Julian Schnabel
La metafora è quella di essere chiuso in uno scafandro. Prigioniero all’interno del proprio corpo paralizzato, dopo un ictus, capace di muovere solo la palpebra sinistra: ecco la sindrome toccata al giornalista di successo Jean-Dominique Bauby, in una storia vera da cui Julian Schnabel ha tratto il film “Lo scafandro e la farfalla”, che si avvale di un’interpretazione dolente e naturalistica di Mathieu Amalric.
In quest’opera discutibile ma interessante, Schnabel si attiene rigorosamente alla macchina da presa in soggettiva per realizzare la mimesi della condizione visuale di Bauby e del faticoso sistema che usa per comunicare: chiude la palpebra in corrispondenza alla lettera scelta in un elenco che gli viene letto (domanda evidentemente ingenua, visto che non l’hanno fatto, ma non sarebbe stato più facile usare il codice Morse?). Quest’uso della mdp come mimesi dell’occhio ricorda gli esperimenti di soggettiva totale di cui il capostipite è “Una donna nel lago” di Robert Montgomery (1947), e naturalmente incontra lo stesso problema: l’ottica dell’occhio non è quella della macchina da presa; così la visione in soggettiva di Jean-Dominique non risulta totalmente convincente. Possiamo prenderla come una metafora, non una mimesi autentica.
La questione è però un’altra. A un certo punto del film la visione soggettiva se ne va, per poi fare brevi ritorni mentre il film si stabilizza sull’oggettiva. E’ un vero rovesciamento, e infatti il primo stacco dal soggettivo all’oggettivo, quando arriva, ci fa sobbalzare: ha qualcosa di gratuito, e come di sottilmente indecente. La voce interiore del protagonista ci accompagna per tutto il film, ma anch’essa con irregolarità. Invero, oggettivo e soggettivo nel film diventano un cocktail (anche a parte errori come un’ovvia soggettiva di lui, sulle gambe della logopedista scoperte dal vento, da un’angolatura impossibile) e questo oscillare del punto di vista non è fecondo ma dà un’impressione di irregolarità e confusione - che pesa, e conferma l’impressione di un film più effettistico che intenso.
Certo, v’è nel racconto un’evoluzione, col passaggio all’accettazione del sistema comunicativo (il lento avviarsi di un recupero) dopo la disperazione e il rifiuto. Ma tale sviluppo non è sufficiente - né peraltro quadrerebbe sul piano temporale - per giustificare un’inversione così netta di prospettiva visuale. Giacché il discorso del film parte agganciato all’occhio del protagonista con la perentorietà che vediamo, ci vorrebbe molto di più per farci accettare il rovesciamento totale – e questo perché l’occhio, lo sguardo, è il cuore stesso di qualsiasi film.
Beninteso, ne “Lo scafandro e la farfalla” v’è molto di buono. Ad esempio, il modo progressivo di rivelarsi (prima in un riflesso colto al volo mentre viene portato in carrozzella, e solo dopo in uno specchio) - della devastazione fisica del viso, con l’orrore del labbro pendulo: nello shock della visione siamo accomunati noi e il protagonista, ancora incatenati dalla soggettiva. Le efficaci meditazioni sul “lungo deserto” della domenica, o l’episodio della televisione che viene spenta sotto gli occhi impotenti del protagonista, bene rivelano di scorcio un altro aspetto, che il film non ama sviluppare: la storia di una disperata impotenza. E la pagina della telefonata in viva voce che mette a contatto nella camera le due donne rivali contiene una semplice verità dolorosa.
Parimenti v’è molto di deludente nel film. Esistono momenti telegrafati (il discorso-messaggio dell’ex ostaggio sul fatto di non arrendersi); montaggi d’immagini che sanno un po’ di videoclip (gli iceberg che crollano – e sui titoli di coda ci tocca vederli che si riformano!) e fiacchi momenti di fantasizzazione; un passaggio ingenuamente metanarrativo; pagine poco convinte (il prete) o francamente modeste, come la goffa sequenza della gita a Lourdes. Sarà bene ripeterlo: si tratta di un film dignitoso. Ma non all’altezza del suo terribile assunto.
(Il Nuovo FVG)
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