sabato 25 ottobre 2008

Miracolo a Sant'Anna

Spike Lee

E così, raccontano i giornali, Spike Lee ha licenziato il suo agente come risposta al fallimento commerciale negli USA di “Miracolo a Sant'Anna” – comportandosi come Caligola che fa frustare il messaggero, invece di riflettere sulle manchevolezze proprie circa questo film su un gruppo di soldati neri nel 1944, sperduto fra le montagne toscane, che si mischia con i montanari locali e i partigiani, fra i quali si annida un traditore. Beninteso, qui non c'entra nulla il pianto greco della nostra sinistra perché il cattivo Spike le ha rotto il giocattolo della retorica resistenziale; qui il fatto è che Spike Lee non ha semplicemente sfornato un’opera sbagliata come può accadere a tutti (a lui per esempio con “Girl 6 – Sesso in linea”) ma ha realizzato un film di inconsistenza drammaturgica, mediocrità narrativa, goffaggine di messa in scena tali, che in confronto Edward Wood jr. sembra Jean Renoir.
La storia - un lunghissimo flashback entro una cornice del 1984 (riguardante l’atto inspiegabile di un impiegato delle poste, ex militare decorato, che spara a un cliente con una Luger) - ambiziosamente tocca una quantità di argomenti: la tragica condizione dei soldati negri nella seconda guerra mondiale, comandati da ufficiali bianchi razzisti che li odiano; l'Italia desolata del 1944; la scissione dei tedeschi fra crudeltà e coscienza; i drammi psicologici e politici dei partigiani; più un pizzico di fantastico; più una testa scolpita del '500, che non c'entra un fico. E il dramma del film non è che segua troppe piste narrative, ma che ciascuna di queste è seguita in modo incerto, retorico, falso e confuso. La tendenza al romanzone totale (di temi e di sentimenti) si arena fra poeticismo ricattatorio e desolante inettitudine.
Il solo momento in cui la firma di Spike Lee mantiene un senso è l'apertura, realistica, sorprendente (lo sparo), anche elegante: ci ricorderemo di quel bel movimento avanti della mdp verso la porta, all'altezza del tappeto. Ma poi il film va giù per il piano incrinato del ridicolo involontario. Già all'inizio del flashback bellico, con la propagandista nazi che parla a Radio Berlino sotto i ritratti di Hitler e Goebbels e fa profferte sessuali ai soldati negri a nome di tutte le donne tedesche (che amano i maschioni neri, dice), vediamo che Spike Lee conosce meglio la storia del basket che quella del Novecento. Il film è letteralmente costellato di scemenze, vuoi di messa in scena storica, come Valentina Cervi che si lava a torso nudo all'aperto esibendo le tette al soldato nero (capite, fra i montanari toscani del 1944 il topless era “de rigueur”), vuoi di ricerca dell’effettazzo sentimentale: il bambino scemo che, incontrando il grosso soldato negro scemo pure lui, con vocina impostata e blesa flauta “Un gigante di cioccolata!” (e poi lo lecca e protesta “Ma non sciei di scioccolata, scigante”) è uno dei casi limite di zuccherosità leziosa e fasulla raggiunti dal cinema moderno. Diamo per scontato i guasti prodotti da un doppiaggio che grida vendetta al cielo, ma non possiamo caricar tutto sulle spalle degli sciagurati doppiatori. Quando Valentina Cervi, dopo essersi fatta sedurre dal soldato pseudo-poetico (“Lasciami entrare nel tuo giardino”), riappare con addosso l'elmetto e col fucile, l’effetto – prima che artisticamente imbarazzante – è sghignazzevole: uno di quegli anticlimax alla “Frankenstein junior”.
I rapporti fra italiani e soldati negri aprono una delle questioni più evidenti e ridicole del film: in che lingua parlano? Dopo buffi accenno iniziali di comunicazione smozzicata e a segni fra italiano e italiano, tutti si capiscono benissimo, anche su questioni filosofiche ovvero su leggende locali; pure il bambino col soldato; sicché l'unica spiegazione è che parlino esperanto. I tedeschi non devono essere bravi esperantisti, perché il prigioniero “che sa” resta muto con espressione ebete finché non viene ammazzato.
Tutti sono figure piatte e convenzionali, macchiette, stereotipi da burletta, dal comportamento artificioso e improbabile: i tedeschi, i partigiani, i contadini e, “last but not least”, i soldati negri stessi. Un fintume presuntuoso e soddisfatto di sé tracima e si diffonde per tutto il film, rendendolo assai simile a una delle nostre fiction tv. Così il vero problema critico di questo film orribile non è tanto di indicarne forzature e scempiaggini (un tiro al piccione abbastanza facile, già che il film ne è zeppo) ma capire cosa c'entri Spike Lee. Perché quello che conoscevamo come uno dei maggiori registi americani qui non è deludente: è irriconoscibile.

(Il Nuovo FVG)

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