Oggi
visto come il primo di una trilogia che Fruit Chan ha dedicato
all'handover (il
passaggio di Hong Kong alla Cina nel 1997), quello stesso anno Made
in Hong Kong esplose come un
grido nella notte. Nel ventennale, molto meritoriamente il Far East
Film Festival lo ha restaurato in 4K (affidandosi sul piano tecnico a
L'Immagine Ritrovata), e si può dire che l'ha letteralmente salvato.
Il film è stato girato con un budget ridicolo, utilizzando pellicola
scaduta; una caratteristica del restauro è stata proprio di
mantenere tali caratteristiche come la non corrispondenza dei colori:
ovvero, è stata preoccupazione di Fruit Chan che il restauro non
creasse qualcosa di troppo “pulito” ma mantenesse “la grana
delle immagini e il loro carattere grezzo” (intervista sul catalogo
del FEFF 2017).
Questo
film, che si apre con una carrellata su una rete che riempie lo
schermo, fonde la freschezza di sguardo della nouvelle
vague con un forte senso della
morte che lo rende tragico – e che metaforicamente si lega allo
stesso handover, la
fine di un mondo. “Odio tutto quello che è Cina”, dice il
protagonista Moon. Ma in che senso parlare di nouvelle
vague? Innanzitutto, si capisce,
la New Wave hongkonghese,
legata a grandi nomi come Patrick Tam, Ann Hui, Wong Kar-wai, Tsui
Hark, che rivoluzionò il cinema di Hong Kong negli anni Ottanta. Ma
in questo caso è altrettanto valido il riferimento alla nouvelle
vague originaria, quella
francese fra i Cinquanta e i Sessanta. Made in Hong Kong
è un film che Truffaut o Godard si sarebbero sentiti onorati di
firmare; il loro dato di base, la loro cifra
– la freschezza del racconto che deriva dalla freschezza dello
sguardo – vi trionfa.
Narrata
in prima persona in voce over, è la storia di Autumn Moon,
giovanissimo aspirante “duro” del quartiere (una grande
interpretazione di Sam Lee), e dei suoi due amici: Ping, la ragazza
di cui è innamorato, condannata a morte da una malattia, e il
ritardato Sylvester (che sanguina dal naso quando Ping mostra le
gambe e le mutandine). La loro storia si incrocia con quella della giovane suicida
Susan Hui, che si butta dal tetto di un palazzo (potente
l'inquadratura di lei sul tetto, presa con un filtro azzurro, con
l'evidenza inutile di
una croce sul lato sinistro del quadro). Accanto al corpo Sylvester
trova delle lettere macchiate di sangue. Mentre lo spettro/ricordo di
Susan perseguita Moon causandogli una serie di wet dreams,
i giovani decidono di restituirle ai destinatari: uno spregevole
fidanzato-dongiovanni e i genitori di lei.
Tutto questo si svolge
all'interno di una serie di linee narrative in maniera fluida,
spezzata, ritornante; Fruit Chan mantiene un'estrema libertà del
flusso narrativo qui come in tutto il suo cinema.
Nel descrivere come
questo giovane perdente pieno di illusioni cerca di farsi strada come
gangster, Chan riprende parodisticamente l'ambiente e i luoghi comuni
del cinema delle triadi – con una libertà che fa sembrare
accademici tutti gli altri film hongkonghesi sul tema. Made in
Hong Kong ha una maniera fulminante di incrociare la leggerezza e
la tragedia. Mentre scorre nel film un tocco di comedy tenera
e buffa sulla sessualità, col tono burbero e impacciato dei
giovanissimi, sono esilaranti le scene di Moon che fa il duro, come
quando difende la madre di Ping (lei non è impressionata) da un
usuraio con le classiche bottigliate in testa, o discute con Ping sulla donazione di un rene, o medica Sylvester picchiato dai bulli usando un assorbente
come cerotto.
Come
già detto, si stende sui protagonisti l'ombra della morte. La voce
narrante e filosoficheggiante di Moon è – come in Viale
del tramonto – la voce di un
morto, ciò che viene rivelato verso la fine del film (“Due giorni
dopo fu ritrovato il mio cadavere”). Ed è un destino di morte
anche quello dei suoi amici, rispecchiando peraltro quello di Susan,
la ragazza suicida. Non per nulla quel vero e proprio topos
del cinema giovanile e di tutte le nouvelles vagues
del mondo che è la corsa dei protagonisti (forever
young!) si svolge in un vasto
cimitero – dove poi loro chiamano a gran voce “Susan Hui!” in
piedi sulla tomba di lei. In questa stessa scena, Ping parla
tristemente della sua prossima morte; all'affermazione di Moon che
invece lei starà bene risponde
l'inquadratura, in una luce scura, di un albero scheletrico contro le
montagne nebbiose.
Forever
young, certo; come dice Moon nel
corso di un monologo interiore sull'ingiustizia della vita, “Moriamo
giovani – rimarremo sempre giovani”. Ma la madre di Ping dice,
sì, “Aveva 16 anni. Ora che è morta rimarrà giovane per
sempre”. Poi
però Moon colpisce il televisore e lo butta giù dall'alto del
palazzo.
Quello
che caratterizza tutti i personaggi è la mancanza di speranze che
non siano illusorie e vane. C'è una tenerezza calda e patetica nel
modo dei più giovani di atteggiarsi a streetwise,
navigati; l'atteggiamento di Moon e Ping, quel loro voler essere
adulti fra disperazione e ingenuità, è contraddetto dall'orizzonte
chiuso, l'assenza di speranze che struttura drammaticamente il film
(metaforizzata nella pesantezza claustrofobica del suo monumentale
blocco di appartamenti popolari) – e che rispecchia il sentimento
di non poter decidere la propria esistenza degli hongkonghesi di
fronte alla realtà calata dall'alto dell'handover.
E' un dato centrale del film che i personaggi vivono con le loro
madri: l'assenza e l'abbandono dei padri è una costante, con la
disperazione rabbiosa che ne deriva. A un certo punto Moon va a
cercare il proprio padre, pieno di cattive intenzioni, con un
chopper, la mannaia da
cucina; nei cessi di un locale vede la scena brutale di un altro
padre, un incestuoso, a cui il figlio taglia le braccia; mentre se ne
va, riflette in un grande monologo interiore sugli adulti “vigliacchi
e irresponsabili” che scappano quando c'è bisogno di loro. Anche
questo può essere ricostruito come metafora politica. Il senso di
abbandono giovanile si fonde col senso di abbandono di Hong Kong
prima dell'handover.
Nel
superbo, funebre finale su un montage
di inquadrature... “Siamo tutti felici ora”, dice la voce
narrante del morto Moon su immagini del cimitero... entra un discorso
di Mao citato alla radio, parodisticamente retorico e ottimistico, sul
potere della gioventù – e viene contraddetto con aspro sarcasmo
dall'inquadratura di un aquilone impigliato tra i rami di un albero
secco. Fine.