Greta Gerwig
Sulle
note di Also sprach
Zarathustra appare, al posto
del monolito, una Barbie
gigantesca,
nel suo costume zebrato
originario, e le bambine,
con gli stessi movimenti
degli ominidi di Kubrick, rompono
le loro vecchie
bambole. Il bellissimo inizio di Barbie di
Greta Gerwig con la parodia
di 2001: Odissea nello spazio rende assai
bene come l’apparizione della bambola
Barbie della Mattel nel 1959
sia stata una svolta
antropologica: il passaggio
dalla
bambola-bambina alla
bambola-adulta (non
era la prima, c’era la
tedesca Lilli, ma fu Barbie
a fare
la rivoluzione).
Se con le
vecchie bambole le bambine
anticipavano nel gioco il loro futuro di mamme, che era quello che la
società del tempo prevedeva per loro, Barbie
aveva una vita, un
fidanzato, Ken, e
soprattutto mille
professioni, dal medico all’astronauta; così
l’orizzonte futuro delle
bambine non si esauriva
nel fare la mamma. Barbie rappresentava
un processo di
auto-affermazione. Non
per nulla nasce e si sviluppa nel periodo fu quello dell’ottimismo
americano, un’epoca in cui il futuro pareva a portata di mano ed
era roseo (rosa come Barbie?).
Col
suo sorriso scintillante e il suo ottimismo americano, Barbie
invase tutti i media, anche
con decine di cartoon
realizzati al computer, a volte “biografici” ma per lo più
fantasy: nei quali, anche quando la sceneggiatura non è malaccio
(vedi Barbie - La principessa e la povera), l’animazione è di
livello francamente modesto, e troppo patente è l’imitazione
disneyana (preferibile la sua partecipazione alla serie Toy Story).
Ma
poi, “sic
transit gloria mundi”, quella che era nata come un’icona
di auto-affermazione cominciò
ad
essere criticata come
un’icona di conservazione
– anche
in correlazione con la crisi dell’ottimismo americano. Barbie
riaffermava
uno stereotipo, si
disse, era
un modello
irrealistico,
si
disse, creava
false idee
anche
sul piano fisico,
e
via
brontolando.
Qui
entra questo divertentissimo film, insieme celebrativo e satirico,
scritto dalla
regista
Gerwig (Lady
Bird, Piccole donne) assieme
al
collega
Noah Baumbach (Storia
di un matrimonio).
La Barbie originale (Margot Robbie) vive a Barbieland con
tutte le sue varianti, come il Ken originale (Ryan Gosling) con
le
sue.
Come nel Soldatino
di Andersen vediamo
la vita dei giocattoli, però
non
segreta, bensì
una
dimensione parallela
alla nostra: quel
paradiso sempre
sereno, tutto
rosa, pop
e kitsch,
che
è il mondo felice
di Barbie (siccome gli americani
confondono il Paradiso con la California, la
vita di Barbie
è molto californiana).
Il
mondo di Barbie
mostra rispetto al nostro
uno
sfasamento non solo ontologico ma anche temporale: per
definizione il paradiso è fuori dal tempo: e quello di Barbie è
ancorato a un immaginario tardi anni Cinquanta/anni Sessanta. Con la fotografia coloratissima di Rodrigo Prieto, è molto spiritoso questo
universo giocattolo a
dominante
rosa, dove
i giorni sono tutti uguali, fatti di sorridenti saluti fra tutte
le Barbie,
un universo basato sulla
finzione delle bambole (per esempio si beve da bicchieri vuoti;
quando Barbie cercherà
di farlo nel mondo reale, si versa
l'acqua addosso).
Ma
in questo paradiso, un brutto giorno, Barbie
(non
una Barbie qualunque: la “Barbie stereotipo”)
comincia
a “umanizzarsi”. Si
scopre al mattino l’alito
cattivo; le
viene da pensare alla morte (superba
la gag di reazione collettiva
e recupero quando
lo dice); spunta perfino (orrore!) la cellulite. IL
fatto è che
si
è aperto un varco tra il mondo di Barbie e quello reale: e lei vi si
reca, col
non intelligentissimo Ken,
a cercare di rimediare.
La Mattel (che è co-produtrice, autoparodiandosi con stile)
permettendo.
Visitando
il mondo reale, Barbie
si
aspetta un mondo dove tutti i mestieri, compreso il Presidente, li
fanno le donne; scopre
che non
è così. Delizioso il suo incontro traumatico con gli operai in
pausa, che fra l’altro introduce il tema della sessualità (“Io
non ho la vagina” – “Non fa niente, ci accontentiamo!”). Nel
mondo reale comandano
gli uomini; scoperta
che
a Ken piace assai, tanto
che si fa un’idea sua del patriarcato e non vede l’ora di
metterla in pratica a Barbieland. Ne
nasce una satira
vivace e pungente,
sorretta da un ottimo dialogo
come
in tutto il film,
che fa amabilmente a pezzi la mentalità “patriarcale” maschile,
nonché l’influsso quasi
ipnotico che
essa esercita sulle donne.
La
cosa peggiore per Barbie è che, invece di essere riconosciuta come
simbolo di emancipazione, viene dichiarata “fascista”
da Sasha, una cretinetta
di
adolescente woke – che peraltro crescerà durante il film,
recuperando un rapporto con la madre che invece le Barbie, da
ragazzina, le amava. In questo senso il film compie un’impresa:
contestualizzare sul piano storico la differenza di percezione cui si
è accennato sopra. Sembra niente: ma storicizzare è una cosa difficilissima
per
gli americani, e questo film lo fa.
Vivace
e paradossale, giocato
con vero
humour
sui
due mondi e sul rapporto tra loro, Barbie
non è solo divertente ma anche intelligente. Né
pro-Barbie
né
anti-Barbie, in realtà il film riflette
con arguzia e con
dolcezza
sull’imperfezione intrinseca alla vita e sul
rapporto fra il sogno e la realtà – ciò
che rappresenta una tematica presente nelle opere di entrambi i
registi-sceneggiatori.