Giacché le annate cinematografiche (o altro) non seguono la logica delle celebrazioni, nel 2008 - quando il Far East Film Festival di Udine festeggiava il suo decennale - abbiamo, sì, avuto una buona edizione, ma quest’anno ne abbiamo avuta una ottima. Vorrei fare qui un breve giro dei film visti (mi spiace di avere perso, causa viaggio, l’apertura con “Ong Bak 2” e “Crazy Racer”).
Partiamo dal cinema giapponese, che si direbbe abbia recuperato in pieno la sua vecchia posizione di “number one” del cinema orientale. Va da sé che l’avvenimento per antonomasia del festival era il vincitore a sorpresa dell’Oscar per il miglior film straniero: “Departures” di Takita Yojiro - il quale ha aggiunto all’ottantina di premi già vinti nel mondo il premio del pubblico del Far East Film, nonché il Black Dragon Award conferito dagli abbonati sostenitori. Il tipo di umorismo di questo splendido film non è lo humour noir, come ci si potrebbe aspettare dall’argomento (un violoncellista disoccupato diventa, inizialmente controvoglia, un nokanshi: colui che veste e trucca i cadaveri per la sepoltura), ma proviene da uno sguardo gentile sull’esistenza - ed è questo che permette al film di fondere in maniera così fluida i suoi temi, come la riflessione sulla morte (vista in relazione ai viventi: la perdita) e il mélo familiare legato all’abbandono del padre. Peraltro, il grande film giapponese della rassegna, il capolavoro assoluto di tutto il festival, lungo quattro ore (ma passano in un attimo!) è “Love Exposure” di Sono Sion. Film che può essere definito solo monumentale, che nella sua varietà prismatica di argomenti mira a una rappresentazione complessiva della totalità, che ha per base la declinazione in tutte le sue accezioni del concetto di amore; l’amore non è semplicemente il motore della peripezia bensì la materia ideale che si incarna nei diversi “modi di essere” dei personaggi, che quindi vengono ad essere altrettante materializzazioni del concetto nel concreto; tutto questo con una maestria narrativa, una pregnanza linguistica, e last but not least un umorismo per cui “Love Exposure” entra fra quelle esperienze cinematografiche che restano nel profondo.
Un terzo film giapponese assai rilevante è “Fish Story” di Nakamura Yoshihiro, regista che ha firmato un paio di piacevoli thriller medici ma ha mostrato quello che sa fare veramente con questa piccola gemma, la cui narrazione va avanti e indietro nel tempo (dall’epoca del punk fino alla presunta fine del mondo nel 2012), combinando diverse storie apparentemente slegate con un gioco di artificio che ricorda le Macchine Impossibili del dimenticato cartoonist Gustave Veerbeck (il quale, per coincidenza, era nato a Nagasaki e cresciuto in Giappone).
Ma abbiamo avuto anche momenti di puro, delizioso grande spettacolo con “K-20: Legend of the Mask” di Sato Shimako, adrenalinica avventura di un super-ladro che agisce in un Giappone dalla storia alternativa (il film è prodotto dallo stesso studio di “Always – Sunset on Third Street”, e si vede), e ancor più con il mitico “Yattaman” del maestro Miike Takashi, tratto da uno dei cartoni animati più divertenti della storia degli anime, e in tutto degno dell’originale. Miike impiega la computer graphics e i trucchi vari (per esempio il maialino - un regular del cartoon - qui appare come congegno meccanico) non per trasformare in fumetto il visuale fotografico ma al contrario per cercare di dare una corposità, una concretezza apparentemente fotografica, al fumettistico. Ovvero si situa nella scia della geniale intuizione di Joe Dante nel suo episodio di “Ai confini della realtà”. Unico difetto di “Yattaman”: il cartoon era ricco di maliziosi barbagli di nudità di Lady Dronjo (al pari della Principessa Lunedì della serie gemella “Yattodetaman”, ovvero “Calendar Men”); certo non si poteva pretendere di ritrovarli in un film dal vero, ma l’autocensura di Miike è veramente eccessiva, come mostra la scena in cui Lady Doronjo (Fukada Kyoko) esce dalla vasca da bagno. Evidentemente il colera del femminismo politically correct ha attecchito anche in Giappone.
“Climber’s High” di Harada Masato applica lo stesso meccanismo cronachistico che così ben funzionava nel suo “Spellbound” (1999) alla redazione di un giornale di provincia sotto lo sforzo di “coprire” un disastro aereo; stavolta però il risultato è meno convincente, anche per colpa di una narrazione overlong che insiste inutilmente su una storia laterale con la laboriosa metafora della scalata alpinistica. Molto più piacevole “Lalapipo - A Lot of People” di Miyano Masayuki, che parla di sesso in tutte le sue varianti, con storie interlineate di personaggi spiritosamente delineati - e si capisce che già da soli provvedono il divertimento: l’uomo col pene parlante di peluche che sembra uscito da un porno-Muppet Show, il supereroe giapponese dal fallo meccanico eretto Capitan Bonita, la pornostar tutta ciccia e pizzi Miss Fat Girl; ma Miyano mette qualcosa di umano e vitale dietro a queste vignette (fra cui la più toccante è la “ninfomane” ultraquarantenne ottimamente interpretata da Hamada Mari), oltre a un convincente gusto metanarrativo.
E’ invece una delusione “Instant Swamp”, di quel Miki Satoshi che dopo il delirante “Deathfix” del 2007 è andato calando: già “Adrift in Tokyo” era degno di nota ma meno bello; e quest’ultimo film si potrebbe definire il “vorrei ma non posso” di “Love Exposure”, nel senso che Miki aspira alla stessa dimensione totale e complessiva di Sono, ma siamo ben lontani, non dico da quel capolavoro ma neanche da un film ben strutturato. Almeno la modesta commedia “The Handsome Suit” di Hanabusa Tetsomu sa strappare ogni tanto qualche indulgente risata.
Dal Giappone passiamo alla Cina continentale. Non poteva stupire che il grandissimo Tsui Hark facesse di nuovo centro - stavolta applicando il suo stile cinematografico “ventiduesimo secolo” non all’action ma a quel genere di commedia d’amore che va di moda a Pechino quest’anno; parlo della geniale sarabanda di “All About Women” (non è piaciuta a molti critici? Tanto peggio per i critici). E’ stata invece una lietissima sorpresa trovare con “If You Are the One”, una commedia dello stesso genere, il film più maturo di Feng Xiaogang a tutt’oggi, superiore anche al suo miglior film precedente, “A World Without Thieves”. E’ un’opera scintillante che inizia in modo farsesco e si sviluppa come una sorta di viaggio iniziatico nei territori dell’amore (sotto la forma esteriore di un viaggio a Hokkaido - si vede proprio che l’aria giapponese fa bene!). Due magnifici attori ben noti al pubblico del Far East Film, Ge You e Shu Qi, battibeccano lungo il film in stile sophisticated comedy classica, e fanno pensare a un James Stewart e una Katharine Hepburn che lungo la strada si trasforma in Audrey. Detto per inciso, molto sono le bellezze asiatiche che hanno illuminato lo schermo del Teatro Nuovo di Udine in undici anni, ma Shu Qi è la più bella di tutte.
Un film non sgradevole ma non memorabile, tutto corretto e tutto già visto, è “The Story of a Closestool” di Xu Buming: la costruzione di un gabinetto privato nei primi anni ’80 è l’occasione per illustrare l’incrocio fra i residui maoisti e i nuovi desideri. Spiace dire che è piuttosto deludente la seconda prova di Cao Baoping, “The Equation of Love and Death”, un po’ troppo consapevole, molto parlato, dal ritmo a volte ansimante; però la sua partecipazione a Udine ha offerto l’occasione per presentare anche il suo film di debutto del 2006, l’eccezionale “Trouble Makers”, che il festival aveva cercato invano di selezionare (sarebbe stato il film di apertura!) due anni fa. Storia di una rivolta organizzata da un bizzarro segretario locale di partito contro gli strapotenti e ben ammanicati fratelli Xiong, che dominano il paese, è un film d’una radicalità e un’audacia politica che sembrerebbero impensabili nel contesto cinese (infatti ha avuto i suoi guai con la censura); film denso, affollato, isterico, dalla violenza narrativa “tarantiniana” (penso al brutale stacco, verso l’inizio del film, su un rapporto sessuale) che fa sembrare vecchio d’un colpo tutto il cinema cinese visto prima.
Ancora dolenti note da Hong Kong, come mostrano il manieristico “The Beast Stalker” di Dante Lam e il pomposo “Ip Man” di Wilson Yip (belli però i suoi combattimenti coreografati da Sammo Hung). Era una grande cinematografia ma ora tocca cercare il buono nelle nicchie. L’intelligente episodio conclusivo della serie tv “Tactical Unit” (spin-off di “PTU” di Johnnie To), “Comrades in Arms”, girato per le sale cinematografiche, rompe con le sue ambientazioni urbane e porta i suoi poliziotti in un imprevisto spazio selvaggio collinare, che diventa teatro sia del totale smarrimento fuori dal contesto umano (c’è perfino un poliziotto che crede che il luogo sia stregato) sia di una serie di incontri e scontri bizzarri e surreali. Grande, come al solito, Lam Suet, anche se il suo personaggio ormai è solo nominalmente quello di “PTU”.
“The Forbidden Legend: Sex & Chopsticks” è un inatteso ritorno alla tradizione pornosoft hongkonghese, pieno di belle attrici (giapponesi) che si spogliano generosamente. Il suo riferimento alla letteratura classica cinese è tanto fondato quanto lo era il riferimento alla letteratura classica italiana nei nostri "decamerotici”, ma chi se ne importa? Se pensiamo alla povertà e alla ridicolaggine di tanti film erotici europei, come di recente l’orrido “Valérie - Diario di una ninfomane”, possiamo solo inchinarci di fronte ai chopsticks di Hong Kong.
Quel combattente indistruttibile di Herman Yau non è propriamente un maestro, e il suo stile non cambia mai: un’impostazione naturalistica e un linguaggio filmico piuttosto elementare, volutamente quasi televisivo. Tuttavia con “True Women for Sale” Yau firma uno dei suoi film migliori. C’è un bel po’ di umorismo, un buon senso del ritmo (anche se il film si perde un po’ nel mezzo) e una capacità di trasmettere in pieno l’umanità dei personaggi. Ma a tener alta la bandiera hongkonghese è soprattutto la veterana Ann Hui. La rassegna della sua televisione degli anni ’70 (una vera scoperta, proprio come quella della tv di allora di Patrick Tam al Far East Film 2008) si riflette nel recentissimo film “The Way We Are”. Splendido e commovente, mette in scena un semplice quadro di vita vissuta con un minimalismo narrativo che concentra l’attenzione sulla dimensione immediata dei gesti, e attraverso questo arriva a una concentrazione emotiva folgorante. Uno dei pochi film che riesca a trasmettere interamente la sensazione del fluire della vita, e della dimensione del passato che sfocia quietamente nel presente, senza bisogno di una peripezia drammaturgica. Non che non vi sia una drammaticità sottesa, ma è quella dell’esistenza (“La vita è difficile”, dice un personaggio en passant). La regia di Ann Hui è attentissima, e splendide le interpretazioni delle due anziane protagoniste. Nella sua diretta semplicità, puro realismo quotidiano, è nondimeno un film emozionante.
Anche la Corea non è proprio quella fucina cinematografica travolgente che era qualche anno fa, però sa ancora sfornare ottimi film. Nel dramma storico “A Frozen Flower” di Yoo Ha un re omosessuale, dovendo concepire un figlio per ragioni dinastiche, mette nel letto della regina il proprio amante, il giovane capo delle guardie. I due si innamorano e nasce un triangolo dagli esiti tragici. Inizialmente il film può apparire un po’ leccato, se lo paragoniamo all’eleganza dolorosa e al realismo sadico di “Shadows in the Palace” di Kim Mi-jeong, visto l’anno scorso. Però quando l’intrigo si sviluppa, con la gelosia del sovrano che prende il sopravvento, la storia assume una sfumatura shakespeariana, e imprime al film una determinazione spietata; allora qui l’eleganza visuale entra adeguatamente in gioco come contrappunto visivo alla tragicità dello svolgimento. Una scena particolarmente toccante in questo senso è la canzone galante cantata dal re durante una festa - subito dopo la scena dell’incontro clandestino degli amanti - che rappresenta una raffinata quanto indiretta mise en abyme della vicenda.
Abbiamo inoltre visto commedie di ottimo ritmo e stile quali il gasatissimo “The Accidental Gangster” di Yeo Kyun-dong, il semplice e ben oliato “Scandal Makers” di Kang Hyeong-chul, il laborioso ma intelligente “Crush and Blush” di Lee Kyoung-mi; ciascuna delle tre dovrebbe essere dichiarata materia obbligatoria di studio per i giovani cineasti italiani. Nonché il raffinato “Rough Cut”, firmato da Jang Hun, un allievo (ma non prosecutore come stile) di Kim Ki-duk, che ha anche fornito l’idea base del film con il complicato rapporto fra un attore di film gangsteristici e un gangster autentico che vorrebbe fare l’attore. Il rispecchiamento metacinematografico tra gangster movies e malavita reale non è una novità, men che mai nel cinema coreano (ricordiamo l’eccellente “A Dirty Carnival” di Yoo Ha, visto a Udine nel 2007), ma qui è messo in scena in modo estremamente convincente, con una bellissima definizione dei personaggi.
Meno convincente, ma assai divertente "The Good, The Bad, The Weird" di Kim Jee-won (un regista che ha fatto di meglio): un esercizio di gradevole manierismo, che non ha rimandi metaforici, non ha intenti allegorici, in realtà non riflette neppure sul linguaggio di Sergio Leone né mette in scena nostalgicamente dei topoi, alla Spielberg: di tutto questo c'è solo il simulacro. Conviene solo sedersi e lasciarsi prendere dal puro piacere visivo e cinetico di questo "western manciuriano". I tre interpreti (Song Kang-ho, Lee Byung-hun, Jung Woo-sung) sono deliziosi, ed è grazie a loro che questo gioco fragilissimo regge, perché vi portano una corposità che impianta il manierismo su basi solide. Sicché quando alla fine del film viene finalmente messo in scena quel "triello" alla Leone verso il quale il film precipita fin dalla prima inquadratura, è proprio il grumo di concretezza dei personaggi (citazionistico anch'esso, certo, ma rifornito di spirito dagli interpreti) a fornire l'interesse. E' grazie ai tre attori che il film evita di congelarsi in una graziosa sterilità.
Singapore era presente al festival con “Rule#1”, piacevole horror (mild horror, a essere precisi) diretto da Kelvin Tong, che mostra un’abilità di confezione anche se effettivamente non è memorabile. Ma non trascuriamo la Thailandia. L’hanno rappresentata un paio di horror, non bellissimi (ho però perso “Rahtree Reborn”, del disuguale ma interessante Yuthlert Sippapak). “4BIA” è un film a episodi di cui il primo (di Yongyoot Thongkongtoon) è piuttosto buono e l’ultimo (di Parkpoom Wongtoon) è buono senz’altro, e potrebbe ricordare per argomento e atmosfera “Il Vij” di Gogol’; ma i due di mezzo sono disastrosi. “Coming Soon” di Sophom Sakdaphisit è un ennesimo “meta horror film”. Nel 2008 il festival aveva presentato un’opera che affrontava il tema con molta finezza, “The Screen at Kamchanod” di Songsak Mongkolthong; “Coming Soon” lo affronta in modo alquanto facile e prevedibile; del resto, quando si fa un film su un film stregato, bisognerebbe almeno procurare che il film-nel-film non risulti più interessante di quello che lo contiene. Un horror di livello medio-basso, caratterizzato in primo luogo da una recitazione desolante dei due protagonisti.
La graziosa commedia “Best of Times” del bravo Yongyoot Thongkongtoon affronta con sentimentalismo non eccessivo e senso di partecipazione umana il difficile argomento dell’amore senile. Su un piano più frivolo, va detto che il suo cane color crema dalle sopracciglia nere (dipinte) resterà fra le icone thailandesi nel ricordo degli spettatori. Soprattutto conta però l’ondata di action Muay Thai cui il festival ha dedicato una sezione apposita, e che rappresentano effettivamente una nuova frontiera del genere. Una produzione particolarmente elaborata è il bellissimo “Chocolate” di Prachya Pinkaew. Il discorso, che apre il film, sul gusto estetico di un personaggio giapponese per l’imperfezione serve ad anticipare quella “figura dell’imperfezione” che è la protagonista handicappata (Jeeja Yanin) - che non ha alcun legame con la figura del combattente con handicap del kung fu classico, anzi, in pratica è l’esatto opposto; e realizza un personaggio memorabile, certo il più intenso e rimarchevole nel panorama della recente action thailandese. Da notare che il suo stile composito di combattimento ricorda da vicino quello di Jackie Chan, con l’uso opportunistico degli oggetti e dei vuoti. Un film pieno di fascino (grande lo scontro finale!), non privo di un elemento mélo che lo impreziosisce.
Operina più naïve ma indubbiamente godibile, il semplicissimo “Somtum” di Nontakorn Taweesuk incrocia la vicenda di un sempliciotto occidentale, che diventa una specie di Bud Spencer impazzito quando assaggia il piccantissimo somtum, con quella di un paio di ragazzine combattenti, rappresentanti di un preciso sottogenere dell’action Muay Thai. Da dimenticare invece “Fireball” di Thanakorn Pongsuwan, su una specie di basket/gioco-al-massacro. Lo rovina un montaggio troppo frazionato, che non solo tarpa l’efficacia degli scontri ma è tanto più imperdonabile in un film di argomento sportivo, dove è presupposta una visione aperta e totale.
Infine, il Far East Film 2009 ha segnato l’arrivo in forze dei film indonesiani. “Chants of Lotus” è un film collettivo (quattro episodi di Fatimah T. Rony, Upi, Nia Dinata e Lasja F. Susatyo), indubbiamente coraggioso, visto che affronta in modo diretto tematiche come il sesso, lo stupro, la droga, la prostituzione e l’AIDS, e in generale il maschilismo diffuso in questo paese musulmano. Allo stesso modo, il difetto sta nell’impostazione didattica che determina il suo realismo. Le interpretazioni femminili sono tutte convincenti (quelle maschili sono quasi tutte di bruti ghignanti, ragazzini deficienti o viscidoni che lavorano per la tratta delle donne). Quando, negli episodi, la sceneggiatrice Vivian Idris cede il posto alla più brava Melissa Karim si nota un miglioramento; in effetti l’episodio migliore è quello di Nia Dinata, per valori registici e vivacità narrativa, ma si fa ricordare anche quello finale di Lasja F. Susatyo, grazie alla bella interpretazione di Susan Bachtiar.
Però il nome che si è imposto nella selezione indonesiana è quello di Joko Anwar. Si tratta di un eccellente sceneggiatore (ha scritto il pregevole “Arisan!” di Nia Dinata nel 2003), che quest’anno ha messo a segno a Udine una bella accoppiata, con un film da lui diretto - il notevole horror “The Forbidden Door”, che intreccia abilmente influenze da Lynch, Cronenberg, Kubrick per arrivare a una ridefinizione della realtà vista, come in “Allucinazione perversa” di Adrian Lyne - e uno da lui sceneggiato, “Fiksi.” (aka “Fiction.”) di Mouly Surya, che è il migliore della selezione indonesiana al festival. Il modo in cui la protagonista Ladya Cheryl si rivela a poco a poco - passando da ragazza ribelle vittima della famiglia a psicopatica - è ammirevole, e l’elemento intellettuale del rapporto tra vita e fiction trova alcune ottime applicazioni. Lo stile del film è elegante (da menzionare i bellissimi giochi di scambio fra musica diegetica ed extradiegetica), e soprattutto colpisce la fotografia, spettacolosa per giustezza e intelligenza delle inquadrature: il suo autore Yunus Pasolang è un nome da seguire.
Così, se qualche nazione attraversa un periodo di stanca ce n’è sempre un’altra che brilla. Cinematograficamente, sul Far East splende sempre il sole.
mercoledì 13 maggio 2009
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