Il
cinema sull'Inquisizione e le sue vittime, che già aveva un esempio
italiano alto in Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti, si
arricchisce di un apporto notevole con Menocchio di Alberto
Fasulo. E' quel Menocchio mugnaio eretico del Cinquecento la cui
storia è narrata ne Il formaggio e i vermi di
Carlo Ginzburg; anche se il film non si riferisce direttamente al
libro, supportandosi piuttosto sugli studi di Andrea Del Col.
Nella prima immagine
Menocchio (l'eccellente non professionista Alberto Martini) entra dal
buio avanzando quasi teatralmente fino al primissimo piano. Non è
solo l'affacciarsi alla ribalta del racconto; di più, è l'emergere
dal grumo di oscurità che avvolge il personaggio nella sua essenza –
un rappresentante delle classi inferiori in un mondo agricolo,
storicamente mute (i senzastoria, per dirla con Tito Maniacco), che
si prende il diritto non solo di parlare ma di ragionare di quelle
cose che l'egemonia della Chiesa arroga a sé. Infatti – e questo è
un tratto perfettamente centrato nel film – gli inquisitori ancor
più che di sanzionare l'eresia di Menocchio si preoccupano di
individuare la fonte del “contagio” (“Chi ti ha detto queste
cose?”) quasi ribellandosi all'idea che l'umile mugnaio possa
averla elaborata da solo. E' per mantenere la nozione di questa
distanza che il film non menziona i libri da cui il Menocchio storico
aveva tratto, interpretandoli a suo modo, le basi della sua nebulosa
cosmogonia. Ed è, questo atteggiamento mentale degli inquisitori,
imparentato con lo stesso sconcerto descritto da Ginzburg in un altro
libro famoso, I benandanti, davanti a un fenomeno che non
rientra nelle categorie della teologia cattolica e quindi ci verrà
fatto rientrare a forza.
Il racconto poi si apre
su una stalla, frazionata in dettagli: una donna che prega, uomini e
animali, una vacca gravida di cui questo montaggio per dettagli
ritaglia il ventre gonfio e gli occhi dolci. Ha un senso,
quest'inizio, sul piano della storia. E' la concretezza contadina che
sostanzia la visione del mondo di Menocchio; ma c'è di più: un uomo
abituato a veder nascere bambini e animali come esperienza quotidiana
è il meno propenso a credere alla verginità della Madonna ante
partum, post partum et in partu secondo il dogma della
Chiesa. “I miei figli li ho fatti nascere io... mia moglie non era
vergine dopo”.
Le opinioni di
Menocchio ci vengono riferite “come in uno specchio” attraverso
il gioco delle domande degli inquisitori, le risposte di Menocchio
alle contestazioni fattegli, le risposte impacciate e impaurite dei
testimoni. Sfila davanti all'inquisitore un mondo di contadini
reticenti. Rimane impressa la vulnerabilità della moglie di
Menocchio, sulla quale l'inquisitore cerca di far leva con tecniche
psicologiche consumate – che del nostro tempo, invertendo la
filiazione, possono ricordare la Stasi e le altre inquisizioni
comuniste. Nota che fra questi testimoni a rischio di divenire
imputati c'è il parroco del paese. Qui viene appena adombrata, ma
con intelligenza, una questione che tormentava la Chiesa, quella del
clero di campagna e della sua formazione (è per questo che il Concilio di Trento impose l'istituzione obbligatoria dei
seminari).
Il film giustamente
insiste poco sulla cosmologia di Menocchio, una sorta di materialismo
panteista (solo durante l'abiura finale sentiamo sentiamo
l'espressione “a modo di formaggio” che richiama il testo di
Ginzburg); mentre non manca di dar conto di come i suoi discorsi
contengano un sottofondo di contrapposizione di classe (il dio della
ricchezza e quello della povertà) che è proprio di molti movimenti
ereticali.
Saggiamente il film non
trasforma Menocchio in un santino illuminista ante litteram:
il suo interesse è di metterne in risalto la carica di ribellione
intellettuale e morale. Tutto questo è scritto nel suo viso barbuto,
cupo, roccioso, che esprime una volontà indomabile. Nella scena
finale in cui recita coram populo la sua abiura, Menocchio
alza la voce quasi gridando quando elenca le proposizioni eretiche
che deve condannare, come a riaffermarle.
Per
questo Menocchio si trova contro contro un potere più grande di
quanto lui stesso si immaginasse – un dominio sulle anime come sui
corpi. In una scena vagamente brechtiana vediamo l'inizio della
costruzione di una chiesa con i contadini che lavorano visti in
opposizione al frate che, da mosca cocchiera, sbraita autoritarie
esortazioni (alla fine dell'erezione della grande croce uno di loro
commenta: “Adesso ha finito di gridare anche il prete”). C'è una
bellissima pagina in cui Menocchio, portato al processo, è lasciato
da solo in una stanza riccamente affrescata con immagini di vescovi e
re. Sono la manifestazione visibile del potere, amplificato dalla
meraviglia del mugnaio che vede qualcosa che non aveva mai visto
prima. Il film inserisce una serie di primissimi piani dei personaggi
affrescati che – come fosse un'interpellazione – guardano “in
macchina” verso di lui in una logica di campo/controcampo.
Menocchio è un
film della soggettività. Il cinema di Fasulo è sempre stato un
cinema della concretezza, dell' immediatezza dell'esperienza – qui,
per Menocchio, per gli altri personaggi, fra cui spicca la moglie,
per gli stessi inquisitori. Il film si articola su due percorsi: da
un lato quello degli inquisitori, preoccupati o scandalizzati di
fronte a questo soggetto incognito; dall'altro quello di Menocchio,
sempre meno in grado di difendersi e tuttavia ostinatamente ribelle,
sempre più vicino al momento della scelta fra il rogo e l'abiura. E'
a questo punto che entra il suo incubo, con suggestioni goyesche, in
cui si vede messo al rogo da figure demoniache con le maschere dei
Krampus che scandiscono in coro “Menocchio non parla più”. Una
scena precedente, la macellazione della vacca, col muso insanguinato
tirato su da Menocchio davanti alla propria faccia, gli offre ora il
materiale inconscio per la maschera-teschio bovino nell'incubo.
Così Menocchio abiura
– ma, così nella realtà storica come nel racconto del film
attraverso le didascalie finali, dopo un periodo di imprigionamento,
tornato al paese, continuerà a esprimere le sue idee, sicché anni
dopo perirà sul rogo come eretico relapso.
Non dico niente di
originale se dico che Menocchio è un film olmiano. La
lezione di Ermanno Olmi è presente nella narrazione, che riesce a
fondere la concretezza materiale con un elemento di astrazione; ed è
presente nell'autenticità assoluta dei visi, così concreti e
terragni, dai quali Fasulo fa emergere una forte verità. E anzi, una
battuta di Menocchio su Dio che si nasconde per vergogna degli uomini
richiama – non volutamente, penso, ma è un cortocircuito
interessante – un passaggio di dialogo nel capolavoro di Olmi
Torneranno i prati.
Allo scopo di garantire
l'immedesimazione degli interpreti, il film è stato girato in
sequenza cronologica, e Fasulo ha fatto recitare gli attori senza
fornir loro in anticipo un copione dei dialoghi, in modo da portare
allo scoperto le loro emozioni. Non manca l'uso del dialetto,
friulano e veneto, in contrapposizione all'italiano (le esortazioni
del figlio ad abiurare: “Salviti, pari – vif, pari
– no pues vioditi murì cumò... no par man di lôr, dai
predis”). Nella raffinata fotografia, dello stesso Fasulo, sono
evidenti le suggestioni pittoriche: Rembrandt in questo buio
d'inchiostro, tangibile, che avvolge Menocchio imprigionato;
Caravaggio un certi tagli di luce, come una porta a sbarre illuminata
da dietro; e naturalmente Goya, non solo nella scena dell'incubo.
Potrebbe essere un caso, ma anche l'inquadratura di Menocchio nudo
alla tortura ricorda con segno rovesciato il Colosso.
Il film è attento sul
piano storico (notevole l'esplorazione della logica del carcere: la
candela in cella a spese di Menocchio, l'elenco delle proibizioni che
comprende sputare e tossire), ma intende essere universale; tanto che
non stridono un paio di leggeri anacronismi linguistici (“ideologie”
in senso moderno, “fulminanz”, ossia fiammiferi,
l'improbabile uso colto dell'avverbio “ne” che sentiamo in bocca
a uno dei testimoni all'inizio). Bisogna ricordare che Alberto Fasulo
tende in tutto il suo cinema “antispettacolare” a raggiungere
attraverso il realismo una sorta di dimensione atemporale, con
l'esperienza umana al centro – e anche questo è un tratto olmiano.
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