Nuri Bilge Ceylan
Si potrebbe vedere nell'apertura di “C'era una volta in Anatolia” di Nuri Bilge Ceylan (inquadratura di un vetro offuscato; lento avvicinamento della mdp; cambio di fuoco che finalmente rivela le figure) come un'immagine della struttura del magnifico film turco. Nelle sue due ore e mezza, una lentezza meditabonda e avvincente ci immerge, per così dire, nel ritmo del respiro degli uomini e delle cose; coll lento delinearsi delle psicologie (il riferimento principale dell'autore è Čechov) emerge una verità che non è scoperta drammaturgica, strategia narrativa a puzzle, bensì il lento costruirsi dell'esperienza che permette di apprezzarne il peso, e quindi di rapportarlo a quel dolore universale che beffeggia la buona volontà degli uomini.
C'è stato un omicidio, un uomo è stato ucciso in un litigio causato dalla scoperta di un adulterio. Nella notte, poliziotti e militari, guidati dal commissario Naci con il procuratore Nusret e il medico legale Cemal, scortano in lungo e in largo per la campagna anatolica l'assassino e suo fratello cercando di farsi mostrare dove il corpo è stato seppellito. La bella fotografia di Gökhan Tiryaki esalta questo paesaggio povero: non in senso cartolinesco ma in riprese intense nelle quali l'ampiezza del panorama in rapporto alle piccole figure umane richiama qualcosa del cinema iraniano.
Il film è percorso da un'asciutta vena di humour noir: il verbale della scoperta del cadavere con la folle discussione (quasi un Beckett in Turchia) su quale sia il paese più vicino; il cadavere avvolto, perché si è dimenticato il sacco, in una coperta con un disegno superkitsch di aquile e leopardi; i problemi per ficcare dentro il corpo nel portabagagli; più tardi, nella sequenza dell'autopsia, il discorso dell'assistente che invidia gli strumenti chirurgici dell'ospedale vicino, fra cui una sega elettrica che la sera si può mettere in ricarica (come un cellulare!).
Per passare il tempo nella lunga ricerca, i viaggiatori discutono oziosamente; e io loro discorsi rivelano di ognuno una storia nascosta e una sofferenza segreta. Dolori tutti legati alla famiglia: i dispiaceri del commissario, la colpa del procuratore, la solitudine del medico divorziato. Parlando della malattia del suo bambino il commissario si chiede: “Perché Dio ha scelto lui?” - un travaglio universale al quale non ci sottraiamo, qualunque sia la nostra vita, è l'orizzonte del film. Un momento di sospensione quasi magica a questo dolore si ha nel capitolo sulla visita al sindaco del paese vicino - che li secca con beghe di politica locale - con l'apparizione della sua giovane figlia, che serve il tè in silenzio, ammutolendo tutti con la sua bellezza, in una luce alla De La Tour. Di fronte a questo momento il prigioniero Kenan piange; non per nulla nella scena appare un fantasma (allucinazione o sogno): quel momento di pace unifica i vivi e i morti.
Un fatto umano fondamentale, che salta fuori per vie traverse, apparentemente casuali, e ritorna in modo ossessivo fra il procuratore e il medico è il racconto di una bellissima donna che è morta improvvisamente senza motivo ma dopo averlo preannunciato mesi prima. E' molto vero e molto umano il modo in cui il film ci guida alla comprensione che questo è un dar voce del procuratore al proprio sospetto di un suicidio – e quindi autoaccusarsi (non sarebbe sbagliato aggiungere al nome di Čechov quello di Dostoevskij). L'ingenuo cinismo dei sottoposti più umili - “Quando si dice che qualcuno è gentile vuol dire che è innocuo” - risponde all'intuizione che tutti gli uomini sono peccatori. La terra è proprio “l'aiuola che ci fa tanto feroci”.
Nell'orizzonte di questo pessimismo sulla vita che attraversa il film, cosa può fare un uomo? Può solo portare un gesto di umanità o di gentilezza: quel minimo di bene che può fare; di qui la conclusione con il dottore, che qui ci tocca rivelare, perché è il centro di gravità morale del film. L'autopsia rivela che quando la vittima è stata seppellita dall'assassino e da suo fratello, che credevano di averlo ucciso con un colpo in testa, era ancora viva. Questo il dottore lo passa sotto silenzio, impone un verbale falso; impedisce che un omicidio per rissa si aggravi spaventosamente. E guarda allontanarsi, perduti nella loro miseria, altre due vittime, la moglie del morto e suo figlio - che forse è, senza saperlo, il figlio dell'assassino (“Alla fine sono i bambini quelli che soffrono di più. Tutti pagano per i loro peccati ma i bambini pagano per quelli degli altri”).
Quel minimo di bene. In questo senso è un film intrinsecamente religioso; dal punto di vista morale - non da quello narrativo - un ultimo nome che sale alle labbra è quello di Robert Bresson.
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