giovedì 9 ottobre 2025

Zvanì - Il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli

Giuseppe Piccioni

C’è del buono (e del meno buono) nella biografia di Giovanni Pascoli diretta da Giuseppe Piccioni, “Zvanì – Il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli”, sceneggiato da Sandro Petraglia. A volte il film usa la sua materia narrativa in modo addirittura didattico, anzi, “scolastico”. Se del poeta tutti conoscono “La cavallina storna”, qui vediamo proprio la cavallina storna nella stalla con la madre dopo l’assassinio del marito (per fortuna non viene messo in scena il “Sonò alto un nitrito” – o saremmo precipitati nel Kitsch). Ma forse è inevitabile: come un film su Leopardi (pure “Il giovane favoloso” di Martone) deve mostrarcelo davanti all’“ermo colle”. Entrano nel film molte poesie di Pascoli in voce over; l’effetto illustrativo è ottenuto, anche al costo di qualche eccesso.
Quel che più interessa a Piccioni, regista di buona sensibilità psicologica, è la figura interiore di Pascoli (un’eccellente interpretazione di Federico Cesari), destinato a sfociare in un rapporto con le sorelle Ida e Mariù pieno di gelosie e possessività in tema matrimoniale: un viluppo che, seppure platonico, ha qualcosa di avvelenato e perverso.
Un aspetto notevole del film è la commistione di passato e presente. Non solo perché il viaggio sul treno che riporta a casa la bara del poeta si apre in flashback che raccontano la sua storia, questa sarebbe ordinaria amministrazione, ma perché i morti si frammischiano ai vivi, siedono sui sedili accanto ai vivi assopiti, guardano passare il treno. O magari si rivolgono a noi: “Quando Giovanni se ne è andato [da Bologna] io ero già morto”, dice il fratello. Le inquadrature “astratte” di un personaggio che parla in macchina, guardandoci, su uno sfondo nero, sono frequenti nel film, e rappresentano il suo maggior motivo di interesse sul piano stilistico.

(Messaggero Veneto)


giovedì 2 ottobre 2025

Le città di pianura

Francesco Sossai

Il notevole Le città di pianura di Francesco Sossai, scritto con Adriano Candiago, cattura splendidamente l’universo veneto; e in particolare ci porta dentro il paesaggio veneto in tutte le sue possibili declinazioni: quello popolare (col rimpianto del posto dove si mangiavano le lumache con polenta migliori), quello classico-elevato (le ville), quello artistico (la descrizione di un “capriccio” della scuola del Veronese), nonché quello contemporaneo dei non-luoghi che si sovrimprimono sui precedenti e li cancellano (dice un personaggio: ci sono tante infrastrutture ma non un posto dove andare). Appare nuovo e originale, in un contesto così marcatamente locale, lo stile moderno del film, visibile fin dall’apertura, laddove ci aspetteremmo un cheto classicismo. Questo è dovuto anche all’eccellente lavoro di Luigi Kuveiller, direttore della fotografia; e va menzionato lo sperimentato montatore Paolo Cottignola (che ha lavorato con Olmi, Mazzacurati, Diritti).
Facciamo la conoscenza di Carlobianchi e Doriano (Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla, eccellenti), due figure rabelaisiane di ubriaconi seguaci della Diva Bottiglia, dai trascorsi poco commendevoli (furti in fabbrica). I primissimi piani di fortemente ravvicinati di questi due avvinazzati ottimisti sono un vero filo rosso visuale del film. Girano fra Treviso e Venezia bevendo continuamente “l’ultimo” bicchiere, costellando il viaggio di ziocàn. Dovrebbero recuperare un amico ed ex complice, di ritorno da un lungo esilio in Argentina, all’aeroporto; ma non hanno le idee chiare in proposito.
Per strada rapiscono” amichevolmente un giovane timido che studia architettura (Filippo Scotti), triste perché la ragazza che gli piace sembra preferirgli un cialtrone, e se lo portano dietro: così il film diventa un Bildungsroman, un racconto di formazione, in cui i due simpaticissimi sciagurati lo iniziano alla vita e alla capacità di prendere decisioni. Un po’ come ne Il sorpasso, ma senza tragedia.
Nota bene che bevendo i due hanno capito qual è il segreto del mondo, ma purtroppo l’hanno dimenticato. Quando ne parlano a Giulio, lui fa: “E’ il segreto del mondo mondo o del vostro mondo?” – “Che differenza c’è?” – “Appunto” (mangiati il fegato, Edmund Husserl!).
Il carattere di road movie del film lo rende necessariamente un po’ episodico, ma c’è una felicità di racconto nella cronaca di queste tappe, dove spiccano “lezioni” piacevoli e interessanti, come quella sull’utilità marginale (però la ricerca dell’“ultimo” fa eccezione), o quella sul “capriccio”, o la bellissima lezione di architettura su Carlo Scarpa visitando la Tomba Brion.
Chiaro che, sotto le bevute e le risate, serpeggia una vena di malinconia. Su un Veneto stravolto dalla modernità (è un imprevisto dolore, per noi spettatori, scoprire assieme ai nostri due la mitica trattoria “Da Mery”, quella delle lumache, chiusa e in rovina – come una Shangri-la perduta). Sui destini futuri: c’è nel film il vago sogno di un tesoro, un miraggio un po’ alla John Huston. E soprattutto sulla vita, su questo correre continuo dietro all’alcool e alla festa, mentre gli anni scivolano via: “Ma voi non crescete mai?”, dice il vecchio padre di uno; risposta: “Siamo troppo vecchi per crescere”.
Invero c’è una stanchezza nascosta nella festa continua; non stupisce che nel film s’intraveda la presenza sotterranea della morte. Tutto vero – ma c’è sempre tempo per l’ultimo bicchiere.