domenica 26 novembre 2023

La chimera

Alice Rohrwacher

Annunciato nei cinema da un poster ispirato all’Appeso dei tarocchi, certamente bello ma che non c’entra assolutamente nulla col film (i cui titoli di testa, infatti, compaiono su affreschi etruschi), La chimera di Alice Rohrwacher ci porta nel mondo plebeo dei tombaroli degli anni Ottanta. Una banda sciamannata di saccheggiatori di tombe etrusche (ingranaggi a loro insaputa d’un gioco più grande di loro) gravita intorno al protagonista, l’inglese Arthur, le cui doti extrasensoriali gli consentono di individuare i sepolcri sottoterra. Ci sono due scene di penetrazione in camere sotterranee che sono molto belli, specie la seconda, con la meraviglia magica del tempietto inviolato.
In questo film la vita e la morte si intrecciano, nonostante l’indifferenza cinica dei tombaroli (un teschio antico spaventa solo due bambini cui viene mostrato) – se non di Arthur. Un filo rosso (attenzione al finale!) congiunge il presente e il passato, ma anche i vivi e i morti: un bell'episodio allucinatorio in treno, che nel suo sviluppo dà profondità al bozzettismo di personaggi che abbiamo visto a inizio film. Arthur stesso, perennemente depresso e incupito, ha un piede nella morte: ama ancora la fidanzata Beniamina che è morta e si rifiuta di ammetterlo.
Fellini (da Roma a La dolce vita) e Pasolini sono esplicitamente citati nelle immagini a mo’ di numi tutelari. L’intento artistico nel film appare molto, molto consapevole; si lascia scorgere con troppa evidenza? Sì, ma entro questo perimetro La chimera è interessante e attraente. Alice Rohrwacher ha un elemento di “generosità”, nel senso che adotta senza remore qualsiasi idea le appaia espressiva in un dato momento, anche se è destinata a restare un unicum nel film: come quando, una sola volta, un personaggio femminile si rivolge agli spettatori parlando in macchina, o quando in una scena di litigio, in soggettiva di Arthur, i contendenti si mettono a ringhiare e mostrare i denti come cani. Questa libertà espressiva di Rohrwacher può apparire irregolare (magari ripensando alla costruzione rigorosa dello splendido Corpo celeste), ma è un merito.
Si ha peraltro l’impressione che Rohrwacher sia miglior regista che sceneggiatrice: la bellezza e la qualità immaginativa della sua regia superano i difetti della sceneggiatura, a partire dalla caratterizzazione alquanto umbratile e a volte troppo ovvia (com’è prevedibile la scena, laboriosamente preparata, della sua rivolta sullo yacht!) del protagonista – che un Josh O’Connor forse perplesso non riesce a vivificare.

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