venerdì 15 febbraio 2019

Il corriere - The Mule

Clint Eastwood


Il grande Clint Eastwood ha 88 anni. Non è detto che Il corriere – The Mule sia il suo ultimo film; anzi, tutti gli auguriamo di restare vivo e attivo fino a 106 anni come Manoel De Oliveira. Tuttavia, per ragioni più ancora di contenuto che anagrafiche, questo potente capolavoro appare veramente come un film-testamento.
Eastwood viene spesso definito l'ultimo dei classici, e a ragione. Ma forse è il caso di ricordare – davanti a questo film che che ne è la concretizzazione – cosa si intende per cinema classico. Vale nel cinema come nelle altre arti narrative la distinzione fra storia e discorso: “storia” è in astratto ciò che viene raccontato nell'opera; “discorso” è il modo in cui esso viene materializzato nel racconto. Ora, il concetto base del cinema classico consiste nel produrre un'impressione per cui il discorso tende a nascondersi rientrando (illusoriamente) nella struttura della storia, quasi che essa si svolgesse autonomamente sotto i nostri occhi, e quindi come se lo schermo fosse una finestra sul mondo in azione. E' questo che produce quell'effetto di “naturalezza” che lo caratterizza.
Eastwood rientra appieno in questo paradigma. Ha sempre mantenuto un atteggiamento concreto e virile, no-nonsense direbbero in America, nei confronti della narrazione; non per nulla lo si può accostare a un grande classico come Howard Hawks. Non che Eastwood abbia mai fatto un'imitazione pedissequa del cinema del passato; giusto l'anno scorso ha realizzato (non è importante in questa sede discutere dei risultati) un piccolo film quasi sperimentale come Ore 15:17 – Attacco al treno. Basta pensare a come Eastwood ha audacemente lavorato sul tempo in Hereafter, J. Edgar, Sully, oltre che nel già citato Attacco al treno, per capire che in lui la classicità non è formale bensì qualcosa di vivo, che si rinnova e si porta avanti nei film.
Al centro del cinema eastwoodiano sta sempre l'uomo nella sua interezza – e questo spiega come mai Clint Eastwood riesca a commuoverci con personaggi sia al di qua sia al di là della barriera della legge. Decisamente al di là è Earl Stone (Eastwood) ne Il corriere, tratto da una storia vera: un fioraio novantenne che diventa di punto in bianco un corriere della droga per i messicani. Chi potrebbe sospettare di un abuelito, nonnetto, come lo chiamano loro? Ci casca anche la controparte di Eastwood nel film, l'agente antidroga ben interpretato da Bradley Cooper. Nella risoluzione, il rapporto fra i due lascia intendere, appena accennato ma lampante, quel tipo di riconoscimento reciproco su cui Michael Mann ha costruito uno dei suoi capolavori, Heat – La sfida.
Di Earl Stone Eastwood dà col suo classico viso gelato una meravigliosa descrizione sfaccettata – quest'uomo misto di irresponsabilità e gentilezza, di generosità e di egoismo, chiuso nel suo passato di rovina familiare che sembra irreparabile, amico fedele dei suoi ex commilitoni, e nel contempo vecchio puttaniere a dispetto della venerabile età.
Qui parliamo sempre di Eastwood ma, si capisce, non dobbiamo dimenticare di accostare al suo nome quello dello sceneggiatore Nick Schenk che come in Gran Torino riesce a porsi come un perfetto interprete della moralità e della personalità eastwoodiana. Non per nulla il protagonista ricorda quello di Gran Torino nel modo in cui rifiuta la camicia di Nesso del politically correct (grande l'incontro con le Dykes on Bikes, un'associazione di lesbiche motocicliste il cui copyright è riconosciuto nei titoli di coda). Ma se Gran Torino aveva ancora nelle sue pieghe un intento di convincere, Il corriere ci sbatte letteralmente in faccia il suo gigantesco personaggio e ci dice, potrebbe essere il motto di tutto il cinema di Eastwood, “Questo è questo”. E' un film di immediata sincerità. Di qui la vivezza imprevedibile dei suoi movimenti. Clint Eastwood che attacca discorso con Bradley Cooper al bar una mattina presto, ed è sì un contatto col nemico ignaro, quasi una sfida, ma diventa un momento di confidenza personale in cui gli consiglia di non rovinarsi il rapporto con la famiglia come ha fatto lui... questa è la realtà concreta della vita.
Ne Il corriere Eastwood fa i conti con l'opposizione centrale del cinema maschile e individualista, opposizione più che mai viva per un hawksiano come lui: quella tra la famiglia e il lavoro. Da un lato il lavoro è fondamentale per l'uomo eastwoodiano e hawksiano, che è, come si dice, il breadwinner, colui che procura alla famiglia il pane quotidiano. Dall'altro il lavoro lo ingloba e lo trascina. Attraverso il lavoro, e il circuito di amicizie connesso, l'uomo eastwoodiano tende a evadere dalla famiglia senza nemmeno accorgersene – a rischio di perderla. Un pericolo bene espresso ad esempio in American Sniper.
Ma c'è di più. Poiché gioca in questo processo un elemento di egoismo fortemente (e verrebbe da dire naturalmente) maschile, l'allontanamento dalla famiglia si trasforma in vera e propria fuga. Proprio questo elemento ne Il corriere è enucleato e messo a nudo in modo commovente. Il che assimila il film a un eccellente Eastwood meno conosciuto di altri, Gunny (che non a caso viene citato qui nel nome di un locale). Così il tema dell'uomo divenuto estraneo alla propria famiglia si intreccia direttamente con un tema assai presente in tutto il cinema di Clint Eastwood che è quello della responsabilità. Nel momento della vecchiaia, l'età in cui uno guarda indietro senza alibi alla propria vita, quanti eroi eastwoodiani – possiamo ricordare anche Million Dollar Baby o Gran Torino – hanno alle spalle famiglie o figli indifferenti e ostili.
Non occorre essere Herr Doktor Freud per accorgersi che nel personaggio di Earl Stone si può leggere in filigrana una proiezione di Eastwood stesso; e non è certo casuale che nella parte della figlia estraniata (una figura già drammaticamente presente in Million Dollar Baby) Eastwood abbia voluto impiegare la proprio figlia nella realtà, Alison Eastwood (detto per inciso, parlando della famiglia di Earl non si può non menzionare anche Dianne Wiest nel ruolo dell'ex moglie, protagonista di una delle scene di morte più autentiche e commoventi viste di recente al cinema).
Grande individualista, Clint Eastwood è anche un grande umanista. Vale per lui la frase classica: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. Un dettaglio minore ma significativo: la sorprendente rivelazione quando proprio il più aggressivo dei “cattivi”, quello che pare il più indifferente all'umanità, il messicano barbuto, è toccato quando scopre che Earl è mancato alla consegna della droga perché è andato al funerale della moglie, e cerca in qualche modo di giustificarlo al telefono col capo del cartello; “su esposa”, dice con un'inflessione di voce significativa.
C'è qualcosa dell'individualismo western nella beata incoscienza con cui Earl accetta il suo lavoro di corriere della droga – incoscienza “scandalosa”, e forse ciò aiuta a capire come mai questo film stupendo sia stato totalmente ignorato agli Oscar. Il progressivo inserimento di Earl nel ben pagato “lavoro” nasce in origine da una situazione difficile: il piccolo coltivatore di fiori è rovinato dalla concorrenza dell'e-commerce (suona familiare?). La compromissione peggiora quando lui decide di salvare il locale dove si radunano da anni i reduci di guerra, a rischio chiusura perché l'assicurazione non paga (suona familiare?). In questo senso Il corriere è anche un film politico, anche al di là di alcune fulminanti notazioni sulla dura condizione dei latinos negli States (come dimenticare l'uomo di aspetto latino fermato dalla polizia, che diventa logorroico per la paura).
Ma non è la storia di un benefattore. E', questa, una storia di denaro (lo stupore quasi infantile di Earl davanti alle buste piene di dollari!); è una storia di attrazioni materiali, alle quali Earl è tutt'altro che indifferente; il compiacimento con cui vengono inquadrati i bellissimi derrière delle signore di piccola virtù nella festa del cartello della droga messicano parla chiaro. E tuttavia Earl Stone, pessimo padre e marito, corriere della droga, bugiardo sperimentato (la scena deliziosa dell'incontro col poliziotto e il cane antidroga!), attraversa il film come una specie di puro.
Non è un allegro immoralismo come ci potremmo aspettare da altri autori, metti Tarantino o Rodriguez, per esempio; perché Il corriere è un film profondamente morale. Non si capirebbe altrimenti il finale, che non è un omaggio ai buoni costumi ma è, appunto, una virile accettazione del concetto di responsabilità, verso la legge e verso tutti. In modo audacemente paradossale, proprio la parabola di Earl nell'illegalità porta con sé una riscoperta della famiglia, e un'autocritica rispetto alla propria assenza, e infine una riappacificazione. Quello che conta per Eastwood è sempre l'amore che ci si lascia dietro.

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