Giuseppe Piccioni
C’è
del buono (e del meno buono) nella biografia di Giovanni Pascoli
diretta da Giuseppe Piccioni, “Zvanì – Il romanzo famigliare di
Giovanni Pascoli”, sceneggiato da Sandro Petraglia. A volte
il film usa
la sua materia narrativa in
modo addirittura didattico,
anzi,
“scolastico”.
Se del poeta tutti conoscono “La cavallina storna”, qui vediamo
proprio la cavallina storna nella stalla con
la madre dopo l’assassinio del marito
(per
fortuna non
viene messo in scena il “Sonò alto un nitrito” – o
saremmo precipitati nel
Kitsch). Ma forse
è inevitabile: come un film su Leopardi (pure
“Il giovane favoloso” di Martone) deve mostrarcelo davanti
all’“ermo colle”. Entrano
nel film molte
poesie di Pascoli in voce
over; l’effetto illustrativo è ottenuto,
anche al costo di qualche
eccesso.
Quel
che più interessa a Piccioni, regista di buona
sensibilità psicologica, è la figura interiore di Pascoli
(un’eccellente
interpretazione di Federico Cesari),
destinato a sfociare in un rapporto
con le
sorelle Ida e Mariù pieno di
gelosie e possessività
in
tema matrimoniale:
un viluppo che, seppure
platonico, ha qualcosa di avvelenato e perverso.
Un
aspetto notevole del film è la commistione di passato e presente.
Non solo perché il viaggio sul treno che riporta a casa la bara del
poeta si apre in flashback che raccontano la sua storia, questa
sarebbe ordinaria amministrazione, ma perché i morti si
frammischiano ai vivi, siedono sui sedili accanto ai vivi assopiti,
guardano passare il treno. O magari si rivolgono a noi: “Quando
Giovanni se ne è andato [da Bologna] io ero già morto”, dice il
fratello. Le inquadrature “astratte” di un personaggio che parla
in macchina, guardandoci, su uno sfondo nero, sono frequenti nel
film, e rappresentano il suo maggior motivo di interesse sul piano
stilistico.
(Messaggero Veneto)