sabato 12 settembre 2020

Sto pensando di finirla qui

Charlie Kaufman

Per parlare di un magnifico film criptico e affascinante (e post-lynchano) quale Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman (I'm Thinking of Ending Things, su Netflix), tratto dal romanzo di Iain Reid... per parlarne conviene partire dal cane Jimmy (il che conferma che i cani sono le creature più utili al mondo). 
Nell'inquietante visita di Jake e Lucy (Jesse Plemons e Jessie Buckley) alla fattoria dei genitori di lui durante una tempesta di neve, prima di incontrare i due genitori (David Thewlis e Toni Collette) Lucy nota che la porta della cantina è graffiata. Jake dice che è stato il cane. Ma perché questo cane di cui si parla non è già venuto ad accoglierli e annusarli? Solo in quel momento lui appare (scuotendosi un po' troppo a lungo perché tutto sembri normale) come se fosse stato evocato. Più tardi lei lo accarezza (ha appena detto “Dov'è Jimmy?”) ma non lo vediamo inquadrato; in compenso lo vediamo in un quadro appeso lì. Ancora più tardi: premesso che Lucy di continuo dice che dovrebbero tornare presto in città e Jake di continuo risponde “Ho le catene”, all'ennesima ripetizione si sente un rumore di catene (l'attributo dei fantasmi!) e vediamo il cane che si scuote, producendo assurdamente quel rumore con il collare. Ce n'è abbastanza per sospettare che Jimmy venga evocato dal pensiero... come tutto quello che vediamo nel film (pure lo spostamento finale al liceo ha luogo, come ci viene sottolineato, su una strada impossibile).
E a questo punto devo pagare un debito rendendo omaggio a una splendida recensione di Virginia Campione su Cinematographe.it, a cui rimando per ulteriori (e più acute) notazioni.

Ora, “evocare” significa etimologicamente “chiamar fuori”, far uscire: ma uscire da dove? In questa istanza, da dentro, vale a dire da Jake. Quando Lucy dice, nella voce over che accompagna il film, “Non so più chi sono in questa storia, dove finisco io e dove inizia Jake”, va presa in modo letterale.
Per questo Lucy possiede una sorta di inconsistenza ontologica. Nel corso del film, senza che né lei né alcuno faccia caso a queste incongruenze, il suo nome cambia più volte (Lucy, Lucia, Louisa... però non accetta Ames). Il suo campo di studio o lavoro cambia egualmente (medicina, fisica, geriatria, critica cinematografica, ma è anche cameriera). Il campo artistico, alla stessa stregua (poetessa, pittrice). Quando lei pensa (voce over) Jake sembra sentire, distrattamente, cosa sta pensando. Viceversa, quando è con Jake alla fattoria e risuona forte il litigio dei due genitori nell'altra stanza, sicché poi il padre ricomparirà incerottato, lei non sembra sentire nulla. Ultimo esempio, pensiamo alla proposta insensata di fermarsi alla gelateria Tulsey Town (puro David Lynch) nel bel mezzo della tormenta: nel dialogo la paternità di questa proposta prima è di Jake, poi era di Lucy, con totale imperturbabilità.
Si è parlato nella critica di Lucy come “proiezione” di Jake, ma il termine mi sembra un po' troppo connotato in senso illusorio per dar conto dell'autonomia del personaggio nel film, fortemente focalizzato su di lei. Perfino inizia con lei, che sta attendendo Jake, e pensa ossessivamente di “finirla qui” con questa relazione. Sarebbe forse meglio parlare di sdoppiamento, o fantasma: Lucy vive dentro Jake come dentro Norman viveva Mrs. Bates. Di questa sua realtà vicaria, si direbbe che sia ignara.
La poesia che lei recita in viaggio, Ossa di cane, parla dell'orrore di tornare a casa (Jake: “E' come se parlasse di me”). Nondimeno – falso passaggio dalla meditazione poetica alla vita quotidiana – per tutto il film lei insiste che tornino presto a casa (Jake, lo sappiamo, risponde che ha le catene). Una volta partiti dalla fattoria, Jake equivoca un paio di volte “casa” nel senso di tornare alla fattoria. Perché la casa è quella dell'infanzia di Jake e tutto nasce dall'evocazione di Jake. Diabolicamente intessuto di un'infinità di riferimenti e citazioni ora enunciati ora nascosti (è un Finnegan's Wake cinematografico), Sto pensando di finirla qui è una distorta e malinconica messa in scena di fantasmi (come è un balletto di fantasmi quello dei loro Doppelgänger giovani nei corridoi del liceo).

Per questo tutto il film è attraversato da un senso di smarrimento e di minaccia. Già fin dall'inizio, nonostante la sua ostentata gentilezza, il massiccio Jake appare oscuramente minaccioso, per effetto della continua riflessione di Lucy sul fatto di volere rompere la relazione. Nel prosieguo mostra una carica nascosta di violenza sempre pronta a esplodere (nota anche come le gelataie del Tulsey Town abbiano paura di lui). Ancor più, nella visita alla fattoria un elemento di minaccia, di realtà distorta e isterica, accompagna i due bizzarri e amichevoli genitori – tanto da far pensare alle famiglie folli di Tobe Hooper come in The Texas Chain Saw Massacre (Non aprite quella porta). Non manca la paura di scendere in cantina, che è un luogo deputato dell'horror, bene sintetizzata nell'inquadratura di Lucy in controluce al sommo delle scale. Spero non sia troppo freudiano (anche se nel film Lucy parla con disprezzo di “Freudian crap”) rievocare la tradizionale analogia anche filmica della cantina con l'inconscio. Poi, dopo un periodo che definirei di “realismo malato”, costellato di segni ambigui e perturbanti, comincia la distorsione temporale. Il primo indizio, quasi inavvertibile, è quando il padre con un singhiozzo dice della madre lì presente “Mi manca tanto!” In seguito i due genitori appaiono e riappaiono in differenti età. Il tempo si torce e ritorna su se stesso.
Bisogna dire che il film non è allusivo, anzi esplicita nel dialogo il proprio fondamento “filosofico” (che, inutile dirlo, si può collegare a tutta la filmografia di Charlie Kaufman). L'assurdità di questi incroci temporali trova una base nella meditazione di Lucy sul tempo: noi non ci muoviamo avanti nel tempo come si pensa; al contrario, “siamo immobili... e il tempo ci attraversa”, come un vento gelido che ci lascia congelati. E ancora (Jake): non esiste la realtà oggettiva, come non esistono fuori dal nostro cervello il tempo o i colori. Esiste la morte – ed è per questo che l'uomo ha inventato la speranza (un concetto vagamente leopardiano).

Non ce ne rendiamo conto fino alla fine, ma stiamo assistendo ai pensieri, alle fantasie e ai ricordi di un uomo morente – cosicché, con un colossale shifting di focalizzazione del film, ci rendiamo conto che il protagonista non è Lucy ma Jake. Il vecchio bidello (Guy Boyd) che si aggira per i corridoi vuoti del liceo è il Jake fallito della realtà. E Lucy è un incontro del passato che non si è mai concretizzato in un rapporto. Jake si è creato una fantasia. Al contrario di Se mi lasci, ti cancello (sceneggiato da Kaufman), qui è “Se mi lasci, ti ricreo”.
Si potrebbe anche supporre che le varie occupazioni di Lucy rappresentino desideri falliti di Jake giovane per la vita futura. Lui da giovane dipingeva; si intende di cinema e legge Pauline Kael (evidenza del libro in camera sua, ed è della Kael il discorso su Gena Rowlands che sentiamo da Lucy); ama la poesia (Ossa di cane proviene in realtà da un libro in camera sua); alla fine del film il maiale parlante gli dice “tu che sei un fisico”, il che corrisponde a Lucy in una delle sue “incarnazioni”.
Così, il film è una triste riflessione non sull'accaduto ma sull'accaduto mancato. Lo enuncia il folle colloquio di Lucy col bidello: lei gli parla del suo boyfriend appena entrato nel liceo ma non sa descriverlo, perché “è stato tanto tempo fa”; parla del loro primo incontro dicendo che non ha avuto un seguito (“non-interazioni”). Gli incontri romantici felici avvengono solo al cinema: nel film “di Robert Zemeckis” guardato dal bidello in una scena.

Il doppio immaginario di Jake da giovane viene ucciso dal se stesso vecchio in uno scontro al coltello che fa pensare a West Side Story ma che si risolve in forme simboliche reminiscenti del teatro kabuki (i fazzoletti rossi che simboleggiano il sangue). Poi il vecchio bidello sembra morire nella sua auto – “Vieni, seguimi”, gli dice il clown cartoonistico della pubblicità della catena Tulsey Town – e il maiale fantasma lo accompagna, nudo come alla nascita, in un auditorium. Qui Jake (ma ora non è Guy Boyd, è Jesse Plemons, truccato da vecchio in modo grottesco) fa il suo discorso di accettazione di un premio mai ricevuto e canta la sua canzone davanti a una platea di zombi, fra i quali spicca una vecchia Lucy. Peraltro anche il suo discorso finale e la sua canzone sono frutto di un'introiezione di esperienze di spettacolo, A Beautiful Mind e Oklahoma.
Tutto questo è una costellazione di pensieri in una mente arrivata alla fine. Noi siamo soli davanti al mare di nebbia del mondo, come il Viandante di David Caspar Friedrich di cui, come si vede all'inizio, Lucy tiene una riproduzione in una casa mai esistita.


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