Le
Giornate del Cinema Muto di Pordenone sono un ricostituente. Ogni
anno ne usciamo non soltanto più informati (vale anche per Venezia)
e non soltanto più felici (vale anche per Venezia? Dipende) ma
più colti. Da trentasette anni le Giornate ridefiniscono la
storia del cinema.
Partendo
dalle occasioni più spettacolari, vorrei ricordare due grandissimi
film nella sezione “Riscoperte e restauri”. Riscoperta assoluta è
Judaspengar (1915), un film di Victor Sjöström
ritrovato solo due anni fa. Film di profonda umanità, dove il
realismo non si muta mai in naturalismo; ma quel che più colpisce è
l'eccezionale uso di porte e finestre come estensioni dello spazio
filmico. L'inizio è su una finestra inquadrata dall'esterno – e
quando il protagonista da dentro la apre l'effetto è di apertura
della storia; tanto più che la macchina da presa entra
audacemente nella stanza attraverso quella finestra. Il secondo film
è il restauro di Forbidden Paradise di Ernst Lubitsch,
finalmente ricostruito in un'edizione prossima a quella originale.
Nel suo gioco sull'implicito, nell'ironico lasciare allo spettatore
di trarre le conclusioni, nel suo finale agrodolce, nel sorridente
cinismo, è Lubitsch al quadrato (e non mancano per nulla le sue
famose porte!). Anche il gustoso, e ben noto, Tokkan Kozo
di Ozu Yasujiro si è potuto vedere in una versione leggermente
integrata rispetto a quella che conosciamo. Ancora, nel campo delle
opere famose ma che è sempre bene rivedere, menziono lo sconvolgente
Il carretto fantasma di Sjöström;
The Last of the Mohicans di Maurice Tourneur e Clarence Brown,
felicissimo incontro fra la capacità di astrazione del primo e il
gusto drammatico panoramico del secondo; lo scatenato Le avventure
di Mister West nel paese dei bolscevichi di Lev Kulešov.
Si è rivisto L'Atlantide
di Jacques Feyder e non mancava l'Assunta
Spina di Gustavo
Serena, co-regista uncredited
la protagonista Francesca Bertini.
Inoltre
una sezione speciale ha presentato alcuni grandi film in omaggio a
Kevin Brownlow. Ecco il western del 1923 The Covered Wagon
di James Cruze, trascinante epica dei pionieri (la lunga linea bianca
dei carri Conestoga offre l'occasione di bellissime inquadrature in
profondità) – dove, se dovessi scegliere una gemma, segnalerei la
grande pagina dell'attraversamento del fiume Platte, splendidamente
girata e montata. Fra gli interpreti di contorno troviamo lo
“stroheimiano” Tully Marshall, il quale compare anche nel
bellissimo Smouldering Fires di Clarence Brown: un film che
comincia in tono di commedia e si sviluppa e conclude come melodramma
puro – chiudendosi in modo indimenticabile sull'immagine dei tre
protagonisti riuniti in tableau, dove il viso della
protagonista Pauline Frederick congelato in una smorfia di dolore
segreta, ignota agli altri due, stampa sullo schermo la realtà
tragica del suo sacrificio. E infine The Enemy, di Fred Niblo,
con la sempre meravigliosa Lillian Gish: un film del 1927 ambientato
all'epoca della prima guerra mondiale, notevole per il suo pacifismo
totale (anche se un assurdo lieto fine aggiunto dalla produzione fa
il possibile per rovinarlo); dove l'importanza, come sempre, non
viene dal messaggio ma dal livello artistico della realizzazione.
Due
film di apertura e chiusura con l'orchestra, un highlight di
Pordenone, è stato una bella sorpresa Captain Salvation di
John S. Robertson, che incrocia un dramma morale anti-puritano con
l'avventura di mare (lo scontro a due in cima agli alberi della nave,
fra vele e sartie, è forse il migliore che abbia mai visto). Testo
coraggioso e ottima messa in scena, che raggiunge vertici di
espressività nel montaggio frenetico dei visi ghignanti dei forzati.
Ma questa capacità di narrazione “eccessiva” di Robertson
risaltava già dal suo Dr. Jekyll and Mr. Hyde del 1920, e
anche almeno in parte da Annie Laurie – un regista da
studiare. Meno importante il film di chiusura, Le jouer d'échecs
di Raymond Bernard, piacevole ma non di grande levatura, spettacolare
a tratti ma incapace di sfruttare le suggestioni browninghiane del
soggetto. Francamente, Lubitsch (sarebbe stato il secondo anno
consecutivo, ma di Lubitsch non ce n'è mai abbastanza) o Sjöström
o I promessi sposi di Bonnard o In Old Kentucky di
Stahl sarebbero stati una scelta migliore.
John
M. Stahl, appunto. Questo grande del mélo americano, che il largo
pubblico conosce praticamente solo per Femmina folle, mostra
nei suoi film muti un'umanità profonda, un estremismo dell'intreccio
(come del resto è regola del mélo), una perizia registica
prodigiosa, nonché l'emergere di un interesse verso la commedia
sofisticata. In Old Kentucky è un magnifico esempio di
melodramma più cinema sportivo più commedia di sottofondo – dove
Stahl mostra, nel quadro della consueta abilità di regia, la
capacità di esplorare imprevedibili rapporti e analogie fra la
classe superiore bianca e la servitù negra.
Nel
ciclo dedicato a Mario Bonnard, I promessi sposi (1922) è
stato un clou delle Giornate. Si è visto in una versione di due ore
e dieci, ridotta rispetto alla lunghissima prima versione, ma che “si
tiene”, sicché solo raramente s'indovina lo iato. I personaggi
sono perfettamente resi, a partire dai due protagonisti Domenico
Serra e Emilia Vidali. Ovviamente l'esigenza cui doveva far fronte
qualsiasi versione filmica del capolavoro di Manzoni, prima della
nostra epoca più libera (o forse sciagurata), era di doversi
attenere al testo, pena l'accusa di lesa maestà letteraria, e nel
contempo vivacizzare ove possibile; l'intelligente trascrizione di
Bonnard centra l'obiettivo appieno. Restituisce fedelmente il testo
manzoniano; anche le didascalie lo utilizzano spesso, ma pure quelle
“funzionali” non stridono. E tuttavia Manzoni non viene ricalcato
piattamente, anzi, il suo testo è sottolineato con notazioni vivaci.
Questo non impedisce al film di allargarsi in scene (i saccheggi e la
battaglia) che, pur d'invenzione, entrano bene nel contesto. L'ottima
fotografia di Giuseppe Paolo Vitrotti tiene presente la lezione del
grande muto internazionale (vedi la bellissima inquadratura di
presentazione di Lucia, che fa pensare ad Abel Gance) e negli esterni
si distingue per un eccellente uso degli elementi architettonici in
primo piano.
Si
parla sempre – e giustamente – di Dickens come padre putativo del
cinema, tramite Griffith naturalmente. Ma ci volevano le Giornate per
farci riflettere su quanto il cinema fin dalle origini debba a
Balzac. Nella consistente rassegna di film a lui dedicati (e
naturalmente costretto a limitarmi a quelli visti) lo spazio mi
consente di menzionarne solo alcuni. Primo lungometraggio di Jean
Epstein, L'auberge rouge (1923) è un esempio perfetto di
quel “grande stile francese”, spesso chiamato impressionista, che
si distingue dallo stile americano poi definito classico. Con il suo
impiego particolare del montaggio e del primissimo piano, in accordo
con la riflessione di Epstein sulla “fotogenia”, L'auberge
rouge non solo porta a un diapason drammatico il suo svolgimento,
di per sé angoscioso, con mezzi puramente cinematografici, ma è una
vera realizzazione di "cinema del pensiero”. Il capolavoro di
Marcel L'Herbier L'homme du large,1920, si accoppia idealmente
a Epstein nel testimoniare il "grande stile francese", con
forti primissimi piani, sovrimpressioni simboliche, bizzarre tendine
e mascherini, e uno stile affascinante nelle didascalie. Questa
storia di un padre che vizia il figlio Michel trasformandolo in un
debole scioperato, ambientata nel potente paesaggio bretone, è
realistica ma nell'apertura e nel finale sfuma quasi nel
metafisico.(Noticina in margine: se Marcel L'Herbier avesse saputo
che un secolo dopo si sarebbe vista una società che si dà da fare
per trasformare i propri giovani in altrettanti Michel, gli sarebbe
venuto un colpo!). Liebe di Paul Czinner è un po' freddo e
accademico, pur elevandosi a un potente livello melodrammatico nella
scena dell'appuntamento mancato. E' una bellissima sorpresa La
cousine Bette di Max de Rieux, ottimo film francese d'impianto
dichiaratamente romanzesco che rende con forza il testo balzachiano e
v'introduce una vena quasi horror, provvista dall'avvelenatore Nell
Haroun dal viso truccato che è un incrocio fra un Pierrot maligno e
un dandy vampiresco; anche se, parlando di attori, bisogna menzionare
in primo luogo l'interpretazione monumentale di Alice Tissot.
Ancora
una volta le Giornate hanno esplorato il cinema scandinavo. Fra i
molti film – sempre caratterizzati da quel tipico “senso vasto”
della natura, ora drammatico, ora semplicemente pittoresco, ma sempre
arioso – ne menziono uno solo, su cui non occorre spendere parole:
il meraviglioso Prästänkan
di
Carl Theodor Dreyer (però anche Victor Sjöström,
presente in altre sezioni, giocava coi colori del Nord). Ed un altro
paese verso il quale le Giornate sono felicemente parziali è il
Giappone. Ho già accennato a Tokkan
Kozo,
ma abbiamo visto in una rassegna di
saundo-ban
– cioè film parzialmente sonorizzati – il sublime Orizuru
Osen
di Mizoguchi Kenji (che invero del saundo
può anche fare a meno) e il grazioso Tokyo
ondo
di Nomura Hotei, che invece come film semi-musicale non s'immagina
senza la sonorizzazione.
E
ancora, non ho detto di John H. Collins, un regista che forse sarebbe
oggi ricordato fra i maggiori se non fosse morto giovane nella famosa
epidemia di influenza del 1918, quest'anno ricordato con i suoi primi
film, fra cui cito The
Slavey Student;
della novità di quest'anno, la rassegna di film pubblicitari
d'epoca, dove segnalo come particolarmente grazioso quello
realizzato per il sapone Nivea dalla grande Lotte Reiniger,
animatrice di figure in silhouette; dei corti delle origini e di
quelli successivi (come non si può adorare Clara Kimball Young,
ragazzaccia terribile in When
Mary Grew Up?).
Fra questi c'era Our
Pet,
un ennesimo cortometraggio recuperato dell'attrice bambina Baby
Peggy, un film comico che a occhi odierni sembra particolarmente
audace, in cui la seienne Peggy fa l'imitazione di una signora della
buona società circondata da un a coorte di amanti. Ma lo menziono
anche perché, per combinazione, il giorno stesso in cui scrivo e
pubblico quest'articolo l'attrice compie cento anni. Auguri, Baby
Peggy!
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