Miike Takashi
Nel Giappone del 1844, dodici samurai, cui si aggiunge un fuorilegge, sono incaricati di uccidere il giovane signore feudale Naritsugu, un depravato sadico, che la giustizia non può punire perché fratellastro dello shogun: ma i suoi stupri e omicidi rischiano di incrinare la stessa pace civile garantita dallo shogunato. Siccome il giovane nobile si circonda di centinaia di armati, eliminarlo è un'impresa suicida – ma “chi tiene alla propria vita muore della morte di un cane”, dice il capo del gruppo, Shinzaemon (la citazione differirà dal testo italiano: ho visto il film in versione originale sottotitolata). Questa sentenza sembra presa dall'“Hagakure”, il Libro del Samurai di Tsunetomo Yamamoto (che dice anche: “L'uomo calcolatore è un codardo”). Le vite di questi guerrieri non sono importanti: sono state affidate al leader del gruppo perché possano essere spese. Quello del samurai - insiste l'“Hagakure” - è un essere-per-la-morte.
Remake di un jidai-geki di Kudo Eichii del 1963, “13 assassini” di Miike Takashi non conquista solo per la forza epica e drammatica, per la dimensione “miikiana” della violenza, per l'estremismo e l'intensità; conquista in primo luogo per i momenti di devastante bellezza che lascia cadere nella narrazione: in scene prolungate come il seppuku (harakiri) iniziale, dove alla severità quasi astratta dell'inquadratura nuda e centrata viene poi a opporsi il realismo violento del viso contratto del nobile suicida; oppure in lampi casuali, ad esempio quando le truppe di Naritsugu entrano nel villaggio che i tredici hanno trasformato in una trappola. Il loro comandante, il samurai Hanbei, avventurandosi in esplorazione ha visto gente normale e normale quotidianità, come un bambino nudo che fa pipì per strada; rassicurato, guida dentro la colonna. Ed ecco che di tra le case vede quegli stessi abitanti fuggire nella campagna - e d'un tratto comprende...
La bellezza può anche essere insopportabilmente crudele. Troviamo una delle grandi immagini barocche, contorte, eccessive di Miike nella scena in cui viene esibita a Shinzaemon, nuda e piangente, la ragazza che Naritsugu ha mutilato della lingua, delle braccia e dei piedi. E' di quelle che non si possono dimenticare l'inquadratura dall'alto, dolorosa ma gelida, che esibisce il corpo nudo e contorto e svela alla vista le sue mutilazioni. “Non esiste pietà?”, mormora il samurai.
Un barocchismo outré è tipico del cinema di Miike. Durante il combattimento un uomo avvolto dalle fiamme corre verso il suo nemico: vediamo solo una grande fiamma inquadrata da dietro; quando questa fiamma si divide cadendo ai due lati dello schermo capiamo che il samurai l'ha spaccato in due con un colpo di spada. Potenza delle immagini! Siccome molto cinema vive solo di raffinatezza fotografica, si tende a volte per reazione a svalutare l'aspetto visuale – ma il cinema è visione; le immagini di Miike si imprimono plasticamente nella mente come in Ejzenštejn.
Nella prima parte “13 assassini” è un film fatto di ombra: il semibuio delle riunioni e dei conciliaboli, l'uso quasi antinaturalistico del colore nella scena disperata fra il giovane Shinrokuro e sua moglie Tsuya. Poi si passa al plein air pulito, ma segnato dal destino, della marcia verso lo scontro, e all'umida claustrofobia soffocante della foresta. Infine esplode l'iperrealismo punteggiato di fiamme, surreale e delirante, dell'interminabile battaglia finale.
Contrariamente a quello che avrebbe fatto chiunque, Miike in questo scontro finale mette in scena prima l'eccesso inventivo (la gigantesca barriera di rami che si chiude scorrendo lateralmente come una porta, le mucche in fiamme che attaccano i soldati, il crollo della casa che esplode) e poi lo scontro fisico a livello del terreno. In questa semplice inversione si esalta la purezza del chanbara: il film esiste per arrivare alla battaglia, la battaglia esiste per arrivare allo scontro alla spada. Al centro del chanbara giapponese sta la bellezza letale del colpo di katana veloce come la folgore.
E' evidente la parentela col classico di Kurosawa “I sette samurai”, tanto da spingere a dire che “13 assassini” ne è un remake ideale. Vale per più di un aspetto, ma soprattutto per l'importanza del concetto dell'outcast, l'uomo non integrato; nei “Sette” esso trovava incarnazione nel personaggio del falso samurai interpretato da Toshiro Mifune, nei “Tredici” riverbera in quello di Kiga, il fuorilegge mangiatore di insetti. Anche il suo grido “Ma importano solo i samurai a questo mondo?” è puro Kurasawa! Kiga poi è doppiamente outcast (non appartiene alla classe dei guerrieri ed è anche stato espulso dalla sua stessa banda). Peraltro in “13 assassini” lo sono tutti: nel film ritorna ossessivamente il tema dei samurai che si sentono inutili, vuoti, in quest'epoca di pace.
Vivo in Kurosawa, il tema dell'uomo isolato, estraneo, senza radici, è centrale nel cinema variato e coerente di Miike; al pari di altre tematiche presenti nel film, quali il legame di gruppo e la ricerca della meta irraggiungibile che è l'armonia (qui, la pace nel paese - di cui è una sorta di caricatura il dominio dello shogunato. Il film si chiude con una didascalia che annuncia la sua caduta).
Miike non è uno psicologo, è un cantastorie. I suoi personaggi si stagliano entro un vortice di violenza che li trascende – lo stesso odioso Naritsugu, chi può indovinare quali oscure pulsioni lo muovono? Noi vediamo solo le malvagità che commette, ed è giusto, perché è per quelle che deve morire. Al massimo i personaggi svelano qualcosa di sé, come a teatro, in dignitosi squarci di discorso. Miike li esalta tutti, i personaggi, in termini di pura bellezza filmica. Basta pensare allo stupendo breve carrello laterale sul colloquio fra Hanbei e Shinzaemon a casa di quest'ultimo, inquadrati in un campo lungo elegantemente bilanciato. O al montaggio serrato, tipico del maestro, che ripresenta i personaggi mentre il viaggio e il film si dirigono lungo una strada obbligata verso la conclusione nel sangue che tingerà di rosso la terra e l'acqua.
Al realismo crudele dell'immagine risponde il realismo morale della narrazione. Non c'è spazio qui per le nobili regole del bushido. Anzi, la prima lezione di Shinzaemon ai suoi compagni in allenamento è di dimenticare le regole: “In battaglia non c'è né codice del samurai né gioco pulito”. Il film insiste più d'una volta sulla differenza fra il dojo, dove ci si allena. e la guerra, dove ci si ammazza; non per nulla nel duello finale Shinzaemon sconfigge il suo nemico con un colpo basso.
“Non esiste pietà?”, chiede Shinzaemon dopo aver visto la ragazza mutilata; e la risposta è no, ovviamente: non c'è pietà. Il foglio macchiato di sangue che la ragazza ha scritto con il pennello in bocca, in risposta alla domanda sul destino della sua famiglia, dice “Massacro totale”. Quello stesso foglio Shinzaemon lo mostra ai nemici come cartello di annuncio all'inizio della battaglia: “Massacro totale”. Il vero cuore del cinema è la morte del nemico. Il cinema è giustizia.
mercoledì 6 luglio 2011
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