giovedì 31 ottobre 2024

Parthenope

Paolo Sorrentino

Parthenope, la protagonista del film di Paolo Sorrentino... Parthenope che ha lo stesso nome della sirena suicida il cui corpo fu trovato là dove sorge la città di Napoli... Parthenope, dicevo, all'inizio del film viene partorita nell'acqua. Questo è l'elemento che contraddistingue il film di Sorrentino: Parthenope è un film d'acqua. Dell'acqua ha la fluidità, l'irriducibilità a una forma, nella quale si allarga, e così la nega.
Parthenope segue la vita di Parthenope (Celeste Dalla Porta), misteriosa e bellissima come la Gioconda, tanto sguardo irraggiungibile quanto oggetto dello sguardo amoroso (il film ha un momento bellissimo sulle ragazze che camminano, decise, sorridenti, solari, e gli occhi degli uomini le accarezzano). C'è una sorta di castità di Sorrentino, per il quale il sesso si identifica con lo sguardo, in modo quasi mistico. Basta ricordare i nudi meravigliosi di Madalina Ghenea in Youth o di Luisa Ranieri in È stata la mano di Dio (un film che per molti versi assomiglia a questo). La bellezza di Parthenope si diffonde nell'aria come il fumo delle sigarette, che sono molto presenti in questo film; e Sorrentino è uno dei pochi registi (ecco che mi torna in mente lo splendido cameo di Shu Qi in Just One Look di Riley Ip) a riconoscere e trasmettere la bellezza di una giovane donna che fuma.
A parte una parentesi in cui medita di fare l'attrice (nel che, peraltro, sempre lo sguardo e gli occhi sono chiamati in causa!), la sua scelta di vita è l'antropologia, sotto l'ala del caustico professor Marotta (Silvio Orlando), che emerge come vero padre putativo – mentre altre figure del film, come il padre vero, sono troppo umbratili per lasciare traccia. La domanda che come un tormentone attraversa il film, “che cos'è l'antropologia?”, trova alfine per bocca del professore la perfetta definizione: l'antropologia è vedere. Precisamente questo è lo sguardo di Parthenope: uno sguardo che vede e ci fa vedere: onde Parthenope diventa attraverso i suoi occhi un grande ritratto della città di Napoli. Nella sua bellezza solare (ancora l'acqua) e nel suo ventre – il grottesco sorrentiniano, che traspare nel matrimonio camorrista consumato sotto gli occhi di tutti ed esplode nell'episodio del “mostrino”.
La letterarietà dei dialoghi, molto sorrentiniana, è generalmente ben costruita e ben gestita (ora dirò una bestemmia: bizzarramente, il solo a uscirne con un'aria trombonesca è il personaggio di Gary Oldman). Vediamo la storia di Parthenope nel corso del tempo – l'uomo davanti al tempo è un caposaldo del cinema di Sorrentino – e Celeste Dalla Porta è bravissima nel fondare e trasmettere le sfaccettature della vita che scorre, non semplicemente come mimica del volto, ma nel senso esistenziale che si riflette nel corpo intero. Questo adottare la forma biografica, per cui gli avvenimenti, come per una locomotiva in corsa, balzano incontro “da soli”, dà a Sorrentino la possibilità di svincolarsi da una costruzione drammaturgica.
Beninteso, ha diritto Sorrentino, come ha rivendicato, di non nutrire un eccessivo interesse per la trama, in senso appunto drammaturgico; abbiamo diritto noi spettatori di giudicare il risultato. Il costo dell'operazione è che il film appare episodico, perfino un po' slegato. Parthenope è fatto di pezzi assai alti, fra i migliori del cinema di Sorrentino, frammisti a momenti (specie nella prima parte) che lasciano una sensazione di incertezza sul piano artistico. Ciò non toglie che il film, per quanto faticoso nell'articolazione del racconto, componga un grande affresco pieno di fascino sulla città di Napoli. Il suo impatto emotivo è indubitabile.
Menziono solo il capitolo che a mio parere è il vertice del film: l'incontro di Parthenope, antropologa che studia il miracolo di San Gennaro, con l'arcivescovo Tesorone (Peppe Lanzetta). Capitolo perfetto ed enigmatico (altro che il forzato The Young Pope!), culminante nella soluzione geniale per cui il sangue di San Gennaro – che non aveva voluto sciogliersi nella cattedrale affollata e isterica – si scioglie in segreto al momento nell'orgasmo nel rapporto a due nella cattedrale deserta.
La melancholia sorrentiniana, che ben conosciamo, attraversa il film, dove al fondo resta la consapevolezza amara del carattere transeunte della gioventù e dell'amore. Interpretati da tre eccellenti giovani attori, i tre personaggi giovani – Parthenope, il fratello Raimondo (Daniele Rienzo) e il primo fidanzato Sandrino (Dario Aita) – partono tutti per l'esilio; e l'esilio è sempre stato un filo rosso del cinema di Sorrentino, incrociandosi – senza contraddizione – con un altro, quello della persona che si è costruita intorno una barriera, in un “tempo bloccato”. Forse questo primo tema è diventato, col tempo, prevalente rispetto al secondo? Ma forse neanche tanto, se pensiamo alla grigia predizione che Parthenope fa a Sandrino quando questi le rivela la sua decisione di partire per andare al Nord (un'osservazione molto interessante fatta dell'attore in sede di presentazione del film: a Napoli sarebbe sempre rimasto un diminutivo). Per Raimondo, invece, è l'amarezza dell'amore. La scena “bertolucciana” dell'abbraccio a tre a Capri fissa il personaggio come in un bassorilievo. È innamorato della sorella? È innamorato di Sandrino? È troppo sensibile in assoluto? Comunque, non diversamente dalla sirena, muore suicida; sceglie l'esilio più totale e definitivo (unde negant redire quemquam). Poi, all'improvviso, senza spiegazioni, la stessa Parthenope – che è andata a insegnare antropologia a Trento dov'è previsto che resti un paio d'anni per poi vincere la cattedra a Napoli – rimane a Trento fino alla pensione. Senza spiegazioni: il suo “Mi sono innamorata dello speck” ha la stessa potenza enigmatica e ironica del “Sono andato a letto presto” di Proust/Medioli/Leone (C'era una volta in America). Ma quando ritorna a Napoli a 73 anni, col volto di Stefania Sandrelli, al confronto imprevisto con l'allegra chiassosità dei tifosi napoletani, sorride.

lunedì 28 ottobre 2024

The Dead Don't Hurt - I morti non soffrono

Viggo Mortensen

Qual è il tema fondamentale del western? La giustizia, materializzata nella pistola appesa al fianco (cioè la possibilità di uccidere istantaneamente), che o crea il torto o afferma il diritto. Non c’è giustizia invece nel buon western The Dead Don’t Hurt – I morti non soffrono, che Viggo Mortensen ha scritto, diretto, musicato, nonché interpretato con Vicky Krieps. Olsen e Vivienne si trasferiscono nel Nevada per lavorare onestamente. Ma in paese spadroneggia il potente Jeffries e suo figlio Weston (Solly McLeod), uno psicopatico che da lui protetto, terrorizza tutti. Quando Olsen si arruola nella guerra di secessione, Weston prende a perseguitare Vivienne… Inutile svelare il seguito, anche se il racconto è anacronico, va avanti e indietro, e parte – non senza potenza – dalla morte di lei.
Lo hanno già scritto tutti: questo è un western “al femminile” (non un'assoluta novità come pure è stato detto), centrato sulla figura di Vivienne. Interessante la sua definizione a partire da un'infanzia nel Québec modellata dalle storie su Giovanna d'Arco (però sono una pessima idea le inquadrature immaginarie del cavaliere medievale nel bosco, girate in modo realistico). Tutti i western implicano due modelli narrativi, diciamo l'Eneide e le Georgiche, quello guerriero (il viaggio, la vendetta, la conquista) e quello quotidiano e agreste (la colonizzazione) – di cui il secondo è generalmente subordinato al primo. Vale anche per il presente film; ma alcuni dettagli rendono in modo assai efficace l'aspetto quotidiano, come gli alberi trapiantati e i fiori attorno alla capanna. E la cura del bambino naturalmente. Con una buona messa in scena, interpretazioni convinte, e una bella fotografia di Marcel Zyskin, il pessimistico The Dead Don’t Hurt si inserisce dignitosamente fra i western “revisionisti”. Il modello non è Clint Eastwood come qualcuno ha detto ma I cancelli del cielo di Michael Cimino (anche se ovviamente il film non si avvicina a quel capolavoro).
Sul piano della verosimiglianza psicologica ci sarebbe molto da dire, prima su Vivienne che – con motivazioni “femministe” assai novecentesche – cerca lavoro al saloon e poi su Olsen che follemente la lascia sola per andar soldato, il tutto in un film dove Solly McLeod praticamente va in giro con una scritta al neon sopra la testa che dice “Sono la carogna potentissima del paese”. Era psicologicamente più fondato un altro simil-western con un villain psicopatico, uscito l'anno scorso, La terra promessa di Nikolaj Arcel, con Mads Mikkelsen.
La seconda parte, interlineata alla prima sul piano narrativo, segue Olsen e il bambino in viaggio dopo la morte di Vivienne. Resta nella memoria, in questa parte, una bella scena in cui padre e figlio bivaccando sentono ululare un lupo e per gioco si mettono a ululare insieme.
La giustizia, come dicevamo, non sta di casa in questo film dove spadroneggiano il boss spietato, il sindaco corrotto e l'assassino in libertà. John Wayne avrebbe fatto piazza pulita e avrebbe vinto; Clint Eastwood avrebbe fatto piazza pulita e si sarebbe fatto ammazzare; comunque tutti i malvagi avrebbero morso ila polvere. Invece Olsen, lungo il film, rappresenta la figura dell'“uomo che se ne va” (e meno male che Weston lo segue per ammazzarlo, altrimenti se la sarebbe cavata pure lui).
È chiaro che in un western questo lascia l’amaro in bocca… ma saremo gli ultimi a dire che non sia realistico.

domenica 6 ottobre 2024

Vittoria

Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman

Il cinema di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman (Butterfly, Californie) cammina su una lama di coltello, si basa sul discrimine impalpabile fra documentario e fiction; i personaggi ripropongono nel racconto se stessi e la loro vita. Vittoria, parlato in napoletano con sottotitoli italiani, ritorna a Torre Annunziata; ora Jasmine, già apparsa in Californie, è sulla quarantina, sposata con tre figli, di cui uno già grande. Lei ha un sogno ricorrente: il padre morto (la storia tocca lateralmente l’ILVA e l'amianto) le consegna una bambina; e una figlia femmina è il suo desiderio di sempre. Jasmine, che ha avuto tre parti cesarei, non vuole un’altra gravidanza; decide di adottare una bambina in Bielorussia. Questo causa un litigio immediato e poi un tiramolla di frizioni col marito Rino. In alcuni momenti sembra che Jasmine si comprenda meglio col figlio maggiore Vincenzo; ma il rapporto è forte con l’intera famiglia (“Voi siete la vita mia”).
Marilena “Jasmine” Amato “recita” se stessa come gli altri, ripercorrendo – liberamente ispirato”, dice una didascalia – il racconto vero della sua adozione nel 2016; e i suoi primissimi piani ricevono un'indubitabile potenza dalla particolare natura del film. Jasmine è incrollabile («‘na capa tosta» come suo padre, sentiamo nel film). I problemi familiari, la macchina burocratica, i costi spropositati necessari per adottare, niente la ferma. Il montaggio di Alessandro Cassigoli è legato ai sentimenti, tanto elegante quanto significativo.
Una bella ellissi, non l’unica del film, ci porta alfine da Torre Annunziata in Bielorussia, dove Jasmine e Rino incontrano la piccola Vittoria; ed è una splendida scena dove l'enunciazione visiva della bambina è ritardata (prima un dettaglio, il braccio, poi la piccola è tenuta fuori fuoco) fino al “Le posso andare vicino?” di Jasmine. Ma i problemi non sono finiti. Vittoria, che non reagisce nel primo incontro, ha un disturbo cognitivo, non si sa quanto grave. La crisi, anche personale di Jasmine, raggiunge il suo apice in una tesa sequenza in cui la bambina dovrebbe disegnare un cerchio (è un test per capire la gravità del disturbo) e non vuole. La scandiscono in modo drammatico le frasi in bielorusso non tradotte (fra cui si capisce davaj, “avanti!”). E questo dramma è risolto, imprevedibilmente, dal marito, con un autentico coup de théâtre, però radicato nella realtà, che realizza un alto momento commovente. Nella scena seguente coi palloncini per la prima volta vediamo la bambina ridere. La serie di foto con didascalie che appare alla fine (ove, naturalmente, la bambina è un’altra: quella vera)
ci conferma che il titolo Vittoria ha un doppio significato.