Jonathan Glazer
La
Shoah ha rappresentato un punto di non ritorno non perché sia stata
il primo genocidio nella storia dell’umanità (già Hitler diceva
che poteva sterminare gli ebrei perché c’era stato il precedente
dei turchi sugli armeni) ma per la sua natura industriale: non la
furia cieca della barbarie scatenata come i turchi, ma la fredda e
razionale organizzazione “ingegneristica” da parte di una civiltà
culturalmente evoluta e tecnicamente all’avanguardia. Esattamente
questo è Rudolf Höss (Christian Friedel), comandante del campo di
sterminio di Auschwitz, nel doloroso e bellissimo La zona d’interesse
di Jonathan Glazer: uno scrupoloso ingegnere del massacro, molto
apprezzato dai superiori e sempre più calato nel ruolo. Verso la
fine del film lo vediamo partecipare a una festa, guardare gli
invitati (tedeschi) da un’alta balconata e calcolare quali
sarebbero i problemi tecnici per gasarli tutti.
Sarebbe
meno orribile se fosse un Jack lo Squartatore con la bava alla bocca,
ma è un affettuoso padre di famiglia: famiglia che abita esattamente
di fronte al campo di sterminio, in una villa di cui la moglie Hedwig
(Sandra Hüller di Anatomia di una caduta) cura e abbellisce
l’amatissimo giardino. L’orrore è l’Altra Parte; è nascosto
da un muro che esclude – tanto ai personaggi quanto a noi
spettatori – la vista (salvo le alte ciminiere dei forni che
eruttano fumo e luce rossastra), ma non il suono: urla e colpi d’arma
da fuoco.
Non
è, questa, una tragedia dell’ignoranza ovvero del non voler
vedere: Hedwig, le sue amiche, sua madre, stanno al termine di questa
catena di montaggio del massacro e si spartiscono i beni degli ebrei
assassinati, discutendone placidamente come noi faremmo sulle offerte
al supermercato – o come fanno i russi sui saccheggi in Ucraina.
Quando è irritata per la scomparsa della madre, Hedwig sfoga il suo
malumore sulle polacche costrette a servirla, minacciando di parlare
al marito per fare spargere in terra le loro ceneri.
Il
campo di sterminio nel film è quindi il gigantesco controcampo
negato della serena quotidianità borghese di questa famiglia, dove
l’unico incidente è un litigio coniugale su un trasferimento del
marito (Hedwig si rifiuta di lasciare la casa). Mentre il romanzo di
Martin Amis che ha liberamente ispirato il film contiene una storia
“forte” (un uomo si innamora della moglie del comandante del
campo e questi incarica un membro di un Sonderkommando di ucciderlo),
il film di Jonathan Glazer contiene la pura vita quotidiana: i
bambini che vanno a scuola, un picnic sul lago, una festa di
compleanno, la visita della madre che ammira il guardino, “angolo
di Paradiso”. Come per ogni censura e per ogni preterizione, il non
detto ha più potenza del detto, il non mostrato evidenzia ciò che
evita di mostrare.
Compaiono,
ma visibili solo per noi, orripilanti analogie tra il fumo domestico
di sigari o sigarette e quello dei forni crematori, il forno in cui
brucia la strega della fiaba di Hansel e Gretel (letta da Höss alle
sue bambine) e i forni al di là del muro. Similmente, è il dialogo
vivo del film con noi spettatori a lasciarci il compito di cogliere
alcune piccole incrinature. Penso per esempio al sonnambulismo di una
delle bambine (laddove una ricorrente parte “onirica” appare
piuttosto inutile), o la misteriosa fuga della madre. Oppure, a
rovescio, il nazismo in erba del figlio adolescente; quando fa al
fratellino un brutto scherzo chiudendolo nella serra, questa è
certamente la stupidità dispettosa degli adolescenti sotto ogni
cielo, ma non possiamo non vedere la crudeltà nazista in filigrana.
Ecco
il grande problema sia artistico sia morale del cinema: come
raccontare la Shoah – come mostrare il non mostrabile – senza
cadere nel finto, oppure, peggio, nella pornografia dell’orrore
(occorre ricordare la polemica su Pontecorvo?). Un risultato molto
alto l’ha ottenuto nel 2015 Laszló Nemes con Il figlio di Saul,
dove la macchina da presa rimane ancorata al primissimo piano e il
resto è fuori fuoco. In modo diverso, Jonathan Glazer raggiunge un
analogo risultato lavorando sul fuori campo.
Solo
in un momento il film abbandona – con estrema potenza – questa
politica del controcampo negato; ed è alla fine. Rudolf Höss sta
scendendo per lo scalone di un palazzo, vuoto d'ogni anima viva (già
questo è onirico); due volte si ferma per degli indicativi conati di
vomito a vuoto. Nei vasti corridoi deserti e bui, il suo sguardo è
attratto da una piccola luce che brilla. Ebbene, quella luce dà su
una porta che si apre e siamo nella Auschwitz di oggi, trasformata in
museo della Shoah, con delle donne che fanno le pulizie. Vediamo per
la prima volta i forni; vediamo i cumuli di valigie, coi nomi scritti
sopra che gridano ancora l’inganno, la montagna di scarpe, le
grucce accatastate. Dopo un corridoio con fotografie di vittime,
l'immagine ritorna a Höss nel corridoio che guarda (dove?), riprende
a camminare, esce di scena.
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