“Io
e te” è un film importante non solo in sé ma anche perché segna
il ritorno di Bernardo Bertolucci dopo che il confinamento su una
sedia a rotelle, a causa di un'operazione, per anni gli aveva tolto
la disposizione psicologica a girare. In questo senso “Io e te”
segna un percorso di guarigione sia esternamente che internamente al
film.
In
attesa di vederlo, la previsione di tutti noi fedeli spettatori
bertolucciani era di un film “da camera”, e quindi idealmente
nella linea de “L'assedio”. Ora, è vero che “Io e te” è un
“film da camera” (sebbene la “camera” sia una cantina) –
detto per inciso, di stupefacente freschezza. Però nella filmografia
di Bertolucci, più che a “L'assedio”, quest'opera va avvicinata
a “The Dreamers” (che dal canto suo andava avvicinato a “Ultimo
tango a Parigi”).
“The Dreamers”
infatti materializzava un concetto importante in Bertolucci, al quale
anche “Ultimo tango” era dedicato: quello del rinchiudersi in uno
spazio centripeto (connesso all'attività erotica) che tende a
serrarsi sempre di più. Una sorta di utero che si fa via via più
soffocante fino a divenire mortale; se ne esce solo attraverso un
atto di violenza: la revolverata di Maria Schneider a Marlon Brando
in “Ultimo tango”, la pietra sessantottina che rompe il vetro in
“The Dreamers”.
Ma
se diciamo utero, diciamo anche nascita. Questo concetto è assente
in “Ultimo tango”, dove Maria Schneider sfuggiva alla spirale
autodistruttiva per reinserirsi in un ordine borghese (col tocco
radical-chic del fidanzato filmmaker); ma è fortemente presente in
“The Dreamers”, ove addirittura la struttura di teli di plastica
costruita nel film fa pensare alla “tenda sudatoria” che serve
all'espansione dell'io nel misticismo degli indiani d'America.
Complice quella pietra scagliata da fuori, “The Dreamers” sfocia
nel passaggio alla vita: la strada (“Dans la
rue!”), le barricate del Maggio parigino del '68 (qualunque
sia il giudizio che oggi possiamo dare su quel movimento...), sulle
note di Edith Piaf: Je ne regrette rien.
Ed
eccoci a “Io e te”, tratto con intelligente libertà dal romanzo
di Niccolò Ammaniti. Lorenzo è un quattordicenne disadattato: è
asociale, anaffettivo, soggetto a scatti isterici (ne mima uno nel
film per ingannare la madre divorziata con cui vive). E'
evidentemente in preda a una sindrome di narcisismo; non per nulla lo
vediamo leggere Anne Rice: il narcisismo è la caratteristica
principale dei vampiri della Rice, e il film lo enuncia citando una
frase paradigmatica: “Sono il vampiro Lestat. Sono immortale”.
Mentre
la madre crede che vada in settimana bianca, Lorenzo finge solo di
andarci e si nasconde, armi e bagagli, nella cantina del condominio.
Solo che lì irrompe la sorellastra maggiore, Olivia, una tossica che
sta cercando di smettere. Il rapporto che si instaura, prima
ringhioso poi sempre più vicino, costringe Lorenzo a riconoscere
l'altro in quanto altro; di più, la crisi di astinenza di Olivia lo
costringe a fare i conti materialmente con la realtà.
Il
film quindi si svolge principalmente in questa cantina-utero dove i
due protagonisti si rinchiudono; l'amore di Lorenzo per i terrari (di
rettili e insetti) evidentemente rima
con la sua scelta di ritirarsi in questo spazio circoscritto. Ma
stavolta lo spazio non si restringe in una stretta mortale; né di
conseguenza c'è bisogno di un atto traumatico che lo rompa. Poiché
qui Bertolucci mette in primo piano l'elemento della ri/nascita, si
può ben dire che “Ultimo tango” e “Io e te” si pongono come
due poli opposti, con “The Dreamers” a metà strada (in realtà,
non proprio metà strada) fra i due.
Fra
i fili che intessono il film, ce n'è uno che ricorda direttamente il
capolavoro bertolucciano “La luna”: la tendenza incestuosa del
protagonista verso la madre, che produce fantasie di incesto in una
situazione post-atomica (Lot a rovescio). Ma una fantasia
post-atomica di sopravvivenza è proprio quella che Lorenzo realizza
nella cantina; escluso ovviamente l'aspetto incestuoso, ma
l'attrazione non detta verso la sorellastra (ruba e conserva la sua
foto nuda) è uno spostamento – e anche in questo un passo di
guarigione.
E
nello splendido finale, quando Lorenzo (dopo la partenza di Olivia)
esce in strada, il fermo immagine e lo zoom su di lui sono l'esatto
equivalente di quell'esplosione di confidenza e di vita cui alla fine
di “The Dreamers” dava voce Edith Piaf.
A
settant'anni Bernardo Bertolucci è uno di quei grandi vecchi maestri
che hanno una visione saggia, distaccata ma umana, potremmo dire
goethiana, della vita. E che posseggono inoltre il dono di una
freschezza e di una immediatezza che molti giovani si sognano. Ha
verso la vita un atteggiamento per così dire “paterno” (forse
non è privo di senso che lo psicologo - figura paterna per
definizione - che appare all'inizio sia su una sedia a rotelle, cosa
che non può non farci pensare a Bertolucci stesso). E' esso che gli
fa scegliere una conclusione non ottimista ma aperta rispetto al
destino di Olivia (l'episodio del pacchetto di sigarette) contro il
pessimismo un po' facile del romanzo. Questa particolare saggezza
“riconciliata” era già presente nel Bertolucci maturo (basta
citare “Piccolo Buddha”, “L'assedio”, “Io ballo da sola”,
“Histoire d'eau”), ma qui è ancor più diretta, evidente,
serena. Non vengono forse in mente il “gran padre di tutti” De
Oliveira o l'ultimo Kurosawa di “Madadayo”?
1 commento:
Bellissima recensione.
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