martedì 2 dicembre 2025

Di Woody in Woody

 

"Allan Stewart Konigsberg, nato il 1° dicembre 1935. A dire il vero nacqui il 30 novembre, quando era quasi mezzanotte, e i miei genitori spostarono la data, in modo che potessi cominciare dal primo giorno del mese" (Woody Allen, "A proposito di niente. Autobiografia").
Così, senza entrare in questa super-alleniana disputa di date, registro che compie 90 anni il nostro amatissimo Woody, che per noi è stato un divertente fratello minore (a proposito: "Scommetto che neanche Woody Allen sa disegnare una zampa di mucca!" - Sally nei "Peanuts"), poi è stato un saggio fratello maggiore, e adesso è qualcosa di simile a un padre estraniato che ama starsene per conto suo.
Nell'occasione ripubblico qui un piccolo articolo che avevo scritto trent'anni fa - è vecchio ma mi piace che renda tuttora il mio affetto e la mia ammirazione per lui.

In un libro-intervista presso Einaudi Woody Allen, che gira un film ogni anno, paragona la propria opera al Beaujolais: una produzione annuale che la gente può commentare, quest’anno è buono, quest’anno è un po’ deludente. Una concezione del lavoro artistico che non piace agli snob: perché classica e non romantica, cioè tumultuosa e irregolare, come vige oggi (tanto più che in realtà l’Allen-Beaujolais varia solo da “molto buono” a “eccezionale”). E classico Woody Allen non lo è solo nella regolarità produttiva ma anche nella tessitura formale.
Non è sempre stato così. Tutti ricordiamo i suoi primi film, gustosamente episodici e slegati (“Il dittatore dello stato libero di Bananas”, “Prendi i soldi e scappa”), nel cui flusso libero e un po’ scomposto possiamo sentire l’eco del monologo del Woody stand-up comedian al microfono dei cabaret. In seguito Allen ha rinforzato le sue sceneggiature, costruito film più congegnati, pur sempre fondati sui principi dell’accumulo paratattico, dell’enumerazione, della divagazione (“Io e Annie”, “Manhattan”); e ulteriormente è pervenuto a un cinema fortemente strutturato, pieno di ritmo e scioltezza narrativa ma di grande abilità drammaturgica, ove lo spirito aereo si sposa a geometrie rigorose, e la ricca evidenza dei “characters” - Allen è un grande disegnatore di personaggi - è funzionale allo sviluppo della trama. È famoso l’influsso di Bergman sul regista, ma su questo piano è ancora più importante quello del grande cinema americano (presente in lui come archetipo fin dall’esordio “Prendi i soldi e scappa”) - e del teatro, segnatamente Čechov.
Sulla scorta di questa perizia narrativa Allen ha a sua disposizione una gamma ampia di scelte, da opere chiuse e drammaturgicamente compatte, come “Pallottole su Broadway”, a forme più aperte (esempio, il poderoso doppio racconto intrecciato di “Crimini e misfatti”), fino allo sperimentalismo, dal meta-film “Stardust Memories” ai bagliori corruschi di “Harry a pezzi”.
È un cinema tutto attraversato dal concetto di falso (di qui l’attrazione per la forma dello pseudo-documentario, che appare già in “Prendi i soldi e scappa”, torna in tutta la sua opera, trionfa in “Zelig”, e ancora rispunta in “Criminali da strapazzo”). Falso come bersaglio e come consapevolezza. Come bersaglio: perché l’obiettivo della sua satira è sempre stata l’inautenticità, quella umana e quella artistica, che sono la stessa cosa (“Pallottole su Broadway”, “Accordi e disaccordi”). L’inautenticità come malattia (“Zelig”), vertiginosa attrazione verso il mimetismo e il compromesso: apparteniamo all’era dei simulacri. Detto per inciso, questo genio della comicità è un grande moralista. Il dolore del mondo è sotteso a tutto il suo cinema; dove la resistenza umana a questo dolore si identifica nella nostra capacità di agire eticamente.
Ma anche il falso come consapevolezza: la coscienza del cinema come produttore di illusione e di sogno (esaltata in film quali “La rosa purpurea del Cairo” e “Tutti dicono I love you”, ma sempre presente). L’amore per il cinema e il teatro sostanzia i suoi “period pieces”: il passato come “mise en scène”. Fin dall’inizio della sua carriera Allen ha praticato quella forma artistica principe del Novecento che è la riscrittura (come non ricordare qui il sublime “Ombre e nebbia”). E l’ultimissimo Woody del 2000 - in attesa di stupirci con qualche nuovo scossone - è appunto autore di deliziose “commedie rifatte”, “true fakes”, che potenziano il richiamo al cinema del passato: “Criminali da strapazzo”, dopo una prima parte ch’è quasi “I soliti ignoti”, occhieggia a Capra e Sturges; “La maledizione dello scorpione di giada” rende un omaggio parodistico a tutta la temperie del cinema giallo anni ’40. E’ una deliziosa comica carrellata di situazioni e figure quasi fumettistiche (si pensa a Chester Gould), un’evocazione di archetipi e uno scherzo sorridente del sessantenne Woody: scherzo che “gli consente anche di declinare un motivo che egli ha spesso affrontato, quello del potere psicologico e delle forme di seduzione” (Alberto Farassino). Dio ce la conservi a lungo, questa vigna di Beaujolais.

Post scriptum 2025. E poi? E poi la crisi dovuta alle accuse isteriche di Mia Farrow dopo la loro rottura ha tagliato le basi del lavoro di Woody Allen negli States. La canea dei nuovi fascisti woke lo ha sempre più boicottato ed escluso. Woody ha continuato a infilare una stringa di buoni film, e sovente capolavori (basta citare “Anything Else”, "Match Point", “Basta che funzioni”, "Midnight in Paris", “Blue Jasmine”, “La ruota delle meraviglie”). Per inciso, ha anche fatto il suo unico film irreparabilmente brutto ("To Rome with Love"). Ma più passano gli anni più alla vecchiaia si assomma la delusione – basta leggere la sua autobiografia per capirlo.
Che Dio benedica Woody Allen nel suo novantesimo compleanno.