sabato 22 luglio 2023

Barbie

Greta Gerwig

Sulle note di Also sprach Zarathustra appare, al posto del monolito, una Barbie gigantesca, nel suo costume zebrato originario, e le bambine, con gli stessi movimenti degli ominidi di Kubrick, rompono le loro vecchie bambole. Il bellissimo inizio di Barbie di Greta Gerwig con la parodia di 2001: Odissea nello spazio rende assai bene come l’apparizione della bambola Barbie della Mattel nel 1959 sia stata una svolta antropologica: il passaggio dalla bambola-bambina alla bambola-adulta (non era la prima, c’era la tedesca Lilli, ma fu Barbie a fare la rivoluzione). Se con le vecchie bambole le bambine anticipavano nel gioco il loro futuro di mamme, che era quello che la società del tempo prevedeva per loro, Barbie aveva una vita, un fidanzato, Ken, e soprattutto mille professioni, dal medico all’astronauta; così l’orizzonte futuro delle bambine non si esauriva nel fare la mamma. Barbie rappresentava un processo di auto-affermazione. Non per nulla nasce e si sviluppa nel periodo fu quello dell’ottimismo americano, un’epoca in cui il futuro pareva a portata di mano ed era roseo (rosa come Barbie?).
Col suo sorriso scintillante e il suo ottimismo americano, Barbie invase tutti i media, anche con decine di cartoon realizzati al computer, a volte “biografici” ma per lo più fantasy: nei quali, anche quando la sceneggiatura non è malaccio (vedi Barbie - La principessa e la povera), l’animazione è di livello francamente modesto, e troppo patente è l’imitazione disneyana (preferibile la sua partecipazione alla serie Toy Story).
Ma poi, “sic transit gloria mundi”, quella che era nata come un’icona di auto-affermazione cominciò ad essere criticata come un’icona di conservazione – anche in correlazione con la crisi dell’ottimismo americano. Barbie riaffermava uno stereotipo, si disse, era un modello irrealistico, si disse, creava false idee anche sul piano fisico, e via
brontolando.
Qui entra questo divertentissimo film, insieme celebrativo e satirico, scritto dalla regista Gerwig (Lady Bird, Piccole donne) assieme al collega Noah Baumbach (Storia di un matrimonio). La Barbie originale (Margot Robbie) vive a Barbieland con tutte le sue varianti, come il Ken originale (Ryan Gosling) con le sue. Come nel Soldatino di Andersen vediamo la vita dei giocattoli, però non segreta, bensì una dimensione parallela alla nostra: quel paradiso sempre sereno, tutto rosa, pop e kitsch, che è il mondo felice di Barbie (siccome gli americani confondono il Paradiso con la California, la vita di Barbie è molto californiana). Il mondo di Barbie mostra rispetto al nostro uno sfasamento non solo ontologico ma anche temporale: per definizione il paradiso è fuori dal tempo: e quello di Barbie è ancorato a un immaginario tardi anni Cinquanta/anni Sessanta. Con la fotografia coloratissima di Rodrigo Prieto, è molto spiritoso questo universo giocattolo a dominante rosa, dove i giorni sono tutti uguali, fatti di sorridenti saluti fra tutte le Barbie, un universo basato sulla finzione delle bambole (per esempio si beve da bicchieri vuoti; quando Barbie cercherà di farlo nel mondo reale, si versa l'acqua addosso)
.
Ma in questo paradiso, un brutto giorno, Barbie (non una Barbie qualunque: la “Barbie stereotipo”) comincia a “umanizzarsi”. Si scopre al mattino l’alito cattivo; le viene da pensare alla morte (superba la gag di reazione collettiva e recupero quando lo dice); spunta perfino (orrore!) la cellulite. IL fatto è che si è aperto un varco tra il mondo di Barbie e quello reale: e lei vi si reca, col non intelligentissimo Ken, a cercare di rimediare
. La Mattel (che è co-produtrice, autoparodiandosi con stile) permettendo.
Visitando il mondo reale, Barbie si aspetta un mondo dove tutti i mestieri, compreso il Presidente, li fanno le donne; scopre che non è così. Delizioso il suo incontro traumatico con gli operai in pausa, che fra l’altro introduce il tema della sessualità (“Io non ho la vagina” – “Non fa niente, ci accontentiamo!”). Nel mondo reale comandano gli uomini; scoperta che a Ken piace assai, tanto che si fa un’idea sua del patriarcato e non vede l’ora di metterla in pratica a Barbieland. Ne nasce una satira vivace e pungente, sorretta da un ottimo dialogo come in tutto il film, che fa amabilmente a pezzi la mentalità “patriarcale” maschile, nonché l’influsso quasi ipnotico
che essa esercita sulle donne.
La cosa peggiore per Barbie è che, invece di essere riconosciuta come simbolo di emancipazione, viene dichiarata “fascista” da Sasha, una cretinetta di adolescente woke – che peraltro crescerà durante il film, recuperando un rapporto con la madre che invece le Barbie, da ragazzina, le amava. In questo senso il film compie un’impresa: contestualizzare sul piano storico la differenza di percezione cui si è accennato sopra. Sembra niente: ma storicizzare è una cosa difficilissima p
er gli americani, e questo film lo fa.
Vivace e paradossale, giocato con vero humour sui due mondi e sul rapporto tra loro, Barbie non è solo divertente ma anche intelligente. Né pro-Barbie anti-Barbie, in realtà il film riflette con arguzia e con dolcezza sull’imperfezione intrinseca alla vita e sul rapporto fra il sogno e la realtà –
ciò che rappresenta una tematica presente nelle opere di entrambi i registi-sceneggiatori.

domenica 16 luglio 2023

Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno

Christopher McQuarrie

D’accordo che Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno è un action, per cui il racconto serve a congiungere una serie di scene “eccessive”: non sono tappe di uno svolgimento, è lo svolgimento che serve ad arrivare a queste. Comunque sono assai piacevoli, anche se un po’ ridondanti (in verità è più bello John Wick 4 di Stahelski, che iscrive questo montaggio dell’azione in una carrellata metacinematografica, rendendo omaggio a Osaka al cinema popolare giapponese e hongkonghese, a Berlino al cinema post-espressionista tedesco stile Dottor Mabuse, a Parigi al realismo fantastico alla Feuillade incrociato con il polar). Tuttavia anche l’action ha un sottotesto culturale.
Dead Reckoning mostra una concezione della contemporaneità digitale come hybris. Parte, consciamente o no, da un vecchio racconto di Fredric Brown in cui un team di scienziati costruisce il supercomputer più potente del mondo; quando lo accende e lo scienziato capo pone la domanda “Dio c’è?”, la risposta è “Adesso sì” – e un fulmine uccide lo scienziato e blocca per sempre il meccanismo di spegnimento. Nel presente film (ma sarebbe più giusto dire: nel presente mezzo film) i soliti russi hanno costruito qualcosa di simile: un'intelligenza artificiale capace di connettersi e controllare i computer di tutto il globo. Quest’intelligenza superpotente si è ribellata riprogrammandosi (“Si è riscritta”), acquisendo una propria personalità. Ora domina l’intera rete digitale. E’ delizioso vedere come i “buoni” siano costretti a ricorrere alle onde corte e alla carta stampata per comunicare. L’ingenua fede nelle “magnifiche sorti e progressive” del passato anche recente è soggetta a ripensamento a Hollywood, e l'approccio di questo film è invero interessante.
Conseguenza di quanto detto, lottare contro l’Entità è come lottare contro Dio. O se preferite, contro una sua parodia maligna e diabolica. Ora, dal punto di vista religioso (inevitabilmente) sotteso, il cinema spionistico alla 007 ha sempre avuto come riferimento implicito il manicheismo: ovvero la lotta cosmica fra due entità divine, una positiva e una negativa, di pari forza. Occidente e URSS in origine, dapprima con battaglie e scaramucce (il comunismo non è caduto perché Bond ha smascherato Le Chiffre in Casino Royale); significativamente, dopo che il bondismo cinematografico ha abbandonato la formula proto-fleminghiana dell’URSS come nemico assoluto e si è rivolto alla Spectre (interessante in questo senso la differenza tra romanzo e film in Dalla Russia con amore), la posta in gioco è diventata sempre più la salvezza del mondo intero: il che ricopre almeno tendenzialmente una dimensione teologica.
Su questo terreno Dead Reckoning si spinge molto avanti, a causa della connotazione di Dio negativo che possiede l’Entità, come viene chiamata significativamente nel film. Non a caso il dominio dell'Entità integra quello che è un attributo basilare della divinità, il possesso della verità (“Quid est veritas?” - “Est vir qui adest”: il leggendario colloquio con anagramma fra Cristo e Pilato). Nel film, sarebbe riduttivo dire che l’Entità mente: essa riscrive i dati del mondo nella nostra conoscenza. Lo vediamo nell’inizio col sottomarino russo sotto la banchisa polare, lo vediamo poi nelle sofferenze di Ethan Hunt quando corre per i vicoli di Venezia diretto dalla voce di Benji nell'auricolare, solo che la voce di Benji non è più la sua, l’Entità se ne è appropriata.
Non a caso due concetti di origine religiosa – fin dall'etimologia – come quelli opposti di sacrificio e tentazione percorrono il film. Il punto più notevole (già lo segnalava Giorgio Argenti in una bella recensione) è che il meccanismo che può disattivare l’Entità, ovvero distruggere la divinità maligna nella futura parte del film, è una croce: una chiave a forma di croce – purché sia la vera chiave (o la Vera Croce). Di tutte le missioni impossibili, questa sembra la più impossibile, ma non è la prima volta nella nostra cultura che l’uomo sfida la divinità. Dalla parte di Ethan Hunt gioca, paradossalmente, lo stesso estremismo che sta alla base del cinema action, che diventa qui inconsciamente prometeico. L’Entità sembra invincibile perché ha una capacità mostruosa di previsione probabilistica. Tuttavia (ombra di Friedrich Nietzsche!) proprio quella dismisura per cui Hunt si mette in gioco contro ogni razionalità (il volo dalla montagna per esempio) fa sì che, come sentiamo nel dialogo, questa divinità abbia paura. Morale: l’unica mission
capace di sconfiggere Dio è quella impossible.

sabato 1 luglio 2023

Indiana Jones e il quadrante del destino

James Mangold

Avverto qui che la presente recensione dà per scontata la visione del film e quindi non rifugge dagli spoiler.

Interpretato da Harrison Ford ottantenne, nei cui occhi brilla un lampo di disperata tenacia che ricorda James Stewart, Indiana Jones e il quadrante del destino di James Mangold presenta l’eroe eponimo a settant’anni (siamo nel 1969, già sappiamo che Indy è nato nel 1899, il calcolo è facile). Inizia tuttavia nel 1944, e quindi la prima apparizione di Indiana Jones, quando i tedeschi levano il cappuccio al prigioniero, ha il volto di un Harrison Ford ringiovanito grazie agli effetti digitali.
E’ ironico che un film imperniato sulla caccia a una macchina per viaggiare nel tempo – l’antikhytera di Archimede – si apra con una prima parte che viaggia nel tempo, trasportandoci nel 1944 con un Indiana Jones giovane in lotta contro i nazisti (già sapevamo che era stato nell’OSS). Steven Spielberg, produttore esecutivo con George Lucas e padre putativo, vuole dirci una cosa molto chiara, che peraltro ha ripetuto in tutto il suo cinema: la vera macchina del tempo è il cinema stesso.
Non per nulla Indiana Jones come personaggio è una raccolta di topoi che fanno rivivere una precisa finestra temporale, gli anni dai Venti ai Cinquanta del cinema d’avventura, dei serial, dei romanzi popolari e dei fumetti di Milton Caniff & C. (questo in particolare nei primi tre film; Il teschio di cristallo e il presente, com’è naturale, guardano come punto di riferimento alla prima trilogia).

Dopo la vittoriosa conclusione della parte iniziale, vero film nel film, lo stacco ai calzini appesi ad asciugare dentro un modesto appartamento – seguito dall’enunciazione shock del vecchio Indy in mutande – è un brutale salto alla triste realtà del 1969. E’ evidente che Indiana Jones non ha fatto i soldi, pur essendo venuto in contatto con tesori indescrivibili in quattro film, a onta di quelli che lo descrivevano come ladro di reperti archeologici. E’ la figura tradizionale (già nel ciclo arturiano: Lancillotto sul carretto) del declino dell’eroe. Indy vive una vita solitaria e ordinaria, anche se questa non implica l’esser diventato docile: quando va a bussare alla porta dei giovani vicini rumorosi, che stanno festeggiando l’“allunaggio”, ha in mano una mazza da baseball.
L’aspetto deprimente della sua vita si vede anche nella lezione all’università. Nel primo film, studentesse innamorate lo guardavano adoranti; nel quarto, uno studente secchione gli chiedeva bibliografia, sebbene nel momento meno adatto; in questo, vegetano sui banchi odiosi ragazzotti annoiati e ignoranti, che confondono la Siracusa di Archimede con Syracuse (Stato di New York). Per inciso, lo sguardo del film sull’America del 1969 è discretamente feroce, con il governo USA che si fa menare per il naso dal nazista Schmidt/Voller, e l’agente nera scema (FBI? CIA?) che segue le istruzioni fino a farsi uccidere. Un’America spaccata in due è mostrata plasticamente nella giustapposizione delle due sfilate, quella in onore degli astronauti e quella di protesta contro la guerra, apparentate dal fatto che in entrambe un inseguimento porta lo scompiglio (al cinema le sfilate servono a questo).

Dunque, la stanchezza dell’eroe – anche declinata sul piano fisico in una tirata memorabile durante un’arrampicata sulle rocce. La stessa stanchezza che gli fa desiderare nel finale la fuga più radicale di tutte le fughe: un auto-esilio nel passato, restando a Siracusa con Archimede, ovvero il desiderio che l'oggetto dei suoi studi si trasformi nella realtà effettuale.
Il dialogo ci dà la backstory e forse la spiegazione del declino di Indiana Jones: un lasciarsi andare: la morte in guerra del figlio (Shia LaBoeuf nel Teschio di cristallo) e la conseguente rovina del matrimonio con Marion (Karen Allen). Invero, questa scomparsa del figlio ricorda le ellissi di Salgari negli intervalli fra un libro e l’altro, in cui lo scrittore veronese si liberava della Marianna di Sandokan e della Ada di Tremal-naik facendole morire; ce n’è un esempio cinematografico analogo di Riccardo Freda tra Aquila Nera e La vendetta di Aquila Nera (a dire la verità ce n’è uno simile anche fra Aliens e Alien³, in questo caso estremamente rozzo e offensivo).
Quel che importa segnalare è che, in un film basato sul concetto di viaggio nel tempo, il desiderio (irrealizzabile e irrealizzato) di Indy di tornare indietro nel tempo per impedire al figlio di arruolarsi apparenta imprevedibilmente Il quadrante del destino a un'altra saga cinematografica: Ritorno al futuro di Robert Zemeckis: il concetto di modificare la storia per “curare” la sfiga presente. E tuttavia, qui il senso è rovesciato rispetto all’ottimismo “ingegneristico” della trilogia di Zemeckis. Come ci mostra il finale, non è il cambiamento delle circostanze che modifica i sentimenti ma il cambiamento dei sentimenti che modifica le circostanze. Il toccante romanticismo dell’amore tra vecchi alla fine de Il quadrante del destino ha un dialogo degno quasi di Robin e Marian: “Ti fa male?” – “Mi fa male tutto” – “So come ci si sente” – un bacio sul gomito: “Lì non mi fa male”.

La figlioccia Helena detta Vombato (Phoebe Waller-Bridge) ha molto di più dell’erede di quanto non l’avesse il ragazzo del Teschio di cristallo. Ha le capacità fisiche, ha una soddisfacente ambiguità morale, che naturalmente viene risolta in senso positivo (ricordiamo l’ambiguità dello stupefacente inizio de I predatori dell’arca perduta), e soprattutto ha cultura. Perché, non dimentichiamocelo, la saga di Indiana Jones è una saga della forza e del cazzotto; è una saga della resistenza e della tenacia; è una saga del saper cogliere l’opportunità (come si vede anche nel presente film, Indiana Jones è il più grande ladro di veicoli della storia del cinema); è una saga dell'autocontrollo (Sean Connery ne L’ultima crociata di fronte all’agitazione del figlio: “Conta fino a dieci – in greco”); ma soprattutto è una saga del cervello e della cultura. Per questo i giovani imbecilli che vediamo nella scena già citata della lezione all’università non sarebbero darwinisticamente adatti a sopravvivere nella più facile delle avventure di Indiana Jones. Lo è, eccome, quella che sembra l’unica studentessa brillante, e invece è Helena, venuta lì con un’agenda tutta sua.
Parlando appunto di cultura, è affascinante la decodifica del messaggio segreto sulla tavoletta, un’anticipazione dell’esibizione di cultura classica della parte finale: su questo terreno la sceneggiatura è addirittura coraggiosa, considerando il livello medio degli adolescenti americani che andranno a vedere il film. La parte finale, con il trasferimento involontario nel tempo e l’incontro con Archimede (Nasser Memarzia) è veramente molto bella, e resterà fra gli highlights della saga di Indiana Jones il concitato dialogo in greco antico fra Archimede, Indy e Helena: geniale l’immissione nel greco antico, in bocca a lei, del termine inglese internazionale “fan”.

Sebbene il ritmo sia a volte un po’ irregolare (ma a dire la verità lo era anche nello spielberghiano Il regno del teschio di cristallo), James Mangold si è calato bene nelle scarpe di Spielberg. Certo, non troviamo ne Il quadrante del destino il grande tema spielberghiano della terribilità della visione (né le sue luci bianche sparate contro l’obiettivo, se non magari un accenno in una breve scena, dove forse le vediamo solo perché ce le aspettiamo). Ma sicuramente c’è nel film quello che sta al cuore del cinema di Spielberg: il concetto di Quest.
Perché nei film di Indiana Jones l’oggetto della ricerca non è un MacGuffin, non è qualcosa che serve unicamente a mettere in moto l’avventura. Nei film di Indiana Jones la ricerca è una Quest, un processo centrato sulla conquista di un oggetto-valore che determina il senso del film (anche se poi magari verrà affidato all’ignorante burocrazia americana e – come ci mostra Spielberg in uno dei momenti più laici del suo cinema, il finale de I predatori dell’arca perduta – finirà sepolto in un deposito, cassa fra altre miriadi di casse).
E’ questo valore sacro della ricerca (c’è sempre in Spielberg un côté mistico) che ritorna, esemplificato da un titolo come L’ultima crociata, nella natura degli oggetti cercati: l’Arca dell'Alleanza, le pietre sacre a Shiva, il sacro Graal, il teschio di cristallo; il presente film poi, con uno scherzo delizioso proprio rispetto a questa ricerca, si apre sulla contesa per la Lancia di Longino – che però si rivela essere una copia moderna; mentre la vera macchina capace di dare il dominio del mondo, l’antikhytera, è lì sotto il naso dei nazisti, che non se ne accorgono (salvo il giovane Voller, Mads Mikkelsen, che diventerà il villain del film).

Nell’ultima inquadratura, il cappellaccio di Indy (oggetto simbolo, metonimico, assieme alla frusta) è appeso a una molletta sul terrazzino – e la mano entra in campo e lo afferra fulmineamente. Si chiudeva in modo simile anche Il regno del teschio di cristallo: ma quella era una orgogliosa riaffermazione di vitalità, ci diceva che Indy non era ancora pronto a passare il testimone e il cappello al figlio, che lo aveva preso. Nel presente film quell'immagine non vuol dire che Indiana Jones tornerà (ma Helena?) in azione. Semplicemente, consegna la figura all’eternità del mito.