Spero che molti
spettatori vadano a vedere Il primo re di Matteo Rovere; in
primo luogo perché si divertiranno; e poi perché questo film
meriterebbe d'incassare milioni fosse solo per il coraggio che
dimostra. In un paese grezzone che non ama i film in originale
sottotitolato, Il primo re è interamente parlato in latino
arcaico con sottotitoli italiani – che per la storia di Romolo e
Remo cade a fagiolo.
Latino
arcaico, a cura – leggiamo nei credits
– del linguista Luca Alfieri. Quindi, in aggiunta alla pronuncia
corretta con le C e le G dure valida anche per l'epoca classica,
sentiamo terminazioni come ignim
anziché ignem,
divosom anziché
divorum, e contrazioni
come vivust (che si
ritrovano ancora in Plauto).
Nel
quadro di uno svolgimento avventuroso-spettacolare che è la sua
caratteristica base (non siamo davanti all'Alba dell'uomo
di Kubrick!), Il primo re è
un film intelligente e intrigante. Forse è perché viviamo in
un'epoca di tragico declino dell'Occidente, ma nel cinema e nelle
serie televisive (non che distinguere abbia ormai senso) proviamo una
particolare fascinazione per le epoche primitive e barbariche.
Il primo re mette in scena una
comunità più vicina alla preistoria de La guerra del
fuoco che alla civiltà
organizzata di Romolo e Remo
di Sergio Corbucci (1961). Siamo in una protostoria selvaggia –
Alba(longa) è un villaggio di capanne circolari che sembra un
panorama africano – che in verità sembra cadere anche prima dello
stadio arcaico testimoniato dal latino del film. La religiosità
illustrata ne Il primo re è
arcaica anche per il 753 a.C.: gli dei sono entità numinose e
innominate (per questo, detto per inciso, suona strana in un
passaggio l'imprecazione mehercle,
per Ercole). E' un mondo di elementi primari, l'acqua, la terra e il
fango, il fuoco-dio, il sangue. Questa materialità terrestre e
primeva è bene espressa nell'evidenza fisica dei corpi sporchi e
delle ferite aperte, del combattimento nella sua forma più cruda e
brutale, comprendente le dita negli occhi e i morsi in faccia, e in
un senso del soprannaturale che pesa su tutto. La bella fotografia di
Daniele Ciprì rende assai bene questo universo tenebroso e
profondamente magico, dagli sciami di faville ai pollini al fumo e
alla nebbia.
La
temuta foresta dove i fuggitivi guidati da Remo si addentrano è una
foresta da horror, popolata di strani rumori e pericoli invisibili:
di uno sciocco che vi si avventura da solo sarà ritrovato solo mezzo
corpo, appeso a un albero. E anche se il film non è un fantasy, è
molto forte al suo interno la presenza del divino – un divino
primordiale, spietato e incomprensibile – e del presagio. Questo è
un film di forze oscure. La maledizione della vestale con sacrata
verba, parole
maledette, contro chi violerà il suo cerchio di fuoco ha una potenza
che fa correre un brivido per la schiena non solo ai membri di questo
gruppo di fuggiaschi.
La
bella pagina dell'aruspicina leggendo il fegato dell'animale
sacrificato ha un senso di verità arcana che era già perduto in
epoca classica (quando Cicerone celiava dicendo di non comprendere
come mai un aruspice non ridesse quando incontrava un altro
aruspice). Del resto, è ovvio in un film su Romolo e Remo il futuro
“prema” sui suoi protagonisti. “Tremate – questa è Roma” è
la frase che conclude il film. Inevitabilmente, anche nel
razionalistico Romolo e Remo
di Corbucci la predizione trovava il suo ruolo e l'ultima parola era
“Roma”.
E' molto interessante
che nel presente film lo scontro mortale fra Romolo e Remo avvenga,
sì, in seguito alla violazione di un limite sacro, ma che questo
limite non sia il famoso solco tracciato con l'aratro per la
fondazione della città bensì quello che circonda i cadaveri dei
caduti. Così il limite viene ricondotto a una sacralità che precede
quella sociale e civile, ovvero al culto dei morti, e cioè alle
origini stesse della civilizzazione.
Siccome
buona parte del film si svolge con Romolo gravemente ferito e assente
dall'azione, questo lascia spazio a Remo che è il vero protagonista
del film. Attraverso un percorso che nasce dalla disperazione quando
i due fratelli sono resi schiavi – Soli sumus,
“gli dei non si curano di noi” – e culmina nel rifiuto di
uccidere Romolo dopo la profezia che il fratello ucciderà il
fratello, Remo afferma un rifiuto degli dei rivendicando una fiducia
esclusiva nella forza, che diviene via via più feroce. E'
tristemente paradossale che tutto ciò nasca dall'amore fraterno per
svilupparsi come dispotismo. Nella parabola di Remo possiamo leggere
tutta la storia della tirannia come hybris.
In un gruppo di attori
che affronta entusiasticamente una condizione estrema, spicca
Alessandro Borghi, notevole nel ruolo di Remo. Nella parte finale del
film, quando è incerto e schiacciato dal peso dei suoi errori e
delle sue colpe, i suoi occhi febbrili sono davvero quelli di Macbeth. Alessio
Lapice è Romolo. Ma bisogna menzionare anche l'eccellente Tania
Garribba nella parte della sacerdotessa vestale, il cui viso smagrito
e i cui occhi sottolineati dal trucco primitivo e sacrale esprimono
in maniera impressionante la posizione di confine fra l'uomo e il
dio.
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