venerdì 31 ottobre 2025

Bugonia

Yorgos Lanthimos

Necessariamente, volendo seguire le premesse di Bugonia, il commento di questa superba satira andrà diviso in due parti. Ne approfitto per avvertire chi legge che la presente recensione non si preoccupa degli spoiler e rivela senza patemi d’animo il rovesciamento alla Swift della parte finale (un trick, peraltro, piuttosto prevedibile come possibilità narrativa, benché splendidamente gestito; e del resto, il film è il remake, su sceneggiatura di Will Tracy, di un film coreano abbastanza noto, Save the Green Planet!, scritto e diretto da Jang Joon-hwan).

Il linguaggio come produttore di senso, e quindi come costruzione del mondo, è uno dei temi principali di Yorgos Lanthimos, accanto al dominio, alla prigionia, al corpo fisico e le sue modificazioni. Anche il suo film più famoso, Povere creature!, è una versione geniale della storia di Frankenstein che risale al nocciolo del mito, ossia la formazione della coscienza di una creatura artificiale attraverso il linguaggio (un aspetto sempre messo in ombra nel cinema dal tema della mostruosità). Ancora di più ciò si può dire per Dogtooth – ed è interessante che anche questo film sia un remake, un’abile riscrittura di El castillo de la pureza di Arturo Ripstein.
Bugonia è una dimostrazione di come sia il linguaggio a costruire la “verità”: di qui tutte le paranoie complottiste. Il complottismo è una sorta di istituzione totale linguistica: è il trionfo di un mondo auto-costruito e auto-regolantesi, che recupera e ingloba nel proprio sistema qualsiasi dato di possibile opposizione. Come recita la storiella: “Gli elefanti della Francia sono bravissimi a mimetizzarsi” – “Ma non ci sono elefanti in Francia!” – “Lo vedi come sono bravi?”
Nel film, l’apicultore paranoico Ted (Jesse Plemons), che ha plagiato il cugino scemo Don (Aidan Delbis), è convinto che la ricca e potente CEO di una grande compagnia farmaceutica, Michelle Fuller (una monumentale Emma Stone), sia una aliena di alto rango inviata dall’Imperatore di Andromeda e capintesta di un’invasione che ha schiavizzato, e forse vuole distruggere, la razza umana – e che fra l’altro è colpevole della moria delle api. Infatti questi insetti fondamentali nell’ecosistema soffrono di una sindrome chiamata SSA (sindrome di spopolamento degli alveari), CCD in inglese, che ne sta drammaticamente riducendo la popolazione.
Nella splendida descrizione della paranoia complottista di Bugonia (è il miracolo del film di offrire un’illustrazione da manuale del sistema psicotico prima del sarcastico rovesciamento) è centrale il dettaglio dell’anti-sessualità. Già in apertura parlando dell’impollinazione tramite le api Ted dice “È come il sesso ma è più pulito. Nessuno si fa male”); in seguito lui e il (riluttante) cugino si castrano chimicamente con un’iniezione per “non sentire pulsioni e liberare la mente”. “Una volta uccisi i desideri, cosa che io ho fatto, il padrone di te stesso sarai tu”. Non ci pensiamo spesso ma le varie forme di cultismo complottista (compresa la deriva estremista del MeToo) si basano, esattamente al pari del fascismo con cui molto condividono, su un atteggiamento di difesa aggressiva nei riguardi della sessualità. Lanthimos, sempre molto attento ai meccanismi psicologici, non trascura il dettaglio.
Il film comprende un sguardo sarcastico anche sull’altra parte: il super-sfruttamento – stile Amazon – degli operai della compagnia di Michelle (dove al livello più basso lavora Ted) si accompagna a un linguaggio orwelliano “socialmente conscio”: un’“altra cultura” organizzativa per cui lei ripete ai colletti bianchi “Sentiti libero di andare a casa se non sei impegnato”. Ted ha anche un conto personale con Michelle: sua madre è in coma dopo un esperimento fallito condotto dalla sua compagnia.
I due rapiscono Michelle, la rapano a zero (perché i capelli, dice Fred, con gli alieni funzionano come un GPS) e la tengono prigioniera incatenata nella cantina della loro vecchia casa isolata. La tormentano fino alla tortura fisica per farle confessare la “verità” e convincerla a organizzare un incontro con l’Imperatore di Andromeda per “trattare la pace”. Va da sé che qualsiasi cosa possa dire Michelle per difendersi verrà interpretata come menzogna (perfino quando, nella disperazione, ammette di essere un’aliena!). Altra ossessione di Lanthimos: la prigionia, in senso psicologico: quello fra Ted e Michelle è un perverso gioco di dominio mentale, in un rapporto quanto mai inquietante, con punte volutamente estreme; la posta in gioco è l’influenza, chi dominerà chi. La serie di contorcimenti dialettici di questa partita, in un’eccezionale raccolta di doppi sensi stratificati, è macabra e affascinante. Al fondo, ma è un argomento troppo complesso per svilupparlo qui, il film è una dimostrazione in vitro dell’impossibilita della democrazia.

Poi arriva il rovesciamento: nella sua ultima parte con un’audacia geniale – che però si deve a Save the Green Planet! – il film procede a smantellare il proprio impianto narrativo e ridefinirlo interamente in senso apertamente sarcastico e distruttivo: non per niente menzionavo sopra Jonathan Swift. A sorpresa scopriamo che il pazzo era nel giusto. Ogni particolare del suo delirio, anche quelli minimi, si rivela essere la realtà.
Si potrebbe pensare che il passaggio da un universo concettuale/narrativo realistico a un altro fantastico crei uno iato nel film minandone l’unità. Il rischio c’è, ma non accade: perché il secondo è il rovesciamento speculare del primo, e quindi già implicito, e alluso, nello svolgimento, seppure in negativo; e perché comunque Bugonia contiene in sé quell’elemento di “realismo irreale” ch’è proprio di Lanthimos – e vedi Kinds of Kindness per esempio.
Tuttavia Ted, l’aspirante ambasciatore della razza umana presso gli Andromedani (destinato a una morte ridicola), ha capito tutto alla rovescia. Gli Andromedani non sono sulla Terra per invaderla ma per salvarla – ma con un piccolo problema per quel che ci riguarda. Un lunghissimo spiegone (ironico) che mescola in un solo costrutto tutte le ubbie della visione paranoica del mondo, da Atlantide in poi, ci dà la “vera versione” della storia dell’umanità: deriviamo da progetti genetici sciagurati e portiamo dentro di noi un elemento distruttivo. “Io stessa sono diventata più umana… più egoista e crudele”, dice l’Imperatrice sulla sua vita fra di noi.
A proposito di crudeltà, si scopre che Ted è un serial killer che rapiva, torturava e faceva a pezzi dei malcapitati per fargli confessare di essere Andromedani, e ne teneva delle parti in alcool come campioni “scientifici” (ecco una possibile origine del nome: è lecito pensare che si alluda al famoso serial killer Ted Bundy). Solo due dei rapiti erano effettivamente Andromedani, confessa Ted a Michelle. Chiaro che – nella logica illogica della folle parte finale – è a questi che Ted ha strappato i segreti più straordinari, ma veri nella diegesi, come quello sui capelli-GPS, o la descrizione esatta della nave spaziale Andromedana, che vediamo nel finale corrispondere esattamente a un suo disegno.
La sorpresa avvolta entro la sorpresa è, come accennavo, che quella degli Andromedani è una missione volta alla salvezza del pianeta; i loro esperimenti, compresi quelli sulla madre di Ted, erano indirizzati ad eliminare le tendenza distruttiva degli umani. Purtroppo hanno dato tutti esito negativo. Gli esseri umani, sentiamo, hanno messo in pericolo le vite che condividono. “Perciò crediamo che… il loro tempo finirà”. L’Imperatrice – con le lacrime agli occhi: aveva ben detto prima di essere diventata un po’ umana – aziona il meccanismo dello sterminio.
Se all’inizio, nella visione del mondo di Ted, il film sembrava una versione perversa de L’invasione degli ultracorpi (o della miniserie televisiva V), e più tardi, nel breve momento di relativa verità fra lui e Michelle, di Ultimatum alla Terra, sul finale si stende l’ombra di Stanley Kubrick, che è uno dei punti di riferimento di Lanthimos, con Il dottor Stranamore. La fine del mondo sulle note di una dolce canzone – ricontestualizzata. Su Where have all the flowers gone, cantata da Marlene Dietrich, vediamo tutti gli esseri umani ridotti d’un colpo a cadaveri: un Trionfo della Morte bruegeliano che indica ironicamente la vanità di tutto ciò che noi abbiamo ritenuto importante, uccidere per nutrirci, insegnare ai cuccioli, onorare i morti, pregare le divinità, ingegnarsi di salvare i malati… Vediamo una sala parto dove non nascerà nessuno, vediamo i nastri trasportatori vuoti dove lavorava Ted, vediamo un’inquadratura vuota della casa di lui e Don – e vediamo le api che impollinano i fiori.
Sul “nero” dei credits sentiamo i suoni della natura che rinasce, quello degli insetti e degli uccelli, quello dei tuoni e della pioggia. Il mondo continua – senza di noi. 

domenica 26 ottobre 2025

La ragazza del coro

Urška Djukić

Discutere il titolo dato in Italia a un film straniero, per inventarne un altro, è l’operazione più oziosa che ci sia. Tuttavia non posso fare a meno di pensare che per La ragazza del coro (lo sloveno Little Trouble Girls di Urška Djukić) sarebbe stato più adatto “L’uva acerba”, dal sapore francese/truffautiano che si adatta bene alla storia. Perché al di là di un episodio che vediamo (uva acerba mangiata dalla protagonista come penitenza di un peccato), l’uva ancora acerba è proprio la metafora della sua prima adolescenza, con le sue incertezze e le sue paure, che è l’argomento del film. Infatti nella conclusione la protagonista Lucia, adolescente cresciuta a giovane donna confidente al posto della ragazzina di prima, compra al mercato e mangia con gusto un ricco grappolo d’uva matura, sulle note della canzone del titolo originale, mentre appaiono i titoli di coda.
La ragazza del coro è un Bildungsroman – a prima vista, del tutto realistico. Racconta l’avventura della sedicenne Lucia (Jara Sofija Ostan), che canta nel coro della chiesa cattolica, in un viaggio dalla Slovenia a Cividale del Friuli assieme alle compagne, (decisamente più scafate di lei), alloggiate in convento, per le prove di un concerto da tenersi là. A casa Lucia vive una normale vita familiare, con una madre autoritaria, che la critica per essersi messa il rossetto quasi per gioco fra le compagne, ed è rassegnata accanto al marito che quando non è al lavoro dorme sul divano. Guardano insieme la televisione (niente scene spinte però!) mangiando cioccolata.
A differenza delle compagne Lucia non ha ancora avuto la prima mestruazione. C’è nel film un continuo discorso sulla verginità; quando le ragazze arrivano a Cividale e appare il Ponte del Diavolo, sentiamo la storia leggendaria del sacrificio di una vergine per costruire il ponte; c’è un interessante colloquio delle ragazze con una suora su come si vive il “nubilato”. Soprattutto, v’è un collegamento soggettivo fra Lucia e con la Madonna – o, come si dice, la Vergine. Una scena mostra in rapido montaggio una serie di edicole (tempietti) dedicati alla Madonna. Più tardi, nel gioco notturno di “obbligo o verità”, Lucia riceve l’ordine di baciare appassionatamente la ragazza più bella del convento – dopo un bel momento di sospensione, va, seguita dalle altre, fino alla statua della Vergine nell’atrio e incolla le sue labbra a quelle di marmo.
L’arrivo a Cividale è anche marcato dall’improvvisa visione di un uomo nudo sul greto del Natisone. Come si vedrà, è uno degli operai che lavorano nel cortile del convento, e che le ragazze spiano e commentano, arrivando a rubare la maglietta dell’uomo per annusarla. Lucia sperimenta il suo risveglio della sessualità; che comprende desideri e paure, pulsioni e sensi di colpa. In questo turbamento (Lucia poi ha già di suo una tendenza a perdersi nei suoi pensieri), la sua partecipazione al coro va a rotoli.
Il montaggio veloce di una serie di inquadrature in dettaglio di fiori in piena apertura esalta la loro natura fastosa, sensuale, insolentemente erotica. Un’ape che si introduce in un fiore, nella bella fotografia di Lev Predan Kowarski, non solo allude alla sessualità ma ci ricorda che basta il dettaglio molto ravvicinato, l’ingrandimento, per rendere fantastica la realtà. Infatti: all’interno di una narrazione apparentemente realista (almeno sino al finale) emergono nascostamente dei tratti, degli squarci, dei palpiti, che aprono nascostamente un’altra realtà; il film possiede il dono di un suo implicito surrealismo (che storicamente è molto presente nel cinema est-europeo) nel trattare la sessualità nascente, la passione, la paura. Tanto che risale alla memoria un film cecoslovacco di Jaromir Jireš, che non era un regista surrealista ma in quel caso, 1970, sì: Valerie a týden divú (Valerie and Her Week of Wonders), che è molto diverso, eppure sembra un parallelo (interamente onirico) di questo film.
La rottura della mano della statua della Madonna in atrio, che – sappiamo – è stata rotta dagli operai, in un’allucinazione, è causata da Lucia; non sarebbe sbagliato collegarlo con la scena (pudica come tutto il film) della masturbazione. È da notare che l’amica Ana-Maria non rappresenta soltanto un’irridente ateismo favorevole alla sessualità senza pensieri (“Siamo animali”): figura di tentatrice, eppure desiderata, Ana-Maria è più volte connotata da inquadratura e illuminazione sotto il segno del demoniaco.
L’ardire di Lucia da sola di spiare (e fotografare) l’operaio nudo sul greto del fiume porta a un loro incontro muto da vicino: che a prima vista sembra un difetto del film, uno sviluppo alla David Herbert Lawrence che si oppone alla sua atmosfera di leggerezza delle sensazioni; ma non lo è, se nell’interminabile inquadratura che li vede insieme, di profilo in silenzio, prima che Lucia fugga, riconosciamo il motivo classico dell’incontro col fauno.
Non sappiamo come sia proseguita la vita di Lucia, né la sua partecipazione al coro. Ma certo l’immagine della ragazza che vediamo alla fine del film ci dice, in un modo che potremmo definire trionfale, che l’uva è non è più acerba.

martedì 21 ottobre 2025

Giornate del Cinema Muto 2025

 

Accanto all'applauditissimo “Cirano de Bergerac” di Augusto Genina, che ha aperto con successo le Giornate del Cinema Muto sabato sera, anche la programmazione del pomeriggio ha contenuto le consuete gemme (bellissimo, fra i nuovi Griffith restaurati, “Romance of a Jewess”, dove la narrazione in interni si apre in due brevi squarci autentici sul quartiere ebreo newyorkese del Lower East Side degni del neorealismo). Ma un'assoluta sorpresa è stata il film ucraino “Tre”.
Vladimir Majakovskij scrisse sette sceneggiature per il cinema, ma solo due trovarono la strada dello schermo. Una è “Tre” (“Troye”), deliziosa commedia giovanile diretta da Oleksandr Solovyov e presentata dalle Giornate nell'ambito della rassegna sul cinema ucraino per ragazzi. Questo cinema (spiega Ivan Kozlenko sul catalogo del festival) era considerato “meno serio” di quello per il pubblico adulto, pur mantenendo l'obbligatoria impostazione ideologica; di conseguenza godeva di budget più limitati, però gli era concessa una vena di relativa libertà.
Girato con grande inventiva, con la bellissima fotografia di Albert Kuhn,“Tre” mette a confronto tre esistenze di ragazzini, che confluiscono alla fine nell'associazione dei Pionieri (una specie di boy scout ideologizzati). Zhorzhik è figlio di un ricco borghese; siamo nel 1928 e quindi il film allude qui a un “nepman”, un arricchito della Nuova Politica Economica di relativa apertura. Tuttavia è attratto dall'“altra parte”, i Pionieri comunisti aborriti dal padre. Senka è un ragazzo di strada, uno dei tanti che rappresentavano una vera piaga sociale dell'epoca; la presentazione è buffamente esagerata, una specie di Robinson Crusoe vestito di stracci che dorme in una barca in compagnia di due pantegane bianche. Il terzo è il piccolo Miska, Pioniere convinto, la classica figura positiva – però un minimo d'ironia ci scappa anche qui, quando vediamo questo bambino studiare, per un discorso, “Das Kapital”. Quando due vagabondi rapiscono Senka scambiandolo per Zhorzhik a scopo di riscatto, il racconto si ispira al famoso racconto di O. Henry “Il riscatto di Capo Rosso”.
La comicità sia dei due banditi sia del padre borghese inguaribilmente stupido si contrappone alla felicità solare del collettivismo dei Pionieri. Ma quello che soprattutto colpisce nel film è l'allegra libertà dello stile. Rovesciamenti di inquadratura e accelerazioni nella fotografia, gustose divagazioni e ghiribizzi nella narrazione rendono sorprendente questo film girato nell'epoca in cui si stava imponendo l'ordine spesso plumbeo del “realismo socialista”. Basta menzionare la bellissima digressione su una famiglia proletaria strapiena di bambini piccoli, che ne fanno di tutti i colori, con una sfrontatezza che non si sarebbe trovata neppure nel cinema americano coevo delle “piccole canaglie”. La felice libertà narrativa di “Tre” ricorda, se cerchiamo un paragone nel cinema “adulto” di allora, un nome in particolare: quello del grande, e troppo poco ricordato, Boris Barnet.

(Messaggero Veneto)


Un capolavoro di Fritz Lang, proiettato in una copia bellissima con un grande accompagnamento musicale di Ilya Poletaev, ha impreziosito la domenica delle Giornate del Cinema Muto. “Der müde Tod” (ossia “La Morte stanca”), del 1921, fu scritto con Lang da Thea von Harbou, allora sua moglie, che fra l'altro vi porta quel gusto per l'allegoria presente anche nel loro “Metropolis”. In Italia il film fu conosciuto come “Destino” o, con traduzione del titolo francese, “Le tre luci”.
Tre luci: tre fiammelle che stanno per estinguersi nella grande stanza delle candele, dove ogni candela rappresenta una vita umana, nel palazzo della Morte. Poiché la Morte ha rapito il giovane fidanzato di una ragazza (la grande Lil Dagover), costei riesce a recarsi nel suo palazzo per implorare che le venga restituito. Bisogna tener presente che in tedesco come in inglese e nelle lingue nordiche “morte” è maschile, e quindi viene raffigurata come un uomo (ricordate il bergmaniano “Il settimo sigillo”?). La Morte, che qui ha il volto severo di Bernhard Goetzke, è appunto stanca del suo lavoro, che è quello di semplice esecutore dei decreti del destino. Di fronte alle implorazioni della ragazza, le concede di restituirle il promesso sposo se lei riuscirà a salvare almeno una vita, una delle tre fiammelle, in tre esistenze differenti.
Così il film si sviluppa in tre episodi, dove ritornano gli stessi volti, a significare l'ossessivo, inesorabile ritorno del fato nelle nostre vite. Questi tre racconti sono tre diverse incarnazioni del “meraviglioso” cinematografico; con tale struttura narrativa Fritz Lang realizza anche un catalogo delle possibilità del cinema, ricorrendo a una superba varietà di stili, mescolando ora un forte realismo ora una semi-astrazione “espressionista” in una salda unità. Una storia di carattere simbolista fa da cornice, aprendo e chiudendo il film, ai tre racconti caratterizzati dall'elemento esotico frequente nel cinema tedesco dell'epoca. Un esotismo realistico nel primo, che si svolge in una Bagdad dove la sorella del califfo è l'amante segreta di un “franco”, cioè un infedele occidentale, e quando questi è catturato cerca invano di salvargli la vita. Il fascino anch'esso esotico del passato e del cinema in costume nel secondo, ambientato in una Venezia rinascimentale dove una dama, destinata a sposare un nobile crudele, cerca di salvare il suo innamorato dalla vendetta del potente: la conclusione è una tragica beffa da tragedia elisabettiana. Infine, l'esotismo di una Cina puramente fiabesca dove Lang si getta pienamente nel fantastico, con una gustosa ironia, riempiendo l'episodio di piacevolissimi trucchi fotografici.
Per la splendida costruzione dell'inquadratura, con effetti pittorici (e citazioni), Lang usò tre diversi direttori della fotografia. Lil Dagover naturalmente interpreta tutte queste incarnazioni della donna che si batte contro la potenza del destino; ed è questo, il destino, il tema che attraverserà tutto il cinema langhiano.

(Messaggero Veneto)

Com'è giusto le Giornate del Cinema Muto mettono alla sera il film che ritengono più importante, e ieri sera, lunedì, "Zingari" di Mario Almirante, 1920, era buono, con tratti di sguardo "folkloristico" e una bella interpretazione energica di Italia Almirante Manzini. Ma come filmone di lunedì ne scelgo uno di 17 minuti che ha aperto la giornata: "The Taming of the Shrew" (1908) di David Wark Griffith, unico film shakespeariano del maestro. Proprio quello che fu rimproverato al breve adattamento, una fisicità che sfocia nel farsesco, oggi ci appare moderno e irresistibile. Florence Lawrence nel ruolo di Caterina, la bisbetica domata, è perfetta. Bisogna vederla che si aggira con una grinta che non promette nulla di buono e copre d'insulti e botte tutti i poveracci che la circondano. Petruccio a sua volta riuscirà a domarla terrorizzando i domestici, ridotti a un ammasso umano tremante sotto le sferzate.
La grande, e sfortunata in vita, Florence Lawrence (che fu la "Biograph Girl" originale), si guadagna con questo film un bel posto nella galleria del Bardo al cinema.

Se durante la visione del film devi furtivamente asciugarti qualche lacrima, che dire?, non c'è dubbio su quale sia il filmone di martedì alle Giornate del Cinema Muto. "Lian'ai Yu Yiwu / Love and Duty", Cina 1931, è uno splendido melodramma diretto da Bu Wancang, prodotto dalla Lianhua, che era lo studio progressista di Shanghai, e interpretato dalla grandissima Ruan Lingyu, la diva cinese per eccellenza dell'epoca.
La sua è un'interpretazione potente e stratificata: non perché raddoppia brevemente il suo ruolo interpretando, oltre che la madre da anziana, la figlia (che non sa di esserlo), ma perché copre con l'ausilio del trucco un'intera vita, da adolescente a donna adulta a vecchia sdentata, sempre con una profondità e un'aderenza interpretativa appassionanti.
L'affetto materno è il filo conduttore di questa storia di una donna che fugge da un matrimonio combinato dal padre per unirsi all'uomo che ama, e dopo la morte di questi si sacrifica per la figlia avuta con lui, nel contempo disperandosi per i due figli lasciati al marito che ignorano la sua esistenza. Il suo pianto espresso o trattenuto - tutti i personaggi piangono spesso nel film - tocca il cuore: come per la Renée Falconetti di Dreyer, non è recitazione esteriore ma stupefacente immedesimazione.

Una delizia, mercoledì alle Giornate del Cinema Muto, "Lagourdette gentleman cambrioleur" (1916), in cui un Louis Feuillade autoparodistico scherza assieme a Musidora sul loro geniale serial "Les Vampires" dell'anno precedente. Ma se devo scegliere "il" filmone della giornata, è il dramma "Die Dame mit der Maske" di Wilhelm Thiele, Germania 1928.
Nella Weimar dell'inflazione (bella introduzione filmata di Hans Richter) una aristocratica, per sbarcare il lunario insieme al barone suo padre, accetta - all'insaputa del vecchio gentiluomo - di esibirsi a teatro seminuda, col patto di avere il volto coperto da una maschera. Ruotano attorno a lei complicazioni e desideri, come quello di un grasso e prepotente arricchito (però per ogni personaggio c'è al fondo una comprensione umana).
Wilhelm Thiele dirige nello stile sontuoso del "Grande Muto". Arlette Marchal interpreta con grande distinzione (e in un ruolo non protagonista c'è anche Dita Parlo!)

Giovedì alle Giornate del Cinema Muto: quale scegliere come tradizionale "filmone" in una giornata splendida? Il magnifico uso dello spazio in un film del 1913, il famoso "Gli ultimi giorni di Pompei" di Eleuterio Rodolfi? Il perverso "homo homini lupus" di Abel Gance, "Le droit à la vie", del 1917? Per non parlare del nostro-sempre-nostro Chaplin.
Oppure - ecco! - "The White Heather" di Maurice Tourneur, del 1919, che inizia ingannevolmente sottotono per poi scatenarsi in quel particolarissimo incrocio di realismo e astrazione che rappresenta il marchio di fabbrica di questo regista geniale. Certe sue soluzioni pittoriche fanno venire un colpo al cuore quando appaiono sullo schermo. "The White Heather" parte come un melodramma e si conclude come un film d’avventura, con la grande scena della lotta subacquea fra i due palombari, che però non è l'unica a fornire immagini indimenticabili. Tutti parlano sempre, giustamente, della grandezza di Jacques Tourneur, ma noi amanti del cinema muto sappiamo che suo padre non era affatto da meno.


Venerdì son potuto andare solo la mattina, alle Giornate del Cinema Muto, ma non mi sono mancati tre buoni film. Il filmone è “Världens grymheit” (La crudeltà del mondo), 1912, film d’esordio di Victor Sjöström, che fu censurato e non uscì mai in Svezia. Nella storia di una ragazza perseguitata da un possidente mascalzone, le inquadrature della natura hanno una tersa bellezza propria del cinema nordico, con i protagonisti che vi si inseriscono, anche con sensualità, senza soverchiarla.
Diversissimo ma notevole l’italiano “La piccola parrocchia”, 1923, di Mario Almirante, con la diva Italia Almirante Manzini, che era sua cugina. Figura senz’altro interessante, Mario Almirante mostra in questo complesso e variegato melodramma una propensione per il simbolo. Infine, è sciolto e divertente “Il siluramento dell’Oceania”, un giallo avventuroso di Augusto Genina del 1917 – dove fra l’altro la figura del maggiordomo Fedele (nomen omen) si inserisce nella nuova voga dei forzuti. E infatti Alfredo Boccolini diventerà Galaor.


Ogni anno ci si sente un po’ soli e abbandonati, come Cosetta, alla fine delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone. Nel sabato di chiusura sono riuscito a vedere solo due film imperdibili: al mattino “The Scarlet Drop” di John Ford (1918), riscoperto in Cile, e la sera il bellissimo, inutile dirlo, “Our Hospitality” (1923) di Buster Keaton e Jack Blystone (Buster, a differenza di altri, segnalava sempre i suoi collaboratori alla regia).
Ogni volta la riscoperta di un film di John Ford del primo periodo (lui all’inizio si firmava Jack Ford, e per gli amici fu Jack tutta la vita) è un regalo e un miracolo. Anche qui c’è molto da ricordare, anche al di là dell’uso fordiano del paesaggio. Sul piano narrativo, l’accenno alla guerra civile – la grande ferita sanguinante dei western di Ford – con l’inquadratura di un Lincoln addolorato ma determinato che apre il film, e la vivace descrizione della frattura di classe nella società bianca del Sud, con Harry Carey a piedi nudi contro i ricchi Calvert. Sul piano visuale menziono il bellissimo uso del buio, nonché una scena stupefacente in cui Molly Malone innamorata vede il viso di Harry Carey (sovrimpressione) nella pietra scura del suo anello.
Sul restauro ci sarebbe qualcosa da dire. Il film ci è pervenuto in cattive condizioni: non solo manca un’intera bobina ma la parte salvata è alquanto lacunosa e mancano molte didascalie. L'aspetto visivo è ok ma sarebbe stato assai opportuno che la copia restaurata contenesse dei cartelli che chiarifichino le parti mancanti. Personalmente ho dovuto consultare, dopo la visione, la scheda del catalogo per capire cosa succede.
Sapete, questi recuperi di tesori nascosti, che rispuntano all’improvviso da collezioni e cineteche, sono l’aspetto più emozionante dell’amore per il cinema muto. Tengono viva la speranza!

sabato 18 ottobre 2025

La memoria del buio

Lorenzo Bianchini

La memoria del buio di Lorenzo Bianchini è già presente in streaming a pagamento, in Italia e in molti paesi del mondo; ma è stata, a Udine, una bella opportunità quella di vederlo su grande schermo – una dimensione che esalta la sua natura di onirico e angoscioso viaggio nel buio. Lorenzo Bianchini ha realizzato anche film di contenuto impegno produttivo, come lo splendido non-horror L’angelo dei muri; ma ogni tanto si concede qualche film realizzato “a zero budget” come questo, girato con una troupe di sole sei persone e quasi in un unico ambiente, richiamando le sue origini di cineasta super-indipendente.
Il film infatti si svolge quasi interamente in una fabbrica di amido dismessa, pura archeologia industriale, che il protagonista Paolo Rinaldi (Paolo Fagiolo), fotografo spiantato e mollato dalla moglie per la sua ludopatia, ha appunto un contratto per fotografare.
Ricordiamo che gli ambienti polverosi e abbandonati sono molto presenti nei film di Lorenzo Bianchini, e per esempio se ne può menzionare il perfetto impiego in uno dei suoi film horror più belli, Oltre il guado: è un cinema, il suo, che ama mettere in risalto le caratteristiche evocative del passato possedute tanto da luoghi quanto da singoli oggetti, con la loro silenziosa malinconia. In questo senso un riferimento che balza alla memoria è Pupi Avati.
Accade che, ingrandendo sul computer le foto che ha preso nella fabbrica, Paolo si accorge che a terra vi sono dei biglietti da 50 euro. Precipitarsi di notte nell’edificio per raccogliere il gruzzolo è un tutt’uno. Ma oltre ai soldi Paolo trova più di quanto si aspetti: droga in sacchetti rotti e corpi di morti ammazzati. Inoltre c’è un criminale (Marco Marchese) 
ferito alla gamba, sopravvissuto al regolamento di conti, che lo minaccia con la pistola per farsi aiutare.
Portato a casa di Paolo per fasciarsi, il bandito – azzoppato com’è – deve patteggiare con l’altro un aiuto nella ricerca di una borsa piena di denaro che è rimasta in loco. Così eccoli di ritorno, con torce elettriche, nel tetro ambiente: dove è tutto un frugare, nascondersi, ritrovarsi, sospettarsi, minacciarsi (ma anche trovare momenti di bizzarra confidenza), con una tensione sfibrante, in una ricerca sempre più complicata e frustrante che li porta da una stanza all’altra, ambienti assolutamente sinistri nel loro abbandono. E la storia si tinge di horror quando i morti cominciano ad apparire dove non dovrebbero essere.
La ricerca sempre più nervosa di Paolo e del bandito zoppicante diventa così un viaggio nell’incubo. Bellissimo nel film l’uso del buio, sovrano, quasi solido; l’uso nervoso delle torce elettriche, unica fonte di illuminazione, ridefinisce l’esistente e crea un gioco di strane ombre. La memoria del buio potrebbe sembrare un Kammerspielma è tutt’altro. Perché questo spazio chiuso sembra aprirsi e moltiplicarsi (“geometrie che si scompaginano”, diceva il regista in un intervento), come un caleidoscopio spaziale. Il concetto geometrico di tessaract è quello che si può più avvicinare a questa concezione. L’unità di luogo si amplia e si stravolge; quella volatilità delle coordinate spaziali che è propria del mondo onirico trasforma la fabbrica in
un labirinto.
E se questo accade allo spazio, non è troppo strano che anche al tempo succeda la stessa cosa... 

giovedì 9 ottobre 2025

Zvanì - Il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli

Giuseppe Piccioni

C’è del buono (e del meno buono) nella biografia di Giovanni Pascoli diretta da Giuseppe Piccioni, “Zvanì – Il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli”, sceneggiato da Sandro Petraglia. A volte il film usa la sua materia narrativa in modo addirittura didattico, anzi, “scolastico”. Se del poeta tutti conoscono “La cavallina storna”, qui vediamo proprio la cavallina storna nella stalla con la madre dopo l’assassinio del marito (per fortuna non viene messo in scena il “Sonò alto un nitrito” – o saremmo precipitati nel Kitsch). Ma forse è inevitabile: come un film su Leopardi (pure “Il giovane favoloso” di Martone) deve mostrarcelo davanti all’“ermo colle”. Entrano nel film molte poesie di Pascoli in voce over; l’effetto illustrativo è ottenuto, anche al costo di qualche eccesso.
Quel che più interessa a Piccioni, regista di buona sensibilità psicologica, è la figura interiore di Pascoli (un’eccellente interpretazione di Federico Cesari), destinato a sfociare in un rapporto con le sorelle Ida e Mariù pieno di gelosie e possessività in tema matrimoniale: un viluppo che, seppure platonico, ha qualcosa di avvelenato e perverso.
Un aspetto notevole del film è la commistione di passato e presente. Non solo perché il viaggio sul treno che riporta a casa la bara del poeta si apre in flashback che raccontano la sua storia, questa sarebbe ordinaria amministrazione, ma perché i morti si frammischiano ai vivi, siedono sui sedili accanto ai vivi assopiti, guardano passare il treno. O magari si rivolgono a noi: “Quando Giovanni se ne è andato [da Bologna] io ero già morto”, dice il fratello. Le inquadrature “astratte” di un personaggio che parla in macchina, guardandoci, su uno sfondo nero, sono frequenti nel film, e rappresentano il suo maggior motivo di interesse sul piano stilistico.

(Messaggero Veneto)


giovedì 2 ottobre 2025

Le città di pianura

Francesco Sossai

Il notevole Le città di pianura di Francesco Sossai, scritto con Adriano Candiago, cattura splendidamente l’universo veneto; e in particolare ci porta dentro il paesaggio veneto in tutte le sue possibili declinazioni: quello popolare (col rimpianto del posto dove si mangiavano le lumache con polenta migliori), quello classico-elevato (le ville), quello artistico (la descrizione di un “capriccio” della scuola del Veronese), nonché quello contemporaneo dei non-luoghi che si sovrimprimono sui precedenti e li cancellano (dice un personaggio: ci sono tante infrastrutture ma non un posto dove andare). Appare nuovo e originale, in un contesto così marcatamente locale, lo stile moderno del film, visibile fin dall’apertura, laddove ci aspetteremmo un cheto classicismo. Questo è dovuto anche all’eccellente lavoro di Luigi Kuveiller, direttore della fotografia; e va menzionato lo sperimentato montatore Paolo Cottignola (che ha lavorato con Olmi, Mazzacurati, Diritti).
Facciamo la conoscenza di Carlobianchi e Doriano (Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla, eccellenti), due figure rabelaisiane di ubriaconi seguaci della Diva Bottiglia, dai trascorsi poco commendevoli (furti in fabbrica). I primissimi piani di fortemente ravvicinati di questi due avvinazzati ottimisti sono un vero filo rosso visuale del film. Girano fra Treviso e Venezia bevendo continuamente “l’ultimo” bicchiere, costellando il viaggio di ziocàn. Dovrebbero recuperare un amico ed ex complice, di ritorno da un lungo esilio in Argentina, all’aeroporto; ma non hanno le idee chiare in proposito.
Per strada rapiscono” amichevolmente un giovane timido che studia architettura (Filippo Scotti), triste perché la ragazza che gli piace sembra preferirgli un cialtrone, e se lo portano dietro: così il film diventa un Bildungsroman, un racconto di formazione, in cui i due simpaticissimi sciagurati lo iniziano alla vita e alla capacità di prendere decisioni. Un po’ come ne Il sorpasso, ma senza tragedia.
Nota bene che bevendo i due hanno capito qual è il segreto del mondo, ma purtroppo l’hanno dimenticato. Quando ne parlano a Giulio, lui fa: “E’ il segreto del mondo mondo o del vostro mondo?” – “Che differenza c’è?” – “Appunto” (mangiati il fegato, Edmund Husserl!).
Il carattere di road movie del film lo rende necessariamente un po’ episodico, ma c’è una felicità di racconto nella cronaca di queste tappe, dove spiccano “lezioni” piacevoli e interessanti, come quella sull’utilità marginale (però la ricerca dell’“ultimo” fa eccezione), o quella sul “capriccio”, o la bellissima lezione di architettura su Carlo Scarpa visitando la Tomba Brion.
Chiaro che, sotto le bevute e le risate, serpeggia una vena di malinconia. Su un Veneto stravolto dalla modernità (è un imprevisto dolore, per noi spettatori, scoprire assieme ai nostri due la mitica trattoria “Da Mery”, quella delle lumache, chiusa e in rovina – come una Shangri-la perduta). Sui destini futuri: c’è nel film il vago sogno di un tesoro, un miraggio un po’ alla John Huston. E soprattutto sulla vita, su questo correre continuo dietro all’alcool e alla festa, mentre gli anni scivolano via: “Ma voi non crescete mai?”, dice il vecchio padre di uno; risposta: “Siamo troppo vecchi per crescere”.
Invero c’è una stanchezza nascosta nella festa continua; non stupisce che nel film s’intraveda la presenza sotterranea della morte. Tutto vero – ma c’è sempre tempo per l’ultimo bicchiere.