sabato 2 marzo 2024

La zona d'interesse

Jonathan Glazer

La Shoah ha rappresentato un punto di non ritorno non perché sia stata il primo genocidio nella storia dell’umanità (già Hitler diceva che poteva sterminare gli ebrei perché c’era stato il precedente dei turchi sugli armeni) ma per la sua natura industriale: non la furia cieca della barbarie scatenata come i turchi, ma la fredda e razionale organizzazione “ingegneristica” da parte di una civiltà culturalmente evoluta e tecnicamente all’avanguardia. Esattamente questo è Rudolf Höss (Christian Friedel), comandante del campo di sterminio di Auschwitz, nel doloroso e bellissimo La zona d’interesse di Jonathan Glazer: uno scrupoloso ingegnere del massacro, molto apprezzato dai superiori e sempre più calato nel ruolo. Verso la fine del film lo vediamo partecipare a una festa, guardare gli invitati (tedeschi) da un’alta balconata e calcolare quali sarebbero i problemi tecnici per gasarli tutti.
Sarebbe meno orribile se fosse un Jack lo Squartatore con la bava alla bocca, ma è un affettuoso padre di famiglia: famiglia che abita esattamente di fronte al campo di sterminio, in una villa di cui la moglie Hedwig (Sandra Hüller di Anatomia di una caduta) cura e abbellisce l’amatissimo giardino. L’orrore è l’Altra Parte; è nascosto da un muro che esclude – tanto ai personaggi quanto a noi spettatori – la vista (salvo le alte ciminiere dei forni che eruttano fumo e luce rossastra), ma non il suono: urla e colpi d’arma da fuoco.
Non è, questa, una tragedia dell’ignoranza ovvero del non voler vedere: Hedwig, le sue amiche, sua madre, stanno al termine di questa catena di montaggio del massacro e si spartiscono i beni degli ebrei assassinati, discutendone placidamente come noi faremmo sulle offerte al supermercato – o come fanno i russi sui saccheggi in Ucraina. Quando è irritata per la scomparsa della madre, Hedwig sfoga il suo malumore sulle polacche costrette a servirla, minacciando di parlare al marito per fare spargere in terra le loro ceneri.
Il campo di sterminio nel film è quindi il gigantesco controcampo negato della serena quotidianità borghese di questa famiglia, dove l’unico incidente è un litigio coniugale su un trasferimento del marito (Hedwig si rifiuta di lasciare la casa). Mentre il romanzo di Martin Amis che ha liberamente ispirato il film contiene una storia “forte” (un uomo si innamora della moglie del comandante del campo e questi incarica un membro di un Sonderkommando di ucciderlo), il film di Jonathan Glazer contiene la pura vita quotidiana: i bambini che vanno a scuola, un picnic sul lago, una festa di compleanno, la visita della madre che ammira il guardino, “angolo di Paradiso”. Come per ogni censura e per ogni preterizione, il non detto ha più potenza del detto, il non mostrato evidenzia ciò che evita di mostrare.
Compaiono, ma visibili solo per noi, orripilanti analogie tra il fumo domestico di sigari o sigarette e quello dei forni crematori, il forno in cui brucia la strega della fiaba di Hansel e Gretel (letta da Höss alle sue bambine) e i forni al di là del muro. Similmente, è il dialogo vivo del film con noi spettatori a lasciarci il compito di cogliere alcune piccole incrinature. Penso per esempio al sonnambulismo di una delle bambine (laddove una ricorrente parte “onirica” appare piuttosto inutile), o la misteriosa fuga della madre. Oppure, a rovescio, il nazismo in erba del figlio adolescente; quando fa al fratellino un brutto scherzo chiudendolo nella serra, questa è certamente la stupidità dispettosa degli adolescenti sotto ogni cielo, ma non possiamo non vedere la crudeltà nazista in filigrana.
Ecco il grande problema sia artistico sia morale del cinema: come raccontare la Shoah – come mostrare il non mostrabile – senza cadere nel finto, oppure, peggio, nella pornografia dell’orrore (occorre ricordare la polemica su Pontecorvo?). Un risultato molto alto l’ha ottenuto nel 2015 Laszló Nemes con Il figlio di Saul, dove la macchina da presa rimane ancorata al primissimo piano e il resto è fuori fuoco. In modo diverso, Jonathan Glazer raggiunge un analogo risultato lavorando sul fuori campo.
Solo in un momento il film abbandona – con estrema potenza – questa politica del controcampo negato; ed è alla fine. Rudolf Höss sta scendendo per lo scalone di un palazzo, vuoto d'ogni anima viva (già questo è onirico); due volte si ferma per degli indicativi conati di vomito a vuoto. Nei vasti corridoi deserti e bui, il suo sguardo è attratto da una piccola luce che brilla. Ebbene, quella luce dà su una porta che si apre e siamo nella Auschwitz di oggi, trasformata in museo della Shoah, con delle donne che fanno le pulizie. Vediamo per la prima volta i forni; vediamo i cumuli di valigie, coi nomi scritti sopra che gridano ancora l’inganno, la montagna di scarpe, le grucce accatastate. Dopo un corridoio con fotografie di vittime, l'immagine ritorna a Höss nel corridoio che guarda (dove?), riprende a camminare, esce di scena.

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