Giorgio Diritti
Il
notevole Lubo di Giorgio Diritti, coproduzione italo-svizzera,
presenta una pagina ignota, almeno da noi, della storia d’Europa.
Negli Svizzera degli anni Trenta il governo perseguitava gli Jenisch
(nomadi svizzeri) con una politica di rapimenti legali: toglieva loro
i figli per darli in affido con nomi cambiati in modo che crescano
come “veri svizzeri”. Così sono stati portati via i figli del
protagonista Lubo (Franz Rogowski) mentre lui era richiamato alle
armi (siamo nei Grigioni nel 1939); sua moglie è morta battendo la
testa mentre lottava con le guardie nel tentativo di impedirlo. Più
in là nel film, dopo che abbiamo visto apparire Hitler sullo schermo
di un cinema, un personaggio femminile parla dei bambini “figli di
pederasti, criminali, zingari” e dice che a volte pensa che questi
andrebbero sterilizzati.
Dopo
la disperazione di Lubo alla notizia, assistiamo a un brusco
rovesciamento delle nostre aspettative spettatoriali nei riguardi del
personaggio: nell'ossessione di ritrovare i figli perduti, da
perseguitato innocente passa a omicida (veramente è, questa terra,
“l’aiuola che ci fa tanto feroci”). Con i vestiti, i gioielli e
l’auto della vittima, un ebreo in fuga dal nazismo, Lubo assume una nuova identità, in una disperata ricerca, attraverso l’inganno,
che non si pone limiti morali. Seduce le donne per questa ossessione
(che sostituisce quella, un po’ letteraria, di “seminatore” del
romanzo omonimo di Mario Cavatore da cui è tratto il film).
Fin
dall’apertura con il teatro di strada del baffuto Lubo truccato e
vestito da donna, appare la caratteristica del cinema di Giorgio
Diritti: una pregnanza che dà autenticità alla messa in scena.
Diritti ha un senso concreto del tempo e dell’atmosfera, ed è
questo che crea l’efficace consistenza del racconto. Citiamo solo
l’ottimo Il vento fa il suo giro, che – come il presente Lubo e
altri suoi film – Diritti ha scritto assieme all'eccellente
documentarista Fredo Valla. Nota che la politica del governo svizzero
narrata dal film, a parte la repulsione che la sua crudeltà non può
non causare, tocca in modo particolarmente profondo la sensibilità
degli autori de Il vento fa il suo giro e Volevo nascondermi,
caratterizzata da una grande attenzione alle culture locali e alla
marginalità. E’ una disruption culturale, una specie di genocidio
bianco (oggi è la stessa politica dei russi nei confronti dei
bambini ucraini).
Lubo
si può definire un film “bivalve”. Lo è sul piano temporale: a
una prima parte nel 1939, compatta, concentrata sulle operazioni del
protagonista alla ricerca dei figli, segue una seconda parte più
dilatata sul piano temporale, che si svolge in diversi periodi lungo
gli anni Cinquanta. Lo è sul piano narrativo: alla prima parte quasi
thrilling o da noir, ne segue una che non manca di un forte aspetto
mélo, quando Lubo cerca di rifarsi una vita con la cameriera
d’albergo Margherita (Valentina Bellè). Da notare che, in questo
film di tre ore, la divisione cade quasi esattamente fra le due metà.
Come vuole la legge del cinema noir (ma vale anche per il mélo: il genere dell’amore impossibile), il peso del passato è destinato a
riemergere dalla nebbia degli anni: Out of the Past. Se delle due la
prima parte è la migliore, anche la seconda è bella; e insieme
costituiscono un’unità necessaria.
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