Francesca Archibugi
Questo
colibrì non vola. Il romanzo di Sandro Veronesi si caratterizza per
un continuo passare da un tempo all’altro, mescolando gli stili;
nel film Il colibrì Francesca
Archibugi ha mantenuto
questa pluralità di linee temporali saltando continuamente fra
i periodi della vita della
vita del protagonista Pierfrancesco
Favino, e dei personaggi che
gli ruotano intorno. Il
progetto è ingegnoso e
(nella seconda ora,
quando il film comincia un
minimo a
funzionare) perfino maestoso. Purtroppo s’infrange a causa
di una serie di inabilità.
La
prima: il film non riesce a
costruire una narrazione convincente, neppure sul piano
dell’interlinearsi dei tempi: il
montaggio ha un'eleganza di
raccordo
in alcuni passaggi (come
un’uscita di
scena/l’aprirsi di una porta molti anni dopo) ma
più spesso
lascia un’impressione di
freddezza. In generale, si
sente nel
film una mancanza di nerbo,
nonostante l’urlare delle attrici.
Il peggio è l’apparizione
di Massimo Ceccherini, col suo cappellaccio da zingaro in
mezzo alle comparse in
frac, che
trasporta il film su un piano narrativo grottesco altrimenti
assente (è vero che
abbiamo già incontrato
il personaggio da giovane: ma non con questa pesantezza).
La
seconda, correlata, è appunto
l’incapacità di
costruire personaggi forti
sul piano drammaturgico,
ossia con
uno spessore umano agli occhi degli spettatori (un film drammatico
dove sembrano tutti matti o è Qualcuno volò sul nido del cuculo o è
scritto male). La terza sta nella
direzione degli attori, con
molte interpretazioni che
variano
dall'inconsistente
all’eccessivo.
Pierfrancesco Favino è misurato – anche troppo – e resta il
migliore in campo (assieme a Bérénice Bejo,
che però è francese, altra classe). Nanni Moretti sorprende: come
attore, Moretti fa sempre Moretti, ma dopo una pessima prima
apparizione in cui tocca la comicità involontaria assume
una concretezza (buona in
particolare la scena del tennis).
L’aspetto
più strano e meno convincente di tutto il film è che questi
personaggi, esponenti di un’alta borghesia colta e ricca, vivono la
loro vita in una sorta di vuoto pneumatico. Non
c’è la
religione, qui nemmeno
negata ma
superata tout court, ignorata (salvo una battuta) come
una di quelle cose defunte
cui non si pensa più; non c'è la politica; ma nemmeno quella spiacevole
impicciona che si intromette
e ci sovrasta, che è la
Storia. Al di là di un paio
di riferimenti alle mode veramente minimi, in
questa storia non entra la
Storia
– o solo
in una
fuggevole sequenza,
quando il protagonista alla
frontiera è misteriosamente scambiato per un terrorista. Così
il film ricorda quel cinema
muto
italiano d’anteguerra
chiuso in
una bolla di “lusso
e fasto” dove
le attrici si attaccavano alle tende.
Nessun commento:
Posta un commento