Il
grande Clint Eastwood ha 88 anni. Non è detto che Il
corriere – The Mule sia il suo
ultimo film; anzi, tutti gli auguriamo di restare vivo e attivo fino
a 106 anni come Manoel De Oliveira. Tuttavia, per ragioni più ancora
di contenuto che anagrafiche, questo potente capolavoro appare
veramente come un film-testamento.
Eastwood
viene spesso definito l'ultimo dei classici, e a ragione. Ma forse è
il caso di ricordare – davanti a questo
film che che ne è la concretizzazione – cosa si intende per
cinema classico. Vale nel cinema come nelle altre arti narrative la
distinzione fra storia e discorso: “storia” è in astratto ciò
che viene raccontato nell'opera; “discorso” è il modo in cui
esso viene materializzato nel
racconto. Ora, il concetto base del cinema classico consiste nel
produrre un'impressione per cui il discorso tende a nascondersi
rientrando (illusoriamente) nella struttura della storia, quasi che
essa si svolgesse autonomamente sotto i nostri occhi, e quindi come
se lo schermo fosse una finestra sul mondo in azione. E' questo che
produce quell'effetto di “naturalezza” che lo caratterizza.
Eastwood
rientra appieno in questo paradigma. Ha sempre mantenuto un
atteggiamento concreto e virile, no-nonsense direbbero
in America, nei confronti della narrazione; non per nulla lo si può
accostare a un grande classico come Howard Hawks. Non che Eastwood
abbia mai fatto un'imitazione pedissequa del cinema del passato;
giusto l'anno scorso ha realizzato (non è importante in questa sede
discutere dei risultati) un piccolo film quasi sperimentale come Ore
15:17 – Attacco al treno.
Basta pensare a come Eastwood ha audacemente lavorato sul tempo in
Hereafter, J.
Edgar, Sully,
oltre che nel già citato Attacco al treno,
per capire che in lui la classicità non è formale bensì qualcosa
di vivo, che si rinnova e si porta avanti nei film.
Al
centro del cinema eastwoodiano sta sempre l'uomo nella sua interezza
– e questo spiega come mai Clint Eastwood riesca a commuoverci con
personaggi sia al di qua sia al di là della barriera della legge.
Decisamente al di là è Earl Stone (Eastwood) ne Il
corriere, tratto da una storia
vera: un fioraio novantenne che diventa di punto in bianco un
corriere della droga per i messicani. Chi potrebbe sospettare di un
abuelito, nonnetto,
come lo chiamano loro? Ci casca anche la controparte di Eastwood nel
film, l'agente antidroga ben interpretato da Bradley Cooper. Nella
risoluzione, il rapporto fra i due lascia intendere, appena accennato
ma lampante, quel tipo di riconoscimento reciproco su cui Michael
Mann ha costruito uno dei suoi capolavori, Heat – La
sfida.
Di
Earl Stone Eastwood dà col suo classico viso gelato una meravigliosa
descrizione sfaccettata – quest'uomo misto di irresponsabilità e
gentilezza, di generosità e di egoismo, chiuso nel suo passato di
rovina familiare che sembra irreparabile, amico fedele dei suoi ex
commilitoni, e nel contempo vecchio puttaniere a dispetto della
venerabile età.
Qui
parliamo sempre di Eastwood ma, si capisce, non dobbiamo dimenticare
di accostare al suo nome quello dello sceneggiatore Nick Schenk che
come in Gran Torino
riesce a porsi come un perfetto interprete della moralità e della
personalità eastwoodiana. Non per nulla il protagonista ricorda
quello di Gran Torino
nel modo in cui rifiuta la camicia di Nesso del politically
correct (grande l'incontro con
le Dykes on Bikes, un'associazione di lesbiche motocicliste il cui
copyright è riconosciuto nei titoli di coda). Ma se Gran
Torino aveva ancora nelle sue
pieghe un intento di convincere, Il corriere
ci sbatte letteralmente in faccia il suo gigantesco personaggio e ci
dice, potrebbe essere il motto di tutto il cinema di Eastwood,
“Questo è questo”. E' un film di immediata sincerità. Di qui la
vivezza imprevedibile dei suoi movimenti. Clint Eastwood che attacca
discorso con Bradley Cooper al bar una mattina presto, ed è sì un
contatto col nemico ignaro, quasi una sfida, ma diventa un momento di
confidenza personale in cui gli consiglia di non rovinarsi il
rapporto con la famiglia come ha fatto lui... questa è la realtà
concreta della vita.
Ne
Il corriere Eastwood
fa i conti con l'opposizione centrale del cinema maschile e
individualista, opposizione più che mai viva per un hawksiano
come lui: quella tra la famiglia e il lavoro. Da un lato il lavoro è
fondamentale per l'uomo eastwoodiano e hawksiano, che è, come si
dice, il breadwinner, colui che procura alla famiglia il pane
quotidiano. Dall'altro il lavoro lo ingloba e lo trascina. Attraverso
il lavoro, e il circuito di amicizie connesso, l'uomo eastwoodiano
tende a evadere dalla famiglia senza nemmeno accorgersene –
a rischio di perderla. Un pericolo bene espresso ad esempio in
American Sniper.
Ma
c'è di più. Poiché gioca in questo processo un elemento di egoismo
fortemente (e verrebbe da dire naturalmente)
maschile, l'allontanamento dalla famiglia si trasforma in vera
e propria fuga. Proprio questo elemento ne Il corriere è
enucleato e messo a nudo in modo commovente. Il che assimila il film
a un eccellente Eastwood meno conosciuto di altri, Gunny (che
non a caso viene citato qui nel nome di un locale). Così il tema
dell'uomo divenuto estraneo alla propria famiglia si intreccia
direttamente con un tema assai presente in tutto il cinema di Clint
Eastwood che è quello della responsabilità. Nel momento della
vecchiaia, l'età in cui uno guarda indietro senza alibi alla propria
vita, quanti eroi eastwoodiani – possiamo ricordare anche Million
Dollar Baby o Gran
Torino – hanno alle spalle famiglie o figli indifferenti e
ostili.
Non
occorre essere Herr Doktor Freud per accorgersi che nel personaggio
di Earl Stone si può leggere in filigrana una proiezione di Eastwood
stesso; e non è certo casuale che nella parte della figlia
estraniata (una figura già drammaticamente presente in Million
Dollar Baby) Eastwood abbia voluto impiegare la proprio figlia
nella realtà, Alison Eastwood (detto per inciso, parlando della
famiglia di Earl non si può non menzionare anche Dianne Wiest nel
ruolo dell'ex moglie, protagonista di una delle scene di morte più
autentiche e commoventi viste di recente al cinema).
Grande
individualista, Clint Eastwood è anche un grande umanista. Vale per
lui la frase classica: “Homo sum, humani nihil a me alienum
puto”. Un dettaglio minore ma significativo: la sorprendente
rivelazione quando proprio il più aggressivo dei “cattivi”,
quello che pare il più indifferente all'umanità, il messicano
barbuto, è toccato quando scopre che Earl è mancato alla consegna
della droga perché è andato al funerale della moglie, e cerca in
qualche modo di giustificarlo al telefono col capo del cartello; “su
esposa”, dice con un'inflessione di voce significativa.
C'è
qualcosa dell'individualismo western nella beata incoscienza con cui
Earl accetta il suo lavoro di corriere della droga – incoscienza
“scandalosa”, e forse ciò aiuta a capire come mai questo film
stupendo sia stato totalmente ignorato agli Oscar. Il progressivo
inserimento di Earl nel ben pagato “lavoro” nasce in origine da
una situazione difficile: il piccolo coltivatore di fiori è rovinato
dalla concorrenza dell'e-commerce (suona familiare?). La
compromissione peggiora quando lui decide di salvare il locale dove
si radunano da anni i reduci di guerra, a rischio chiusura perché
l'assicurazione non paga (suona familiare?). In questo senso Il
corriere è anche un film politico, anche al di là di alcune
fulminanti notazioni sulla dura condizione dei latinos negli
States (come dimenticare l'uomo di aspetto latino fermato dalla
polizia, che diventa logorroico per la paura).
Ma
non è la storia di un benefattore. E', questa, una storia di denaro
(lo stupore quasi infantile di Earl davanti alle buste piene di
dollari!); è una storia di attrazioni materiali, alle quali Earl è
tutt'altro che indifferente; il compiacimento con cui vengono
inquadrati i bellissimi derrière delle signore di piccola
virtù nella festa del cartello della droga messicano parla chiaro. E
tuttavia Earl Stone, pessimo padre e marito, corriere della droga,
bugiardo sperimentato (la scena deliziosa dell'incontro col
poliziotto e il cane antidroga!), attraversa il film come una specie
di puro.
Non
è un allegro immoralismo come ci potremmo aspettare da altri autori,
metti Tarantino o Rodriguez, per esempio; perché Il corriere
è un film profondamente morale. Non si capirebbe altrimenti il
finale, che non è un omaggio ai buoni costumi ma è, appunto, una
virile accettazione del concetto di responsabilità, verso la legge e
verso tutti. In modo audacemente paradossale, proprio la parabola di
Earl nell'illegalità porta con sé una riscoperta della famiglia, e
un'autocritica rispetto alla propria assenza, e infine una
riappacificazione. Quello che conta per Eastwood è sempre l'amore
che ci si lascia dietro.
Nessun commento:
Posta un commento