Jason Reitman
Avviso: la maledizione
di Gozer colpirà chiunque legga questa recensione senza prima aver
visto il film. E' piena di spoiler.
Un
sequel, specie di un film capitale come Ghostbusters,
deve camminare su un ponte molto stretto, come quello del Paradiso
nelle leggende islamiche. Da un lato deve evitare di allontanarsi
eccessivamente dall'originale, perché altrimenti salta l'investitura
emotiva; dall'altro deve evitare di sembrare una fotocopia.
Ghostbusters: Legacy,
diretto da Jason Reitman con il padre Ivan come produttore, è
blandamente divertente nella prima parte, opportunamente emozionante
nella seconda e adeguatamente commovente nel finale, che raggiunge
infine il tono celebrativo dovuto. Nondimeno, riesce a sbagliare sia
nel primo sia nel secondo dei registri sopra accennati. Non
spiacevole in sé, tuttavia non è esaltante; non privo di simpatia,
è lontano dal mordente dell'originale.
Il
fatto è che il primo, e classico, Ghostbusters era
una meravigliosa commedia horror – ed era in primo luogo una
commedia di cialtroni, che aveva qualcosa di flastaffiano. Il nerd
occhialuto, l'entusiasta infantile, l'egocentrico con una marcata
tendenza all'imbroglio, più il neo-assunto, si trovano ad affrontare
il paranormale più inquietante e salvano New York e il mondo. Il
film è un percorso di crescita, dove i buffi difetti personali si
assommano e si sublimano nell'azione eroica – ed eroicamente
sboccata. “Mostrate alla troia preistorica come si lavora
all'assessorato!” (il testo originale è meno flamboyant,
ha “prehistoric bitch”, ma quella battuta di Bill Murray resterà
per sempre nei nostri cuori). Ora, nella prima parte di
Ghostbusters: Legacy c'è
poca comedy, e niente
cialtroneria. I giovanissimi protagonisti sono molto simpatici – in
particolare Phoebe (Mckenna Grace, ottima) e Podcast (Logan Kim) –
ma totalmente cute. La
commedia di rapporti fra gli adulti Carrie e Gary è molto moderata.
Il massimo di cattiveria è il rancore di Carrie verso il padre
morto. L'idea che Gary – insegnante alla scuola estiva – si
limiti a far vedere ai bambini vecchie videocassette di Cujo
e Chucky potrebbe
dargli una sfacciataggine alla Bill Murray, ma non viene sfruttata. E
i due personaggi più spiritosi, Phoebe e Podcast, si fermano sempre
un attimo prima della cattiveria. In questo senso, Ghostbusters:
Legacy è un film staliniano:
nel cinema di Stalin non era prevista la contraddizione all'interno
del campo dei buoni.
Il
riferimento generale è alle atmosfere dei tardi '70 e degli '80,
nutrito con tutta una serie di riferimenti – anche la montagna che
è il fulcro delle forze occulte fa pensare subito, benché con segno
rovesciato, a Incontri ravvicinati del terzo tipo.
Il modello che i realizzatori
hanno in mente è con tutta evidenza Stranger Things,
da cui peraltro proviene Finn Wolfhard (Trevor), ma molto
ingentilito. Naturalmente non ci si poteva aspettare che un film che
sposta l'età dei protagonisti all'adolescenza sposasse l'adorabile
sfrontatezza dell'originale, ma certo poteva fare un po' di più
(pensiamo a I Goonies
o magari a Monster Squad).
In realtà l'impressione è che il nuovo Ghostbusters
nasca in un mondo peggiore di quello dell'ipotetico dominio di Gozer: il
mondo del politically correct.
Nota in margine: questo
crea una spaccatura fra i fantasmi comici (qui il mangiatore di
metallo) e le vere forze maligne: due manifestazioni che nel film
originale riuscivamo benissimo a stare insieme e qui paiono andare
ciascuna per conto suo.
Anche
il ritmo appare un po' troppo disteso, non è incalzante;
probabilmente, una serie di piccoli terremoti come segni premonitori
dell'apocalisse non valgono granché. Nella seconda parte del film,
il gioco si ribalta e siamo in puro Ghostbusters classico
(cosa interessante, è in questa parte che lo humour di Phoebe ha il
suo momento migliore, quando si mette a raccontare terribili
barzellette alla feroce dea Gozer seduta in trono). Ma qui il film
sbanda dall'altra parte: decide di risolversi in un totale remake del
Ghostbusters originale.
In salsa campagnola (Oklahoma) invece che newyorkese, abbiamo la
materializzazione della dea Gozer, il Mastro di Chiavi e il Guardia
di Porta, i cani demoniaci, eccetera eccetera (c'è pure la ripresa
con tenue gag di inversione della famosa domanda: “Sei tu un
dio?”). Così, anche se questa seconda parte si vede volentieri e
comprende dei bei momenti (come l'arrivo della dea Gozer attraverso
il campo di mais – che peraltro è puro Stranger Things),
invece del nuovo Ghostbusters stiamo
rivedendo il primo. Anche l'incontro fra i “nuovi” Mastro di
Chiavi e Guardia di Porta (Gary e Carrie) è ben realizzato ma gli
manca quel carattere licenzioso propiziato dalla caratterizzazione di
frustrato sessuale dello sfigato Rick Moranis nel primo film.
Poi c'è l'aspetto
rituale e celebrativo – e quello funziona. L'apparizione dei tre
Ghostbusters originari (Bill Murray, Dan Aykroyd, Ernie Hudson) cui
si aggiunge il fantasma di Harold Ramis provoca uno sbocco di
commozione e basta; non per nulla a Ivan Reitman è piaciuta molto; e
alla fine la saldatura fra la vecchia e la nuovissima generazione è
perfetta. Vediamo cosa salterà fuori al prossimo film.
Osservazione
personale: a costo di far incavolare i fans, che non lo amano, chi
scrive preferisce lo scanzonato Ghostbusters
al femminile diretto da Paul Feig alcuni anni fa.
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