domenica 22 novembre 2009

Il nastro bianco

Michael Haneke

“Ein' feste Burg ist unser Gott” (“Una salda fortezza è il nostro Dio”) cantano le voci bianche dei bambini in chiesa, nello splendido “Il nastro bianco” di Michael Haneke. E' il più famoso e celebrato degli inni di Lutero. Ma in questo villaggio tedesco alla vigilia della prima guerra mondiale Dio non è più una fortezza per nessuno. Per ciascuno nel villaggio, ne sia consapevole o no, non c'è altro che la sua realtà di duro lavoro e rassegnata sconfitta.
Sconfitto è il pastore locale, che cerca di colmare il grande vuoto con uno zelo cupo, e una severità spietata nei confronti dei figli. Sconfitto il possidente locale, il barone, che vede incrinarsi il suo residuo di mondo feudale allo stesso modo del suo matrimonio. Sconfitto il medico, vedovo e amante clandestino della levatrice, dedito a pratiche incestuose nei riguardi della propria figlia, odiatore di se stesso e della propria misera amante - come rivela inaspettatamente un dialogo di evidente derivazione bergmaniana (come testo, non come linguaggio cinematografico). Sconfitti i contadini, la cui primitiva lotta di classe incrocia antiche forme di resistenza feudale, codificate nei proverbi, con un ribellismo senza prospettiva. La voce narrante di un vecchio (che era allora il maestro del paese) ci guida nel racconto molti anni dopo - pertanto avvertendoci all'inizio di poter essere un narratore inattendibile (il fatto che la voce entri sul “nero” prima delle immagini è significante: valica il golfo del tempo e della memoria).
Il nastro bianco (simbolo della purezza che si impone di perseguire), che viene legato al braccio di Martin e ai capelli di Klara dal pastore loro padre dopo una mancanza, si rispecchia nei lacci che legano le mani di Martin di notte a letto per impedirgli di masturbarsi. Ma il concetto di legami, lacci, corde, attraversa tutto il film. La corda tesa fra due alberi che quasi ammazza il dottore e uccide il suo cavallo. Le funi che trascinano via il cavallo morto in una grande inquadratura notturna. Il laccio cui si impicca il contadino. I legami dei due bambini rapiti. E' come una grande metafora delle vite del paese, tutte “legate”, determinate, costrette allo stesso modo in un “dover essere” senza speranza di cambiamento, nello scorrere quieto delle stagioni (reso dalla fotografia, di algida e netta bellezza, di Christian Berger). Tutto ciò si concretizza nell'atteggiamento rigido e composto delle ragazzine, coi loro abiti lunghi, le mani in grembo mentre camminano, i capelli legati dietro la nuca. Le vediamo coi capelli sciolti solo nel momento dell'inconfessabile: quello dei toccamenti incestuosi del medico sulla figlia (che lei al fratellino venuto in lacrime a cercarla traduce con un'evidentissima trasposizione, “Mi ha forato i lobi delle orecchie”); quello di Klara coi capelli scomposti e l'espressione da forsennata prima di uccidere il pappagallino del pastore, che poi lascia sulla scrivania in forma di crocefisso.
C'è una tetra tensione in questo piccolo mondo (tutti gli oggetti agricoli che compaiono nel film sembrano ictu oculi pericolosi), un'atmosfera dolorosa e malvagia onnipresente (una “malignità dell'ambiente”, dice la baronessa); anche la pagina della passeggiata in campagna del maestro e della sua timida fidanzata Eva su un calesse in prestito non arriva ad essere uno squarcio di felicità in una natura che riflette l'amore, come vediamo in Dreyer (“Praesidenten”, “Die Gezeichneten”, e naturalmente “Dies Irae”). Il macro-montaggio del film non è solo elegante ma ha un intento discorsivo: negli attacchi di montaggio (l'ottima montatrice è Monika Willi) si celano “risposte” piene di sarcasmo implicito. Vedi il raccordo fra il “sì” in lacrime confessato da Martin al padre che inquisisce se si masturba e il sesso grugnente, in piedi, del medico con l'amante; il collegamento fra l'urlo feroce del medico alla levatrice, “Buon Dio, ma perché non muori?”, e (un “falso raccordo” in piena regola) il funerale del suicida; il raccordo fra lo svenimento di Klara mentre, in castigo di spalle, ascolta il feroce rimprovero del pastore e l'immagine del bambino del medico che cerca la sorella mentre risuonano i gemiti del rapporto sessuale.
Qualcosa si spezza in questo mondo pietrificato: frammista a disgrazie accidentali e atti di ribellione contadina, accade una serie di fatti incomprensibili e crudeli: una corda tesa come trappola fra due alberi, una finestra aperta per far morire un infante, il bambino del barone rapito e picchiato, il figlio handicappato della levatrice rapito e torturato. Il mite maestro del paese è l'unico a intuire la verità: ci sono i bambini del paese dietro a quest'ondata maligna. La loro educata “normalità” è spaventosa; le loro azioni sono oscure. Questi bambini dal viso serio sono i più inquietanti apparsi sullo schermo fin dai tempi lontani de “I villaggio dei dannati” di Wolf Rilla. La loro è liberazione degli istinti aggressivi (vedi l'episodio, di intollerabile tensione, del figlio del barone col flauto), ribellione contro la comunità, odio per il diverso (la tortura del bambino handicappato), gusto della distruzione. Anticipano il “Tempo dei lupi” di un altro titolo di Haneke; e la loro azione, richiamata alla memoria tanti anni dopo, pare una cupa premonizione non solo della guerra ma del nazismo a venire (l'eugenetica nazista traspare in filigrana nell'episodio dell'handicappato). Le loro testoline bionde accostate quando siedono disciplinatamente sui divani troppo stretti, i loro giovani volti ariani, tutto ci parla dell'universo völkisch che darà al nazismo la sua carne.

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