece è prima di tutto un luogo (per questo è così appropriato il suo titolo, non solo per l’origine dal libro omonimo di Roberto Saviano). E’ Scampia, repubblica camorrista indipendente incuneata sul territorio della sedicente repubblica italiana – un labirinto soffocante di stretti passaggi di cemento e di spazi assurdamente vasti, un mondo a parte, dove risuonano le grida e i richiami delle sentinelle della camorra che per tutto il giorno sorvegliano le vie d’accesso.
Pittore di formazione, Garrone ha sempre mostrato una magnifica concezione visuale. “Gomorra” si apre su un primissimo piano molto forte, deformato, nella luce azzurra irreale della lampada abbronzante: è un’introduzione al grottesco; ma rispetto alle torturate parabole de “L’imbalsamatore” e “Primo amore”, in “Gomorra” – per dirla con una formula giornalistica – il grottesco scende nelle strade. Questa Dite dantesca è un mondo a sé, autonomo e maledetto; un universo autofago che si divora incessantemente (la guerra fra la camorra ufficiale e gli “scissionisti”).
Ritroviamo nelle sue storie interlineate tutte le coordinate del cinema di Garrone. Che è un cinema della solitudine e contestualmente della possessione – ricordiamo come nei due film citati una diabolica solitudine dominante cercava di fagocitarne una più debole. Succede anche in “Gomorra”: segnatamente nel racconto di Franco (Toni Servillo), costruttore di discariche abusive per rifiuti tossici, e Roberto, ma in realtà in tutti: storie di anime deboli che soccombono ad altre anime – se mi si passa il bisticcio – deboli ma più forti. Dal camorrista ragazzino Totò, che finisce per tradire la madre putativa Maria, a don Ciro (Gianfelice Imparato) che per viltà le volta le spalle, fino all’ingenuità tragicomica dei due stronzetti che si credono Al Pacino in “Scarface” e, senza sorpresa, finiscono ammazzati, la perdita dell’anima accomuna questi racconti. “Homo homini lupus”: o i rapporti umani sono inesistenti o il film ne mette in luce la rapida liquefazione; questo è un mondo senza elaborazione di umanità, neppure nella forma della falsa coscienza (in paragone appare patetica l’ideologia mafiosa di una società parallela). L’unico momento che lascia trasparire una forma di distacco riflessivo - in senso autoassolutorio - è il discorso di Franco a Roberto che gli si ribella; ma è anche l’unico momento del film in cui si lascia sospettare un intento didattico (così come c’è un sospetto di valenza metaforica nel discorso della vecchietta fuori di testa, “’sta campagna è tutta disordinata”).
I film di Garrone radicano la fiction nella realtà oggettiva; non in senso neorealistico, ma certo con una volontà di appropriarsi di volti e suoni autentici. Anche in “Gomorra” spicca in modo impressionante l’evidenza dei visi (e in questi personaggi anche minimi affidati a grandi interpreti napoletani un solo sguardo vale tutto un discorso). Si convoglia in questi volti, in questi crocchi di persone, una sensazione fortissima di verità. Sempre efficace nella sua nettezza oggettiva, con largo impiego della macchina da presa a spalla, con soggettive brusche e sporche (i due ragazzotti che spiano dalla stalla), con inquadrature a piombo (il passaggio di don Ciro fra i cadaveri dopo la strage, con l’enorme macchia di sangue rappreso), Garrone ha una capacità sconvolgente di concentrazione del senso. Basta pensare all’immagine dei camion guidati da bambini che si muovono come giganti goffi e incerti nella cava. O all’uso perfetto dello spazio e del fuori campo nella scena impressionante (ma quale non lo è?) dei giovani aspiranti camorristi che attendono la loro prova di coraggio: indossano una specie di giubbotto antiproiettile e si fanno sparare un colpo nel petto. O all’uccisione di Maria in una scena così rapida, e conclusa da una dissolvenza così veloce, da sembrare quasi celata in ellissi. Un rigore narrativo che è quasi un “unicum” nel cinema italiano.

(Il Nuovo FVG)

1 commento:

Anonimo ha detto...

A questa puntuale recensione, aggiungo solamente una postilla, menzionando l'uso della colonna sonora, magistrale per Gomorra come per Il Divo: dove la ost si fa imbonitore sotto mentite spoglie, l'espressività è sempre potente.
Peccato solo che i migliori risultati nostrani vengano raggiunti in genere con le peggiori pagine di storia.