Alice Rohrwacher
Annunciato
nei cinema da un poster ispirato all’Appeso dei tarocchi,
certamente bello ma che non c’entra assolutamente nulla col film (i
cui titoli di testa, infatti, compaiono su affreschi etruschi), La
chimera di Alice Rohrwacher ci porta nel mondo
plebeo dei tombaroli degli anni Ottanta. Una banda sciamannata di
saccheggiatori di tombe etrusche (ingranaggi a loro insaputa d’un
gioco più grande di loro) gravita intorno al protagonista, l’inglese
Arthur, le cui doti extrasensoriali gli consentono di individuare i
sepolcri sottoterra. Ci sono due scene
di penetrazione in camere sotterranee che sono molto belli, specie la
seconda, con la meraviglia magica del tempietto inviolato.
In
questo film la vita e la morte si intrecciano, nonostante
l’indifferenza cinica dei tombaroli (un teschio antico spaventa
solo due bambini cui viene mostrato) – se non di Arthur. Un filo
rosso (attenzione al finale!) congiunge il presente e il passato, ma
anche i vivi e i morti: un bell'episodio allucinatorio in treno, che
nel suo sviluppo dà profondità al bozzettismo di personaggi che
abbiamo visto a inizio film. Arthur stesso, perennemente depresso e
incupito, ha un piede nella morte: ama ancora la fidanzata Beniamina
che è morta e si rifiuta di ammetterlo.
Fellini
(da Roma a La dolce vita) e Pasolini sono esplicitamente citati nelle
immagini a mo’ di numi tutelari. L’intento artistico nel
film appare molto, molto consapevole; si lascia
scorgere con troppa evidenza? Sì, ma
entro questo perimetro La chimera è interessante e
attraente. Alice Rohrwacher ha un elemento di “generosità”, nel
senso che adotta senza remore qualsiasi
idea le appaia espressiva in un dato
momento, anche se è destinata a restare un unicum nel film:
come quando, una sola volta, un personaggio femminile si rivolge agli
spettatori parlando in macchina, o quando in una scena di litigio, in
soggettiva di Arthur, i contendenti si mettono a ringhiare e mostrare
i denti come cani. Questa libertà espressiva di Rohrwacher può
apparire irregolare (magari ripensando alla costruzione rigorosa
dello splendido Corpo celeste), ma è un merito.
Si
ha peraltro l’impressione che Rohrwacher sia miglior regista che
sceneggiatrice: la bellezza e la qualità immaginativa della sua
regia superano i difetti della sceneggiatura, a partire dalla
caratterizzazione alquanto umbratile e a volte troppo ovvia (com’è
prevedibile la scena, laboriosamente preparata, della sua rivolta
sullo yacht!) del protagonista – che un Josh O’Connor forse
perplesso non riesce a vivificare.
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