lunedì 29 ottobre 2018

Giornate del Cinema Muto di Pordenone 2018



Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone sono un ricostituente. Ogni anno ne usciamo non soltanto più informati (vale anche per Venezia) e non soltanto più felici (vale anche per Venezia? Dipende) ma più colti. Da trentasette anni le Giornate ridefiniscono la storia del cinema.
Partendo dalle occasioni più spettacolari, vorrei ricordare due grandissimi film nella sezione “Riscoperte e restauri”. Riscoperta assoluta è Judaspengar (1915), un film di Victor Sjöström ritrovato solo due anni fa. Film di profonda umanità, dove il realismo non si muta mai in naturalismo; ma quel che più colpisce è l'eccezionale uso di porte e finestre come estensioni dello spazio filmico. L'inizio è su una finestra inquadrata dall'esterno – e quando il protagonista da dentro la apre l'effetto è di apertura della storia; tanto più che la macchina da presa entra audacemente nella stanza attraverso quella finestra. Il secondo film è il restauro di Forbidden Paradise di Ernst Lubitsch, finalmente ricostruito in un'edizione prossima a quella originale. Nel suo gioco sull'implicito, nell'ironico lasciare allo spettatore di trarre le conclusioni, nel suo finale agrodolce, nel sorridente cinismo, è Lubitsch al quadrato (e non mancano per nulla le sue famose porte!). Anche il gustoso, e ben noto, Tokkan Kozo di Ozu Yasujiro si è potuto vedere in una versione leggermente integrata rispetto a quella che conosciamo. Ancora, nel campo delle opere famose ma che è sempre bene rivedere, menziono lo sconvolgente Il carretto fantasma di Sjöström; The Last of the Mohicans di Maurice Tourneur e Clarence Brown, felicissimo incontro fra la capacità di astrazione del primo e il gusto drammatico panoramico del secondo; lo scatenato Le avventure di Mister West nel paese dei bolscevichi di Lev Kulešov. Si è rivisto L'Atlantide di Jacques Feyder e non mancava l'Assunta Spina di Gustavo Serena, co-regista uncredited la protagonista Francesca Bertini.
Inoltre una sezione speciale ha presentato alcuni grandi film in omaggio a Kevin Brownlow. Ecco il western del 1923 The Covered Wagon di James Cruze, trascinante epica dei pionieri (la lunga linea bianca dei carri Conestoga offre l'occasione di bellissime inquadrature in profondità) – dove, se dovessi scegliere una gemma, segnalerei la grande pagina dell'attraversamento del fiume Platte, splendidamente girata e montata. Fra gli interpreti di contorno troviamo lo “stroheimiano” Tully Marshall, il quale compare anche nel bellissimo Smouldering Fires di Clarence Brown: un film che comincia in tono di commedia e si sviluppa e conclude come melodramma puro – chiudendosi in modo indimenticabile sull'immagine dei tre protagonisti riuniti in tableau, dove il viso della protagonista Pauline Frederick congelato in una smorfia di dolore segreta, ignota agli altri due, stampa sullo schermo la realtà tragica del suo sacrificio. E infine The Enemy, di Fred Niblo, con la sempre meravigliosa Lillian Gish: un film del 1927 ambientato all'epoca della prima guerra mondiale, notevole per il suo pacifismo totale (anche se un assurdo lieto fine aggiunto dalla produzione fa il possibile per rovinarlo); dove l'importanza, come sempre, non viene dal messaggio ma dal livello artistico della realizzazione.
Due film di apertura e chiusura con l'orchestra, un highlight di Pordenone, è stato una bella sorpresa Captain Salvation di John S. Robertson, che incrocia un dramma morale anti-puritano con l'avventura di mare (lo scontro a due in cima agli alberi della nave, fra vele e sartie, è forse il migliore che abbia mai visto). Testo coraggioso e ottima messa in scena, che raggiunge vertici di espressività nel montaggio frenetico dei visi ghignanti dei forzati. Ma questa capacità di narrazione “eccessiva” di Robertson risaltava già dal suo Dr. Jekyll and Mr. Hyde del 1920, e anche almeno in parte da Annie Laurie – un regista da studiare. Meno importante il film di chiusura, Le jouer d'échecs di Raymond Bernard, piacevole ma non di grande levatura, spettacolare a tratti ma incapace di sfruttare le suggestioni browninghiane del soggetto. Francamente, Lubitsch (sarebbe stato il secondo anno consecutivo, ma di Lubitsch non ce n'è mai abbastanza) o Sjöström o I promessi sposi di Bonnard o In Old Kentucky di Stahl sarebbero stati una scelta migliore.
John M. Stahl, appunto. Questo grande del mélo americano, che il largo pubblico conosce praticamente solo per Femmina folle, mostra nei suoi film muti un'umanità profonda, un estremismo dell'intreccio (come del resto è regola del mélo), una perizia registica prodigiosa, nonché l'emergere di un interesse verso la commedia sofisticata. In Old Kentucky è un magnifico esempio di melodramma più cinema sportivo più commedia di sottofondo – dove Stahl mostra, nel quadro della consueta abilità di regia, la capacità di esplorare imprevedibili rapporti e analogie fra la classe superiore bianca e la servitù negra.
Nel ciclo dedicato a Mario Bonnard, I promessi sposi (1922) è stato un clou delle Giornate. Si è visto in una versione di due ore e dieci, ridotta rispetto alla lunghissima prima versione, ma che “si tiene”, sicché solo raramente s'indovina lo iato. I personaggi sono perfettamente resi, a partire dai due protagonisti Domenico Serra e Emilia Vidali. Ovviamente l'esigenza cui doveva far fronte qualsiasi versione filmica del capolavoro di Manzoni, prima della nostra epoca più libera (o forse sciagurata), era di doversi attenere al testo, pena l'accusa di lesa maestà letteraria, e nel contempo vivacizzare ove possibile; l'intelligente trascrizione di Bonnard centra l'obiettivo appieno. Restituisce fedelmente il testo manzoniano; anche le didascalie lo utilizzano spesso, ma pure quelle “funzionali” non stridono. E tuttavia Manzoni non viene ricalcato piattamente, anzi, il suo testo è sottolineato con notazioni vivaci. Questo non impedisce al film di allargarsi in scene (i saccheggi e la battaglia) che, pur d'invenzione, entrano bene nel contesto. L'ottima fotografia di Giuseppe Paolo Vitrotti tiene presente la lezione del grande muto internazionale (vedi la bellissima inquadratura di presentazione di Lucia, che fa pensare ad Abel Gance) e negli esterni si distingue per un eccellente uso degli elementi architettonici in primo piano.
Si parla sempre – e giustamente – di Dickens come padre putativo del cinema, tramite Griffith naturalmente. Ma ci volevano le Giornate per farci riflettere su quanto il cinema fin dalle origini debba a Balzac. Nella consistente rassegna di film a lui dedicati (e naturalmente costretto a limitarmi a quelli visti) lo spazio mi consente di menzionarne solo alcuni. Primo lungometraggio di Jean Epstein, L'auberge rouge (1923) è un esempio perfetto di quel “grande stile francese”, spesso chiamato impressionista, che si distingue dallo stile americano poi definito classico. Con il suo impiego particolare del montaggio e del primissimo piano, in accordo con la riflessione di Epstein sulla “fotogenia”, L'auberge rouge non solo porta a un diapason drammatico il suo svolgimento, di per sé angoscioso, con mezzi puramente cinematografici, ma è una vera realizzazione di "cinema del pensiero”. Il capolavoro di Marcel L'Herbier L'homme du large,1920, si accoppia idealmente a Epstein nel testimoniare il "grande stile francese", con forti primissimi piani, sovrimpressioni simboliche, bizzarre tendine e mascherini, e uno stile affascinante nelle didascalie. Questa storia di un padre che vizia il figlio Michel trasformandolo in un debole scioperato, ambientata nel potente paesaggio bretone, è realistica ma nell'apertura e nel finale sfuma quasi nel metafisico.(Noticina in margine: se Marcel L'Herbier avesse saputo che un secolo dopo si sarebbe vista una società che si dà da fare per trasformare i propri giovani in altrettanti Michel, gli sarebbe venuto un colpo!). Liebe di Paul Czinner è un po' freddo e accademico, pur elevandosi a un potente livello melodrammatico nella scena dell'appuntamento mancato. E' una bellissima sorpresa La cousine Bette di Max de Rieux, ottimo film francese d'impianto dichiaratamente romanzesco che rende con forza il testo balzachiano e v'introduce una vena quasi horror, provvista dall'avvelenatore Nell Haroun dal viso truccato che è un incrocio fra un Pierrot maligno e un dandy vampiresco; anche se, parlando di attori, bisogna menzionare in primo luogo l'interpretazione monumentale di Alice Tissot.
Ancora una volta le Giornate hanno esplorato il cinema scandinavo. Fra i molti film – sempre caratterizzati da quel tipico “senso vasto” della natura, ora drammatico, ora semplicemente pittoresco, ma sempre arioso – ne menziono uno solo, su cui non occorre spendere parole: il meraviglioso Prästänkan di Carl Theodor Dreyer (però anche Victor Sjöström, presente in altre sezioni, giocava coi colori del Nord). Ed un altro paese verso il quale le Giornate sono felicemente parziali è il Giappone. Ho già accennato a Tokkan Kozo, ma abbiamo visto in una rassegna di saundo-ban – cioè film parzialmente sonorizzati – il sublime Orizuru Osen di Mizoguchi Kenji (che invero del saundo può anche fare a meno) e il grazioso Tokyo ondo di Nomura Hotei, che invece come film semi-musicale non s'immagina senza la sonorizzazione.
E ancora, non ho detto di John H. Collins, un regista che forse sarebbe oggi ricordato fra i maggiori se non fosse morto giovane nella famosa epidemia di influenza del 1918, quest'anno ricordato con i suoi primi film, fra cui cito The Slavey Student; della novità di quest'anno, la rassegna di film pubblicitari d'epoca, dove segnalo come particolarmente grazioso quello realizzato per il sapone Nivea dalla grande Lotte Reiniger, animatrice di figure in silhouette; dei corti delle origini e di quelli successivi (come non si può adorare Clara Kimball Young, ragazzaccia terribile in When Mary Grew Up?). Fra questi c'era Our Pet, un ennesimo cortometraggio recuperato dell'attrice bambina Baby Peggy, un film comico che a occhi odierni sembra particolarmente audace, in cui la seienne Peggy fa l'imitazione di una signora della buona società circondata da un a coorte di amanti. Ma lo menziono anche perché, per combinazione, il giorno stesso in cui scrivo e pubblico quest'articolo l'attrice compie cento anni. Auguri, Baby Peggy!

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