"Allan
Stewart Konigsberg, nato il 1° dicembre 1935. A dire il vero nacqui
il 30 novembre, quando era quasi mezzanotte, e i miei genitori
spostarono la data, in modo che potessi cominciare dal primo giorno
del mese" (Woody Allen, "A proposito di niente.
Autobiografia").
Così,
senza entrare in questa super-alleniana disputa di date, registro che
compie 90 anni il nostro amatissimo Woody, che per noi è stato un
divertente fratello minore (a proposito: "Scommetto che neanche
Woody Allen sa disegnare una zampa di mucca!" - Sally nei
"Peanuts"), poi è stato un saggio fratello maggiore, e
adesso è qualcosa di simile a un padre estraniato che ama starsene
per conto suo.
Nell'occasione
ripubblico qui un piccolo articolo che avevo scritto trent'anni fa -
è vecchio ma mi piace che renda tuttora il mio affetto e la mia
ammirazione per lui.
In
un libro-intervista presso Einaudi Woody Allen, che gira un film ogni
anno, paragona la propria opera al Beaujolais: una produzione annuale
che la gente può commentare, quest’anno è buono, quest’anno è
un po’ deludente. Una concezione del lavoro artistico che non piace
agli snob: perché classica e non romantica, cioè tumultuosa e
irregolare, come vige oggi (tanto più che in realtà
l’Allen-Beaujolais varia solo da “molto buono” a
“eccezionale”). E classico Woody Allen non lo è solo nella
regolarità produttiva ma anche nella tessitura formale.
Non
è sempre stato così. Tutti ricordiamo i suoi primi film,
gustosamente episodici e slegati (“Il dittatore dello stato libero
di Bananas”, “Prendi i soldi e scappa”), nel cui flusso libero
e un po’ scomposto possiamo sentire l’eco del monologo del Woody
stand-up comedian al microfono dei cabaret. In seguito Allen ha
rinforzato le sue sceneggiature, costruito film più congegnati, pur
sempre fondati sui principi dell’accumulo paratattico,
dell’enumerazione, della divagazione (“Io e Annie”,
“Manhattan”); e ulteriormente è pervenuto a un cinema fortemente
strutturato, pieno di ritmo e scioltezza narrativa ma di grande
abilità drammaturgica, ove lo spirito aereo si sposa a geometrie
rigorose, e la ricca evidenza dei “characters” - Allen è un
grande disegnatore di personaggi - è funzionale allo sviluppo della
trama. È famoso l’influsso di Bergman sul regista, ma su questo
piano è ancora più importante quello del grande cinema americano
(presente in lui come archetipo fin dall’esordio “Prendi i soldi
e scappa”) - e del teatro, segnatamente Čechov.
Sulla
scorta di questa perizia narrativa Allen ha a sua disposizione una
gamma ampia di scelte, da opere chiuse e drammaturgicamente compatte,
come “Pallottole su Broadway”, a forme più aperte (esempio, il
poderoso doppio racconto intrecciato di “Crimini e misfatti”),
fino allo sperimentalismo, dal meta-film “Stardust Memories” ai
bagliori corruschi di “Harry a pezzi”.
È
un cinema tutto attraversato dal concetto di falso (di qui
l’attrazione per la forma dello pseudo-documentario, che appare già
in “Prendi i soldi e scappa”, torna in tutta la sua opera,
trionfa in “Zelig”, e ancora rispunta in “Criminali da
strapazzo”). Falso come bersaglio e come consapevolezza. Come
bersaglio: perché l’obiettivo della sua satira è sempre stata
l’inautenticità, quella umana e quella artistica, che sono la
stessa cosa (“Pallottole su Broadway”, “Accordi e disaccordi”).
L’inautenticità come malattia (“Zelig”), vertiginosa
attrazione verso il mimetismo e il compromesso: apparteniamo all’era
dei simulacri. Detto per inciso, questo genio della comicità è un
grande moralista. Il dolore del mondo è sotteso a tutto il suo
cinema; dove la resistenza umana a questo dolore si identifica nella
nostra capacità di agire eticamente.
Ma
anche il falso come consapevolezza: la coscienza del cinema come
produttore di illusione e di sogno (esaltata in film quali “La rosa
purpurea del Cairo” e “Tutti dicono I love you”, ma sempre
presente). L’amore per il cinema e il teatro sostanzia i suoi
“period pieces”: il passato come “mise en scène”. Fin
dall’inizio della sua carriera Allen ha praticato quella forma
artistica principe del Novecento che è la riscrittura (come non
ricordare qui il sublime “Ombre e nebbia”). E l’ultimissimo
Woody del 2000 - in attesa di stupirci con qualche nuovo scossone - è
appunto autore di deliziose “commedie rifatte”, “true fakes”,
che potenziano il richiamo al cinema del passato: “Criminali da
strapazzo”, dopo una prima parte ch’è quasi “I soliti ignoti”,
occhieggia a Capra e Sturges; “La maledizione dello scorpione di
giada” rende un omaggio parodistico a tutta la temperie del cinema
giallo anni ’40. E’ una deliziosa comica carrellata di situazioni
e figure quasi fumettistiche (si pensa a Chester Gould),
un’evocazione di archetipi e uno scherzo sorridente del sessantenne
Woody: scherzo che “gli consente anche di declinare un motivo che
egli ha spesso affrontato, quello del potere psicologico e delle
forme di seduzione” (Alberto Farassino). Dio ce la conservi a
lungo, questa vigna di Beaujolais.
Post
scriptum 2025. E poi? E poi la crisi dovuta alle accuse isteriche di
Mia Farrow dopo la loro rottura ha tagliato le basi del lavoro di
Woody Allen negli States. La canea dei nuovi fascisti woke lo ha
sempre più boicottato ed escluso. Woody ha continuato a infilare una
stringa di buoni film, e sovente capolavori (basta citare “Anything
Else”, "Match Point", “Basta che funzioni”, "Midnight
in Paris", “Blue Jasmine”, “La ruota delle meraviglie”).
Per inciso, ha anche fatto il suo unico film irreparabilmente brutto
("To Rome with Love"). Ma più passano gli anni più alla
vecchiaia si assomma la delusione – basta leggere la sua
autobiografia per capirlo.
Che
Dio benedica Woody Allen nel suo novantesimo compleanno.
