Per
introdurre la dimensione del racconto, una volta il cinema era
obbligato a usare la voce narrante. Clint Eastwood per Jersey
Boys - portando sullo schermo il
musical di Marshal Brickman e Rick Elice sul gruppo rock The Four
Seasons negli anni '50/'60 - mantiene della pièce
un espediente che nel cinema è ben più moderno che in teatro:
l'interpellazione. Ora l'uno ora l'altro dei quattro musicisti guarda
in macchina e parla direttamente agli spettatori. Si può aggiungere
che in Jersey Boys il
regime delle interpellazioni è uno dei più belli mai visti al
cinema: i componenti della band non si rivolgono allo spettatore solo
in momenti di sospensione dell'azione, ciò che sarebbe comune, bensì
prendendosi un attimo a parte in un'azione che continua: perfino
durante l'esecuzione di una canzone.
Ciò
dà al film un carattere più diretto e colloquiale della semplice
voce narrante, e più “vero”. Lo si vede bene nel finale, quando
i quattro protagonisti, invecchiati, si rivedono anni dopo per
entrare nella Rock and Roll Hall of Fame. Qui ci rivelano la loro
verità individuale, i loro retroscena psicologici; come accade
sempre, ognuno ha vissuto la storia a modo suo; ognuno si gioca da
solo la partita della vita. Il tragico, dice Jean Renoir ne La regola del gioco e ripete Eastwood in Jersey Boys, è che ciascuno ha le sue buone ragioni.
La
biografia è davvero nelle corde di Clint Eastwood (che qui appare
giovane in tv in Rawhide).
Questo perché raccontare una vita in un biopic
significa immergersi nel tempo: cercare le piccole cose come le
grandi, tracciare la quotidianità, disegnare la lenta spirale della
crescita. Ciò è nelle corde di Eastwood perché il suo cinema
racconta le cose come sono: un fatto è un fatto, un oggetto è un
oggetto, e basta. E' per questo che Clint è l'ultimo dei grandi
cineasti classici americani: per l'atteggiamento. Non tanto, quindi,
per ragioni di linguaggio cinematografico: che, certo, è semplice e
diretto, ma Eastwood non ha problemi a innestarvi soluzioni evolute
come gli audaci parallelismi di Hereafter
o gli incroci temporali di J. Edgar
o il regime dell'interpellazione qui.
Così,
nei bei colori d'epoca della fotografia del suo regular
Howard Stern, Eastwood ci parla di cosa significa crescere nel New
Jersey povero, dove hai tre modi per venir fuori dal quartiere:
entrare nell'esercito, entrare nella mafia o diventare famoso (il
solo in cui non rischi la pelle). C'è una cordialità picaresca
nella descrizione di questa giovinezza di piccola malavita (con un
grandissimo Christopher Walken nel ruolo del boss mafioso locale, che
prende i ragazzi sotto la sua ala protettrice); Clint sa raccontare
allo stesso modo la legge e l'illegalità, il ladro e il poliziotto -
perché al centro del suo cinema sta sempre l'uomo nella sua
interezza.
Ci
racconta del rapporto da fratello maggiore/fratello minore tra Tommy,
leale e prepotente, chiassoso e spaccone, e Frankie, ragazzotto
impacciato ma provvisto di una voce che farà il successo del gruppo.
E poi ci parla dell'inevitabilità di crescere, cambiare, veder
emergere i lati oscuri degli amici, come Tommy che diventa troppo
disinvolto coi soldi del gruppo: in una parola, separarsi pur
restando insieme (occorre ricordare che la caratteristica degli eroi
eastwoodiani è la solitudine?) in quella specie di matrimonio a
quattro che è la carriera musicale di una band.
Impalpabilmente
la centralità del racconto scivola da Tommy DeVito (Vincent Piazza)
a Frankie Valli (John Lloyd Young), con
le sue sventure familiari: la moglie ostile e alcolizzata e poi la
figlia estraniata, a causa della sua vita errabonda di musicista.
Sono i temi del cinema di Eastwood: la responsabilità e il senso di
colpa dell'abbandono. Forse solo Clint è capace di prendere un topos
del cinema sentimentale come la bambina che guarda dall'alto delle
scale dopo una lite dei genitori e renderlo dolce e straziante come
se fosse la prima volta che lo vediamo - dipende dal fatto che
Eastwood non cita e non rifà: mostra, filma, fresco come Griffith.
Per questo il suo cinema non è fatto pei filistei.
Jersey
Boys è un film di una bellezza
struggente. L'arte è nascosta, ma non c'è particolare che non sia
decisivo; al punto che lo spettatore viene invaso da una commozione
che non è di ordine narrativo (empatia verso un personaggio) bensì
estetico: commozione per il fluire quieto e maestoso del racconto.
Che è supportato da interpreti eccellenti, come Walken
(indimenticabile quando piange ascoltando Frankie in una canzone che
era la preferita di sua moglie) o Mike Doyle, flamboyant
senza essere caricaturale nel ruolo del produttore gay Bob Crewe.
Clint
Eastwood è un musicista, e Jersey Boys
si accomuna a Honkytonk
Man e Bird,
stavolta in omaggio all'era del rock (con Sinatra spesso citato). Il
film segue in modo realistico la formula del biopic
musicale: la musica è diegetica (prodotta in campo) o appartiene
alla score. Perciò
è tanto più stupefacente il finale che, nato sul filo del ricordo,
si allarga diventando un balletto, con la pura follia doneniana e
minnelliana per cui tutti si mettono a cantare e ballare in strada –
e dico tutti i personaggi, anche il vecchio boss Walken, anche
l'usuraio Donnie Kehr. E così abbiamo visto qualcosa che non ci
aspettavamo di vedere: il musical eastwoodiano.
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