M. Night Shyamalan
M. Night Shyamalan è narratore di fantasmi, di goblin, di supereroi che non lo sanno, di creature fiabesche e di cose che “go bump in the night”, di cerchi nel grano, di piscine magiche e di foreste stregate. Il suo nuovo bellissimo film “E venne il giorno” (“The Happening”) si basa su un concetto elementare: stufe degli esseri umani (beh! Dal loro punto di vista è comprensibile), le piante cominciano a sterminarli emettendo una tossina che, trasportata dal vento, li fa impazzire e scatena l’istinto suicida. Si può solo fuggire cercando affannosamente rifugio. “E venne il giorno” è “Gli uccelli” di Hitchcock su base vegetale.
Le piante che si agitano sotto il vento realizzano l’immagine fondante del film. Con l’apporto prezioso del direttore della fotografia Tak Fujimoto, Shyamalan crea una impressionante fusione fra due entità: il vento e le piante stesse: questi alberi, questi cespugli, questi steli d’erba dei campi che tremano, si torcono e si dibattono concretizzano illusionisticamente nella mente dello spettatore il concetto di “piante infuriate”. Shyamalan è sempre stato maestro in quest’uso “magico” della natura – potremmo definirlo un “vivificatore”. Non si possono non menzionare qui le splendide inquadrature di nuvole accelerate dei titoli di testa e di coda, nuvole impazzite in un cielo sempre più nero in sintonia con l’elemento di tragedia che pesa sul film.
Questo film di crudeltà spietata ha una particolare terribilità visuale nelle sue morti per suicidio: i muratori che si gettano dall’alto del palazzo, in una soggettiva dal basso, quasi marciando; la pistola che passa di mano come il testimone di una staffetta; gli impiccati che pendono dagli alberi; la vecchia signora che sfonda le finestre con la testa, in un’immagine che è l’omaggio di Shyamalan ai film di zombi. A un certo punto Shyamalan, con un vero tocco di sadismo registico, per un primissimo piano della bambina terrorizzata usa perfino il grandangolo.
In mano a un regista di mediocre livello (per esempio l’ultimo Tobe Hooper) questa storia sarebbe diventata il solito “scappa scappa”. Shyamalan ne fa una commovente tragedia umana. Quello che più colpisce del film è la sua quasi inverosimile semplicità. Un uomo, una donna e una bambina nel cuore della fine del mondo: ecco tutto. E’ il classicismo di Shyamalan (in eterno dialogo nel suo cinema con il barocchismo delle sue storie a rovesciamento).
Va detto, c’è un difetto di scrittura relativo al personaggio di Alma (Zooey Deschanel: per inciso, è chiaro che Shyamalan ama nei suoi attori un tipo di recitazione semi-ipnotica, quasi straniata, ma qui v’è anche un limite interpretativo personale). Per giustificare il suo atteggiamento nei confronti del marito, il plot richiederebbe che avesse avuto un adulterio, ma nella Hollywood neo-puritana di oggi questo non è possibile per la “female lead”; quindi la sua avventura è stata (somma ridicolaggine) mangiare un dolce con un corteggiatore e dire al marito una bugia in proposito. Nota che quando per consolarla e riallacciare il rapporto il marito Elliott (Mark Wahlberg) le racconta di una propria tentazione, essa è altrettanto puerile. Ci si può chiedere: è Shyamalan ad avere una sessualità infantile o è Hollywood a richiederla? L’uno e l’altro. Tuttavia, sia pure a partire da questa bambocciata, lo svolgimento raggiunge il suo scopo: pervenire a una rinascita (c’è un tema salvifico in tutto il cinema di Shyamalan) attraverso la comprensione.
Il tema della comprensione è centrale nel film – comprendere ciò che sta accadendo, per sopravvivere, ma anche comprendere i limiti della comprensione (teorizzati nel dialogo all’inizio e alla fine, e umoristicamente adombrati nella gag di Elliott che cerca di instaurare un rapporto parlando a una pianta d’appartamento – finché non si accorge che è di plastica). E’ evidente che un film in cui le piante si ribellano all’uomo sottende quell’esigenza di ricomposizione del rapporto con la natura che apriva esplicitamente l’ammirevole “Lady in the Water” ma appariva anche (come utopia fallita) in “The Village”, e del resto appartiene a tutta l’opera di Shyamalan.
Vi allude oscuramente il gioco della bambina con la rana; Ma in primo luogo viene evidentemente la comprensione umana, attraverso il tema fisso di Shyamalan della famiglia e della maternità. Il film finisce quando la coppia si riforma - riunendosi fisicamente all’aperto, accettano la (prevista) morte: è come un sacrificio - e quando Alma ha accettato la maternità, che prima temeva, come madre putativa della piccola Jess. In seguito è solo naturale che nel finale aspetti un figlio dal marito (etimologicamente Alma è “nutritrice”; se è voluto, ben si adatta a Shyamalan: ricordiamo che la protagonista di “Lady in the Water”, film quanto mai conscio dell’aspetto metanarrativo, si chiamava Story).
E’ interessante quel tramite (parola super-shyamalaniana!) del contatto umano che è l’“anello delle emozioni”, un oggetto-simbolo importante nel film. Perché in Shyamalan ritornano spesso (e in “Lady in the Water” più che mai) queste forme di piccola magia moderna metropolitana, quasi magia fai-da-te – quasi un sostituto di magie favolistiche di altri tempi, più potenti e perdute.
(Il Nuovo FVG)
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