Darren Aronofsky
Si vede molto dolore e sangue in “The Wrestler” di Darren Aronofsky - ma è giusto, perché questo è un film di corpi: di wrestling, di lap dance, di ferite, di cicatrici, di vecchiaia (prima delle immagini, sul nero dei titoli, la radiocronaca del vecchio incontro vittorioso di Randy “The Ram” 12 anni prima sfuma nei suoi colpi di tosse nel grigio presente). E quindi anche di sangue; e di lacrime, che colano dagli occhi di Mickey Rourke.
Randy è quello che in America chiamano un “has been”. E’ stato un grande campione, gli hanno perfino dedicato un videogioco, ma il tempo è passato, e ora lui vivacchia nel circuito del wrestling come può, a corto di soldi, con tutto il peso degli anni addosso. La prima impietosa immagine ce lo mostra, seduto di schiena, con la pancia prominente; ed è shockante vederlo coi suoi lunghi capelli biondi da icona del ring ma con l’apparecchio acustico, e che legge con gli occhiali. Per arrotondare lavora al banco degli alimentari di un supermercato; e Rourke con la cuffietta di plastica in testa che fa il grazioso con le casalinghe al banco è uno spettacolo di triste declino quanto Anthony Quinn che fa la danza indiana nella boxe-spettacolo alla fine di “Una faccia piena di pugni”. Randy si è buttato via la vita; alla figlia che lo odia per averla abbandonata dice: “E adesso sono un vecchio pezzo di carne maciullata… e sono solo”. Corteggia la lap dancer Cassidy (Marisa Tomei), ma questa lo respinge per paura di una delusione. Anche lei ormai non ha più l’età giusta per il suo lavoro, come le fa notare brutalmente una banda di stronzetti nel locale. C’è dunque una similarità fra queste due figure, che il film riconosce; peraltro c’è anche una similarità fra i loro mondi/mestieri (basati entrambi sulla finzione, qui dello scontro fisico, là della seduzione sessuale), che il film lascia sottintesa ma trascura di esplorare.
Quando vediamo il viso devastato di Mickey Rourke, è inevitabile che si crei un corto circuito personaggio/attore - visto che anche Mickey Rourke era diventato in pratica un “has been” che si era dissipato la vita e gli allori (e questa storia tragica di un “comeback” è anche il “comeback” dell’attore). Ovvia quindi la constatazione che non si tratta solo di capacità attoriale (come per l’eccellente Marisa Tomei) ma che nel personaggio l’attore si riflette e si ritrova: ed è anche questo a dargli quel senso lancinante di verità.
“The Wrestler” ha uno stile asciutto, che col suo uso della macchina a mano, con la sua fotografia (di Maryse Alberti) priva di glamour, sporca, un po’ sgranata, col suo sguardo - specie nella prima parte - quasi da cinéma-vérité, tiene qualcosa del pedinamento documentaristico. Ciò fa da forte contrappeso, accanto all’ammirevole interpretazione, a uno sviluppo drammaturgico molto tradizionale, che abbiamo visto in tante epopee sportive sul vecchio campione - il declino fisico, la figlia abbandonata, il riavvicinamento che fallisce a causa di una nuova sciocchezza, l’infarto e il bypass, l’umile lavoro, l’esplosione di rabbia e il licenziamento, il rifiuto della donna amata, e quindi la decisione di tornare sul ring per l’ultimo incontro a prezzo della vita - e riesce invero a renderlo credibile e toccante.
Dell’atteggiamento attento del film fa parte uno sguardo oggettivo ma aperto e partecipe sul mondo del wrestling: la preparazione teatrale dei match, la violenza finto-vera sul ring (c’è una scena impressionante di “garbage wrestling”, in cui si usa tutto ma tutto per massacrarsi), l’ambiente malinconico e zingaresco dei lottatori (lo confesso, ignoravo che ci siano anche le groupies del wrestling). La contraddizione del wrestling, che è teatro e sport, è un farsi male per dare al pubblico l’impressione di farsi malissimo, permette al suo protagonista di incarnare il “corpo sacrificale”. Il film si interrompe su Randy, col cuore che sta cedendo, in procinto di chiudere lo scontro con un volo d’angelo (si chiama così nel wrestling quando si monta in piedi su un paletto del ring per poi buttarsi addosso di peso all’avversario a terra). Così “The Wrestler” raggiunge un’aspra e virile moralità western (come dichiara la scena in cui Randy guida, diretto al suo ultimo incontro, nella luce del tramonto): l’accettazione della propria realtà (Randy a Cassidy prima del match finale: “Ehi… li senti? E’ questo il mio mondo. Devo andare”) e la scelta di seguirla fino alla fine. L’ultimo volo d’angelo è la morte.
(Il Nuovo FVG)
sabato 7 marzo 2009
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