venerdì 24 gennaio 2025

Oh, Canada

Paul Schrader

Per combinazione, sono usciti nello stesso periodo due affascinanti film americani sul tempo. In Here di Robert Zemeckis il tempo è oggettivo: è un lungo fiume di fatti catturato da una macchina da presa “eterna” piazzata lì fin dall’epoca dei dinosauri, in una impossibile inquadratura fissa vivificata da un uso geniale del framing. Il tempo scorre interminabile, ma i suoi segni ritornano (come la collana della donna indiana) nella consapevolezza maestosa del gigantesco flusso dell’esistenza, che unisce e assorbe le vite, le gioie i dolori e gli errori; i secoli passano ma la natura è immortale, e ancora e sempre i colibrì continuano a succhiare il nettare dei fiori.
In Oh, Canada - I tradimenti di Paul Schrader il tempo è un labirinto soggettivo: la confessione autopunitiva di un uomo solo davanti alla morte (alla fine della vita – non è nemmeno necessario essere moribondi, di solito basta essere vecchi – si vedono le cose con angosciosa chiarezza). Il film inizia con la voce narrante di un figlio rifiutato: “Non ero presente quando mio padre morì”; col che aprendo il film ci annuncia la morte del protagonista. Così il film si svolge nella consapevolezza di essa, quasi un’opera di fantasmi – come nel noir. Il cinema riporta i morti in vita (Susan Sontag e Sigmund Freud sono i numi tutelari del film), e questo è un tema molto schraderiano.
Leo Fife (Richard Gere) è un famoso documentarista impegnato, eroe dei progressisti canadesi perché si era rifugiato in Canada per sottrarsi all’arruolamento al tempo della guerra del Vietnam. Ora è malato terminale e due suoi ex allievi vogliono realizzare un’intervista filmata per celebrarlo. Malcolm (Michael Imperioli), autore del progetto, si considera un suo figlio spirituale – cosa che non può non far drizzare le orecchie a chi conosce il cinema di Schrader, in cui è centrale lo scontro tra il figlio e il padre (o – vedi L’ultima tentazione di Cristo, diretto da Scorsese e scritto da Scharader – il Padre). E infatti Leo lo attacca e lo chiama “fraud”. L’ambizioso Malcolm è venuto con una lista di 25 domande ma non ne farà neanche una: Leo gli tronca la parola e si getta nella dolorosa, spietata, masochistica rievocazione della propria falsità e mediocrità. Non era scappato in Canada per sottrarsi alle guerra, era già riuscito a farsi riformare (“coward!”, gli lancia dietro l’ufficiale reclutatore), bensì per sfuggire alle responsabilità familiari del matrimonio di allora e prolungare una giovinezza sessantottina. Era diventato documentarista engagé per caso. Sul piano personale era un egoista incapace di amare, che abbandona un figlio infante per poi rinnegarlo quando si presenta trent’anni dopo.
Leo insiste che Emma (Uma Thurman), la sua ultima moglie, sia presente a questo denudamento – “È più facile se lo dico a te” – e s’instaura un bellissimo gioco di sguardi, mediato dall’immagine sul monitor. Il cinema e i processi di riproduzione dell’immagine sono sempre stati uno dei principali interessi schraderiani, condito di diffidenza morale; qui sono compresi anche brevi frammenti dei documentari di Leo. I flashback che concretizzano sullo schermo questa sua confessione hanno i colori morbidi degli anni Sessanta. Leo, dichiara, vuol dire alla sua splendida moglie che razza d’uomo ha sposato. Il dolore e la stanchezza della malattia e la realtà bassa della vita (la sacca da cambiare, le feci da pulire) appaiano alla nudità dell’anima la miseria del corpo.
Riconosciamo subito in Leo gli eroi autopunitivi, ossessivi, soverchiati dal peso del passato, del cinema di Paul Schrader, grande regista e sceneggiatore di formazione calvinista, che ci parla sempre di solitudine, crocifissione, redenzione – traversare il deserto del peccato e della colpa.
Il secondo grande tema del film, in guerresca dialettica col primo, è l’ambiguità. Durante l’intervista di Leo, la moglie Emma protesta accoratamente che i suoi ricordi confondono realtà e fantasia per colpa delle medicine; ovvero tende a stabilire Leo nella nostra percezione come il classico “testimonio inaffidabile”, con la conseguente falsità dei flashback. Invero Schrader non fa sforzo alcuno per celare la soggettività del racconto. L’attore Jacob Elordi che interpreta Leo da giovane non somiglia per struttura fisica a Richard Gere, è più smilzo e più alto; inoltre talvolta vediamo lo stesso Gere (non quello devastato dell’intervista ma quello dei flashback di qualche anno prima) mescolarsi nei flashback al posto del se stesso giovane, e almeno in un caso “sdoppiarsi” spiandolo dalla finestra mentre fa l’amore.
Un paio di passaggi mostrano un’obiezione di Malcolm a qualcosa che Leo non ha detto ma abbiamo semplicemente visto nel flashback (il fumare in aereo, i vestiti invernali rubati). Naturalmente possiamo sempre pensare che le abbia menzionate prima – ma questa non è che una possibile spiegazione a posteriori. In un momento diviso in due nella narrazione, una forte luce bianca lo fa bloccare confuso – un momento (inconsapevole omaggio funebre!) alla David Lynch – e appaiono accanto a lui i personaggi della sua vita.
L’ambiguità è aumentata dal fatto che il film si fonda su una ridda di voci: quella narrante del figlio rifiutato di Leo, la voce “oggettiva” di Leo nell’intervista, la voce over dei suoi pensieri, le proteste di Emma che mettono in crisi lo statuto di verità. Alla fine la voce over del figlio descrive la sua morte – e vediamo il giovane Leo al confine con il Canada, in un film tempestato di scelte di direzione (il che ci ricorda l’amore di Schrader per l’allegoria). “Oh, Canada”: l’audace citazione dell’inizio di Quarto potere di Welles, che Schrader mette alla fine, ci conferma che quello che abbiamo visto è un viaggio nella sofferenza della vita di un uomo e nell’impossibilità di penetrare una memoria.

sabato 18 gennaio 2025

Emilia Pérez

Jacques Audiard

Non c’è ragione nell’opera”: ruberemo questa battuta alla Callas di Maria di Pablo Larraín qualora ci appaia implausibile il bel film di Jacques Audiard Emilia Pérez. Implausibile lo è, certo; era nato proprio come libretto d’opera in un vecchio progetto del regista. Narrato con energia quasi febbrile (non per nulla Audiard è l’autore de I fratelli Sisters), è un audace mix musical-mélo-gangsteristico, ove spesso i personaggi si esprimono cantando con contorno di coreografie. O meglio, il loro è per lo più un cantato-parlato, un “recitar cantando”; chi scrive avrebbe preferito canzoni da musical in senso stretto ma questa è un’’opinione del tutto minoritaria.
Siamo in Messico; un’avvocata infelice perché sfruttata sul lavoro dal suo capo, Rita (Zoe Saldana), riceve – in un modo inquietante che tocca il rapimento – un’offerta dal più temuto boss del narcotraffico: il ricchissimo e sanguinario Manitas intende non solo scomparire ma diventare donna, come ha sempre desiderato. Molto ben pagata, Rita lo aiuta in questa trasformazione. Abbandonati all’estero la moglie Jessi (Selena Gomez) e i due figli bambini, Manitas finge la propria morte e diventa Emilia Pérez. Nella doppia parte troviamo la brava attrice transgender Karla Maria Gascón, già attiva in passato n
elle telenovelas messicane (una delle fonti di questo film).
Passano quattro anni. Struggendosi per la mancanza dei figli, Emilia torna in Messico. Sempre con l’aiuto di Rita, fonda con Rita una ONG per ritrovare i corpi dei desaparecidos vittime dei cartelli della droga messicani e restituirli ai parenti; che i cartelli criminali non si intromettano, e che il governo messicano non scopra nulla su questa donna misteriosa, rimane il punto veramente implausibile del film; ma tutto si perdona al film grazie al suo impeto (vedi sopra). In quest’attività benefica Emilia troverà anche l’amore di Epifania (Adriana Paz). Ma per prima cosa, fa ritornare nel paese Jessi e i bambini, spacciandosi per una cugina di Manitas, e li porta ad abitare presso l
a “zia Emilia”.
Com’è naturale questa finisce per essere una prigione dalle sbarre dorate, con la “zia” che non nasconde un atteggiamento da genitore verso i bambini. Il rapporto tragicamente complicato tra Emilia e Jessi, in un perverso gioco di identità, muove la seconda parte, la migliore, del film. Costretta a fingere che la cosa non la riguardi direttamente, Emilia getta lo sguardo sul rapporto di se stesso come marito con Jessi, che aveva un amante e ora lo ha ritrovato. Davanti all’ipotesi che Jessi lo sposi e se ne vada portando con sé i bambini, sotto Emilia Pérez rispunta la ferocia del vecchio Manitas
.
Apertosi sul peccato di Rita, che nel suo mestiere di avvocato ha fatto assolvere un uxoricida, e implicitamente sui tanti peccati del boss Manitas, Emilia Pérez è un problematico film sulla redenzione. Giacché in relazione al film è stato (troppo) citato Almodóvar, non quello asciutto de La stanza accanto ma quello rutilante degli anni passati, vogliamo ripescare un suo titolo singolarmente adatto: La pelle che abito. C’è ancora Manitas dentro la piel que habita; la transizione di genere non basta a a cambiare l’anima, e a cancellare il peccato. Lo capisce, unico fra i personaggi, il chirurgo ebreo Wassermann (Mark Ivanir), voce ammonitrice. L
antico concetto del cambio di identità come passaporto per una nuova vita è reso più radicale dal cambio di sesso ma resta soggetto alla lezione del cinema noir e dei grandi melodrammi d’antan: non si sfugge al passato.
La redenzione verrà, ma per un’altra, aspra strada. Il potente climax del film, più che Almodóvar, fa venire in mente quel grandissimo regista messicano, ancora troppo poco conosciuto in Italia, che è Arturo Ripstein. La processione finale, con la statua di Emilia portata in processione e un inno dolente cantato da Epifania, è un alto momento musicale e melodrammatico che effettivamente fa venire le lacrime agli occhi. Da criminale a santa (o divinità pagana, che è lo stesso), la redenzione avviene attraverso l’ignoranza dei fatti (Epifania come tutti ignora la verità di Emilia e il suo canto parla anche del suo “mistero”) – ma è redenzione. 

domenica 12 gennaio 2025

Maria

 Pablo Larraín

Pablo Larraín è un regista dell’idealismo: nel senso che la mente crea la realtà – da Neruda, sull’universo di Neruda più che sulla biografia del poeta, a Jackie (Kennedy) che nei tristi giorni dopo l’assassinio del marito crea il mito di Camelot, da Tony Manero, ossessionato da John Travolta, a Spencer che tratta col fantasma di Anna Bolena. Tanto più in Maria, ove la Callas nella sua ultima settimana di vita non vede più distinzione alcuna tra la vita vera e le visioni; la realtà quotidiana viene riorganizzata e stravolta dall’irrompere dell’illusione. Con preoccupazione dei fedelissimi camerieri (Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher): “Questa troupe televisiva [che deve venire]… è reale, vero?” E che reale non sia lo capiamo subito quando l’intervistatore quando si presenta: “Mi chiamo Mandrax” (sono le pastiglie di cui Maria abusa). Questa intervista con una visione fa da filo rosso al film.
Maria a Parigi, passeggiando con l’intervistatore fantasma, passa per l’area del Trocadéro, con la Torre Eiffel sullo sfondo, e gli dice “Sono gli altri ad esibirsi”: ecco che tutta la folla casuale e anonima si avvicina, si schiera, si trasforma in un coro d’opera, per intonare il cosiddetto Coro delle incudini del Trovatore. Più tardi, un palazzo davanti al quale Maria rifiuta di cantare si riempie di comparse in rosso della Butterflyche circondano lei in kimono bianco – e poi la visione cessa, torna il vuoto, lei si allontana.
Il film inizia con un’inquadratura incorniciata, che mostra la scena tragica fra i battenti della porta aperti ai due lati, con un lentissimo movimento avanti della mdp; questo non solo allude all’inevitabile elemento voyeuristico del cinema (e specialmente del biopic) ma abilmente dichiara lo stesso film come cinema. Vale lo stesso per i ciak dell’“intervista” che dichiarano i capitoli (nella grana da superotto dei filmini familiari). Così, in Maria Larraín instaura un gioco di specchi a tre: la realtà, l’illusione e la finzione cinematografica.
Ancora una volta Larraín traccia con partecipazione un ritratto di donna che si dibatte nel cuore della crisi. Qui la voce di Maria è in declino, lei si è ritirata, il suo fisico sta per cedere. Con intelligenza e con un dialogo brillante il film ci porta dentro la sua soggettività: il carattere aggressivo verso il mondo esterno e il peso della realtà, il dolore del mondo interiore, con i suoi ricordi e i suoi fantasmi, come un volgare Onassis privo di fascino.
Naturalmente bisogna passare per un primo momento di shock nel sentire la voce della Callas uscire dalle labbra di Angelina Jolie. Questo va oltre il normale processo dei film storici onde “per” Napoleone vediamo Albert Dieudonné o Marlon Brando o Rod Steiger e così via. Quella è una sostituzione mimetica. Questa è una fusione di due corpi, cinema-Frankenstein che all’inizio turba; e così assai giustamente Larraín la fa entrare in modo impositivo nell’inizio in b/n, segnato dalla morte.
La mia vita è l’opera – non c’è ragione nell’opera”. Questa dichiarazione di Maria, che arriva subito prima della parte finale, è la chiave del film. Sul palcoscenico Maria Callas è stata sublime interprete di melodrammi. Ma la sua stessa vita è stata un melodramma; potrebbe assai bene essere trasposta in un libretto d’opera (se sulla contemporaneità John Adams e la librettista Alice Goodman hanno realizzato un bellissimo Nixon in China, perché non immaginare un Maria Callas nei teatri futuri?). Con scelta molto appropriata, Pablo Larraín organizza il suo stesso film in forma di melodramma. E proprio come nell’opera Maria muore cantando.

domenica 5 gennaio 2025

Nosferatu

Robert Eggers

Non si può negare che Robert Eggers abbia del fegato. Fare una terza versione di Nosferatu vuol dire confrontarsi con uno dei massimi geni del cinema, F.W. Murnau (1922), e con un grande quale Werner Herzog (1978). In verità, non li eguaglia; ma realizza un ottimo film in sé – molto atmosferico, stilisticamente raffinato, non privo di suggestioni e citazioni pittoriche, teso e risolto sul piano drammatico, innovativo nell’approccio.
Com’è noto, siamo a Wisborg nella Germania del 1838. L’ambizioso giovane impiegato Thomas Hutter (Nicholas Hoult) viene mandato dal suo equivoco padrone Knock nei Carpazi per trattare l’acquisto di una casa – nella loro città – da parte del conte Orlok (“Nosferatu”, cioè vampiro). La moglie Ellen lo implora di non andare, ricordandogli gli incubi che l’hanno afflitta in passato su un matrimonio con la morte. Se, dopo una criptica apertura, l’inizio appare un po’ “ricostruttivo”, già l’incontro di Hutter con Knock fa serpeggiare una soddisfacente aura di maligna ambiguità sotto i complimenti esagerati e i riferimenti alla Provvidenza – e nota l’intelligente dettaglio murnauiano di quella lettera con segni cabalistici che Knock copre in fretta. L’improvvisa pioggia quando si passa a parlare del conte Orlok certo non sorprende (al cinema la pioggia è sinonimo di sventura) ma fa subito risaltare uno dei punti di forza del film, il bellissimo montaggio di Louise Ford. Nel mentre, consente alla fotografia di Jarin Blaschke un’elegante immagine delle vie cittadine invase da ombrelli neri mentre Thomas bagnato si affretta verso casa.
Quando poi Hutter si trova fra le inospitali balze dei Carpazi, il film prende decisamente in mano il suo argomento. La sceneggiatura di Eggers riprende quella di Henrik Galeen per il Nosferatu di Murnau, ma non manca un ricordo di quello di Herzog, né Eggers dimentica il testo originale di Bram Stoker, Dracula, come rivela l’episodio del colpo di piccone. Il film si compiace di ripescare anche riferimenti folklorici autentici ma raramente visti al cinema, come il rito degli zingari per scoprire la tomba di un vampiro. La stessa caratterizzazione fisica del vampiro, ha detto Eggers in un’intervista, vuole ritornare alla base folklorica; in questo ritorno alle origini rientra anche l’abitudine di Nosferatu di succhiare il sangue dal cuore. Dimenticatevi il gelido e risecchito Max Schreck di Murnau o il disperato e romantico Klaus Kinski di Herzog; qui Bill Skarsgård è un cadavere semidecomposto (la cui enunciazione visiva è reticente, e consegnata solo a poco a poco nel film). Ha senso che l’edificio da lui comprato a Wisborg si chiami Schloss Grünewald: il pittore della miseria del corpo morto. Per inciso, i baffi che hanno sconcertato qualcuno sono storicamente appropriati, tant’è vero che anche Bram Stoker ne fornisce il conte Dracula nel suo romanzo. Ai suoi tratti inquietanti – le mani dalle unghie come artigli e il respiro affannoso – si accompagna una feroce hauteur nobiliare di cui fa esperienza subito l’ingenuo Hutter.
Il viaggio di Hutter verso il castello e la sua permanenza colà si svolgono su un doppio piano, autentico (le beffe degli zingari) eppure onirico; è “sveglio ma in sogno”, gli dice l’anziana donna ammonitrice alla locanda dove fa sosta (e nel suo parlare sentiamo, non trascritta in didascalia, la parola strigoi, altro nome dei vampiri). La bellissima scena dell’apparizione della carrozza fatata di Orlok, il cui sportello si apre da solo, sul fondo di uno spazio in fuga prospettica ricorda da vicino, se non direttamente, per lo spirito, l’opera di Alfred Kubin. Ma anche Ellen nella passeggiata nel cimitero con l’amica Anna dirà che non ci sente realmente presenti. È una perdita, un obnubilamento, uno spossessamento dei sensi che colpisce tutti.
Ecco dunque che l’enunciazione ritardata e “distillata” del mostro non è semplicemente artificio espositivo, come la sua uccisione dei bambini di Anna risolta come ombra non è semplicemente autocensura. Nella concretezza drammatica delle uccisioni e della peste, Nosferatu appartiene al regno delle ombre e dell’inconscio. “Lui è l’infinità”, dice il pazzo complice Knock, “lui è il divoramento”. L’ombra della sua mano – estrema proiezione delle ombre autonome del Nosferatu di Murnau, poi riprese da Dreyer in Vampyr – che si allarga e si stende su Ellen e sulla città non è una metafora. Le scene della peste e dei topi tengono presente Herzog; mentre un’inquadratura del professor von Franz fra le fiamme ricorda fortemente London After Midnight, il perduto film di Lon Chaney ormai divenuto iconico.
A differenza delle altre versioni, qui è messa al centro Ellen (un’ottima Lily-Rose Depp), e il suo rapporto col vampiro produce un radicale cambio di paradigma rispetto ai Nosferatu precedenti. Parla Orlok: “Io sono un appetito, niente di più”. Se si muove fuori dalla sua tomba è perché Ellen anni prima lo ha evocato in passato attraverso la forza del desiderio, il che spiega l’apertura. Ellen (“Lo conosco bene”) cercava tenerezza, e così lo chiamò. In un dialogo con Thomas, dove risalta l’illuminazione dal basso, Ellen dice di portare in Nosferatu la sua vergogna. Orlok le ha parlato di Thomas come uno sciocco e un bambino (ricordiamo per inciso che sciocco e infantile era già lo Hutter di Murnau); e la scrittura magico-diabolica intravista nella lettera a Knock la rivediamo nel contratto che Hutter assai ingenuamente firma sulla fiducia, cedendo in realtà a Orlok la moglie. È interessante che quando il vampiro lo attacca per la prima volta Hutter abbia una visione flashing di Ellen nuda – ciò che precede l’episodio (un po’ residuale) del medaglione con l’immagine.
Non a caso, Orlok parla a Ellen come un innamorato deluso (“Davvero credevi che non sarei tornato?”). Verrebbe da domandarsi, alla Hitchcock, se tutti gli innamoramenti non siano che evocazioni.
Così il rapporto fisico sacrificale alla fine diventa qui esplicitamente sessuale – un rapporto sessuale nel quale la luce rivela più che mai il corpo di Nosferatu. C’è qualcosa di suggestivo in questa doppia funzione della luce del giorno, inedita rispetto al simbolismo espressionista di Murnau e al realismo romantico di Herzog, una luce del giorno rivelatrice sul piano cinematografico e distruttrice sul piano del racconto. Ucciso dalla luce, Nosferatu non si dissolve in polvere nella luce ma muore e lentamente si trasforma in scheletro; la sua postura disteso su Ellen crea un quadro de “La morte e la fanciulla” come un’allegoria di Hans Baldung Grien in chiave romantica e decadente.
Se il Nosferatu di Murnau era un doloroso apologo sull’invincibilità del destino, in quello di Eggers non c’è il destino: ci sono le passioni umane, la loro implacabilità, la loro autopunizione. Il male nasce dentro di noi o viene da fuori?, si chiedono angosciati i personaggi. Come nel suo capolavoro The Witch (la wilderness esterna e la wilderness spirituale), Eggers intercetta la nostra incertezza esistenziale e i nostri oscuri sensi di colpa: il nostro male interiore apre la porta al male esterno. Negli attacchi di possessione di Ellen si ricorda il cinema degli esorcismi e si esprime la realtà del vampiro come potenza interiore.
E ci si può chiedere se attraverso questo concetto del male interiore e del suo insinuarsi nell’anima (non è semplicemente il languore della vittima!) Eggers non finisca per riallacciarsi a quel cinema che sembrerebbe le mille miglia lontano da lui: il cinema di Terence Fisher.