venerdì 1 marzo 2019

Don Giovanni di Molière

regia teatrale di Valerio Binasco


Appena passato al Teatro Nuovo di Udine, il Don Giovanni di Molière diretto da Valerio Binasco, con Gianluca Gobbi nel ruolo e Sergio Romano come Sganarello, è una messa in scena assai bella che riproduce Molière con fedeltà – i piccoli spiritosi riferimenti contemporanei, come il TSO e gli psicofarmaci quando Don Giovanni si divide freneticamente fra Charlotte e Mathurine cercando di convincere ciascuna che l'altra è pazza, non annacquano l'aderenza al testo ma anzi, come lievi tocchi di humour, la rinforzano. Non è una modernizzazione ma una messa in scena moderna, che è esattamente il contrario.
Dimenticatevi Ruggero Raimondi spettrale in nero nel Don Giovanni di Mozart diretto da Losey. Il concetto di Valerio Binasco, come ha abbondantemente dichiarato, è di proporre una lettura di Don Giovanni diversa dalla “figura vampiresca e tardoromantica” cui siamo abituati. Gianluca Gobbi è anzi felicemente carnale, corpulento e tatuato, ridanciano e chiassoso, e veste come la guardia del corpo di un cravattaro. Il suo Don Giovanni è, come si direbbe a Roma, un impunito.
E' un uomo del qui ed ora, di una golosità egocentrica tutta materiale e immediata. Quel che è toccante è che ha dei brevi momenti d'angoscia, celati all'ingenuo Sganarello ma non agli spettatori; e però li mette da parte come un bambino con uno scuotere di testa e un nuovo pensiero-giocattolo. E ciò non per fermezza d'anima o per un partito preso filosofico “sadiano”. Anzi, se Don Giovanni è il prototipo storico dell'esprit fort, questo Don Giovanni è piuttosto il prototipo dell'esprit faible – l'uomo infantile della nostra epoca. I suoi scherzi crudeli con Sganarello, che porta in fronte e sulla schiena il segno dei colpi del padrone, sono proprio quelli di un bambino prepotente.
La coppia Don Giovanni/Sganarello porta sul palcoscenico una presenza trascinante, un vero balletto dialettico che avrebbe fatto felice Molière, con un delizioso uso del movimento, nel quale il gioco di Sganarello fra sottomissione timorosa e ribellione morale si trasforma a tratti in momenti di esilarante complicità, come davanti alla statua del Commendatore. Più che poli dialettici sono una scintilla continua, un interscambio ininterrotto, due opposte clownerie, una coppia di Vladimiro ed Estragone della morale.
Lo spettacolo, dove le intelligenti scenografie di Guido Fiorato producono la ricchezza visuale tramite un'elegante semplicità, è vivo e trascinante, con numerose belle invenzioni di regia. Anche il fatto che Pierrot parli in napoletano non è un capriccio modernista ma rende il francese contadino usato da Molière nella scena (anche in questo grande precursore). La soluzione di trasformare il falso pentimento di Don Giovanni in una corrispondenza con il padre è un tocco vivace, che rima dal punto di vista spaziale con la scena già citata con Charlotte e Mathurine – anche se così è costretta a rompere quell'unità di tempo che viene riaffermata subito dopo, con effetto un po' spiazzante, dall'apparizione di Don Carlos che reclama il duello. Mentre è da vedere piuttosto come una concessione al femminismo contemporaneo l'esortazione morale di Donna Elvira recitata (con bravura dell'interprete Giordana Faggiano) come un discorsetto imparato a memoria su imposizione dei fratelli.
Anche se la morte di Don Giovanni non ha il consueto carattere di cataclisma, la scena in cui la statua del Commendatore muove la testa dopo l'invito a cena è perfettamente concepita, e con la lentezza e la direzione del movimento restituisce quell'elemento inquietante che noi spettatori di solito non sentiamo, dandolo per scontato come passaggio il più noto del testo. Da notare che subito dopo l'annichilazione di Don Giovanni, lo spettacolo riprende la prima versione molièriana del finale, quello comico con la battuta di Sganarello “La mia paga! La mia paga!”, anziché il breve discorso morale che vi fu sostituito dopo le prime rappresentazioni. E', questo, in linea con un orizzonte tutto terreno dei personaggi – al quale dobbiamo una nuova percezione del burlador de Sevilla rispetto a quella che avevamo.

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