lunedì 13 novembre 2023

Lubo

Giorgio Diritti

Il notevole Lubo di Giorgio Diritti, coproduzione italo-svizzera, presenta una pagina ignota, almeno da noi, della storia d’Europa. Negli Svizzera degli anni Trenta il governo perseguitava gli Jenisch (nomadi svizzeri) con una politica di rapimenti legali: toglieva loro i figli per darli in affido con nomi cambiati in modo che crescano come “veri svizzeri”. Così sono stati portati via i figli del protagonista Lubo (Franz Rogowski) mentre lui era richiamato alle armi (siamo nei Grigioni nel 1939); sua moglie è morta battendo la testa mentre lottava con le guardie nel tentativo di impedirlo. Più in là nel film, dopo che abbiamo visto apparire Hitler sullo schermo di un cinema, un personaggio femminile parla dei bambini “figli di pederasti, criminali, zingari” e dice che a volte pensa che questi andrebbero sterilizzati.
Dopo la disperazione di Lubo alla notizia, assistiamo a un brusco rovesciamento delle nostre aspettative spettatoriali nei riguardi del personaggio: nell'ossessione di ritrovare i figli perduti, da perseguitato innocente passa a omicida (veramente è, questa terra, “l’aiuola che ci fa tanto feroci”). Con i vestiti, i gioielli e l’auto della vittima, un ebreo in fuga dal nazismo, Lubo assume una nuova identità, in una disperata ricerca, attraverso l’inganno, che non si pone limiti morali. Seduce le donne per questa ossessione (che sostituisce quella, un po’ letteraria, di “seminatore” del romanzo omonimo di Mario Cavatore da cui è tratto il film).
Fin dall’apertura con il teatro di strada del baffuto Lubo truccato e vestito da donna, appare la caratteristica del cinema di Giorgio Diritti: una pregnanza che dà autenticità alla messa in scena. Diritti ha un senso concreto del tempo e dell’atmosfera, ed è questo che crea l’efficace consistenza del racconto. Citiamo solo l’ottimo Il vento fa il suo giro, che – come il presente Lubo e altri suoi film – Diritti ha scritto assieme all'eccellente documentarista Fredo Valla. Nota che la politica del governo svizzero narrata dal film, a parte la repulsione che la sua crudeltà non può non causare, tocca in modo particolarmente profondo la sensibilità degli autori de Il vento fa il suo giro e Volevo nascondermi, caratterizzata da una grande attenzione alle culture locali e alla marginalità. E’ una disruption culturale, una specie di genocidio bianco (oggi è la stessa politica dei russi nei confronti dei bambini ucraini).
Lubo si può definire un film “bivalve”. Lo è sul piano temporale: a una prima parte nel 1939, compatta, concentrata sulle operazioni del protagonista alla ricerca dei figli, segue una seconda parte più dilatata sul piano temporale, che si svolge in diversi periodi lungo gli anni Cinquanta. Lo è sul piano narrativo: alla prima parte quasi thrilling o da noir, ne segue una che non manca di un forte aspetto mélo, quando Lubo cerca di rifarsi una vita con la cameriera d’albergo Margherita (Valentina Bellè). Da notare che, in questo film di tre ore, la divisione cade quasi esattamente fra le due metà. Come vuole la legge del cinema noir (ma vale anche per il mélo: il genere dell’amore impossibile), il peso del passato è destinato a riemergere dalla nebbia degli anni: Out of the Past. Se delle due la prima parte è la migliore, anche la seconda è bella; e insieme costituiscono un’unità necessaria.

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