martedì 8 luglio 2025

Jurassic World - La rinascita

Gareth Edwards

Inutile fare gli snob: Jurassic World – La rinascita è divertente, com’è naturale per un film di personaggi in viaggio in un territorio pieno di mostri intenzionati a mangiarli: un film di fughe, irruzioni e inseguimenti; basta che sia realizzato con un po’ di professionalità. Qui, il regista Gareth Edwards non è il primo arrivato; al suo fianco c’è Steven Spielberg come produttore esecutivo (però lo è stato anche nell’inguardabile Jurassic World – Il dominio di Colin Trevorrow, 2022); e il film è ben servito dall’abile montaggio di Jabez Olssen. Alla sceneggiatura ritorna David Koepp. Dopo il tentativo fallimentare di inserire i dinosauri nel mondo contemporaneo, si ritorna al concetto dell’isola selvaggia (con i classici echi de Il mondo perduto e King Kong).
Questo, a costo di rovistare il più possibile nei cassetti dell’immaginario “giurassico”; per esempio rifacendo ex novo, con una bestiaccia differente, la famosa scena spielberghiana del velociraptor nelle cucine con i ragazzi nascosti dietro i mobili. C’è nel presente film una capacità molto alla Spielberg di far apparire i dinosauri a sorpresa: ora emergono dalla nebbia, ora si intrufolano non visti sul fondo; in una delle scene migliori, vediamo un personaggio arrampicarsi freneticamente sulla parete mentre il quetzalcoatlus (uno pterosauro volante in confronto al quale lo pterodattilo sembra il canarino Titti) cerca di beccarlo; stacco al ciglio del burrone, dove lo aspettano i suoi amici, e vediamo emergere da sotto il quetzalcoatlus con l’uomo nel becco come un passero con un verme.
Divertimento immediato a parte, Jurassic World – La rinascita ha aspetti positivi e negativi. La cosa di gran lunga più interessante è il suo aspetto apertamente metanarrativo (ossia, di una narrazione che rimanda a se stessa). Il film si svolge in un mondo in cui: a) i dinosauri stanno morendo (tranne quelli nella zona equatoriale dove si recano illegalmente i protagonisti); b) comunque lo spettacolo dei dinosauri non interessa più a nessuno. Una volta c’era la fila, adesso vendiamo dodici biglietti in una settimana, dice a un dipresso il curatore del museo. Il punto a) ha un valore metaforico, il punto b) è un’invenzione diegetica, entrambi ci parlano dell’esaurimento della serie Jurassic. Dopo la sorpresa epocale del film di Spielberg del 1993, e dopo i primi sequel, il concetto aveva cominciato a mostrare la corda (non per niente il titolo del presente film è uno speranzoso Jurassic World Rebirth).
Un grave demerito di Jurassic World – La rinascita è la prevedibilità delle caratterizzazioni (per inciso, è lo stesso difetto che si ritrova quest’anno in F1 – Il film di Joseph Kosinski). Jurassic World – La rinascita si basa su un doppio gruppo protagonista. Il primo è un team che si reca clandestinamente nell’isola per estrarre il DNA di tre generi di dinosauri vivi (manco a dirlo, i più pericolosi) allo scopo di fabbricare un prodotto farmaceutico contro l’infarto – la solita Big Pharma, per intenderci. È un gruppo di characters prevedibili ai limiti dell’autoparodia: la bella mercenaria tough as nails (peraltro nel ruolo Scarlett Johansson è brava), lo studioso supercompetente ma impacciato che si rivela eroico, il capitano nero scafato, la carogna a prima vista che lavora per la ditta farmaceutica, più due tre personaggi che servono fondamentalmente come carne da dinosauro.
Nota in margine: perché questa prevedibilità non ci disturba, e anzi ci piace, nei film avventurosi di serie B in bianco e nero o nel lussuoso Technicolor degli anni Cinquanta – mentre ci dà un certo fastidio oggi? Ma perché il cinema d’oggi, per così dire, ha mangiato il frutto del bene e del male. Con la morte dei B movies ha rinunciato alla sua ingenuità.
Il secondo gruppo, che incrocia la strada del primo, è una famiglia di naufraghi (padre, due figlie e fidanzato della figlia maggiore), che serve a poco più che a scappare, piangere, correre e volersi bene, provvedendo una storia secondaria in montaggio parallelo con la prima. Andrebbe studiata nelle scuole di sceneggiatura, come esempio negativo, l’incredibile caratterizzazione iniziale del fidanzatino stronzetto, che poi tira fuori la sua umanità. È un tocco di sceneggiatura di una goffaggine imperdonabile, al punto che facciamo il tifo per i dinosauri che vogliono mangiarselo. Parimenti è imperdonabile l’orrida trovata disneyana del dinosaurino cute che si affeziona alla figlia minore. Questo secondo gruppo viene precipitato nella trama praticamente senza giustificazione: cosa ci fanno questi quattro sprovveduti californiani con la loro barchetta a vela nel tratto di mare più pericoloso della terra? Al tempo del cinema classico, che era molto logico (su un piano illusorio, ma lo era), lo sceneggiatore avrebbe dedicato dieci secondi di film a fornire una spiegazione: metti, sono incappati in una tempesta che ha messo fuori uso gli strumenti di bordo e sono finiti fuori rotta.
Un tratto spiacevole del film è che commette lo stesso errore degli scienziati sperimentatori del prologo. Questi scienziati (e qui, naturalmente, siamo ancora nel campo metanarrativo) cercavano di creare nuovi dinosauri transgenici perché, come sentiamo nel film, la gente era stufa dei soliti dinosauri. Poi è andata male e i dinosauri mutanti sono stati abbandonati sull’isola evacuata. Quindi i nostri eroi devono vedersela con dinosauri mutanti non esistiti nella storia del mondo – i quali entrano in scena in particolare nel gran finale.
In primo luogo, questo è deludente perché il concetto base dell’intera serie non è “uomini contro mostroni più o meno dinosaureschi” ma è “uomini contro dinosauri, punto”. Dritti dritti dal Giurassico, e col bollino di garanzia di una loro storicità (almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze). I realizzatori avrebbero dovuto imparare dai film di insetti giganti degli anni Cinquanta: la mantide gigante grande come un palazzo di sei piani è appunto una mantide. Vero è che Jurassic World (Trevorrow, 2015) già presentava un superdinosauro geneticamente modificato; ma fondamentalmente era un tirannosauro più grosso.
Punto secondo, e questo è il guaio peggiore, questo “nuovi” mostri saranno pure cattivissimi ma non hanno nessuna attrattiva visiva. I sauri col becco da passero e la pappagorgia che si comportano come velociraptor? Il gigante Distortus Rex che sembra un T-Rex con una gran bozza sulla fronte? Suonano finti, artificiosi, immaginari qual sono, e in ultima analisi un po’ ridicoli. Morale: la Natura aveva più stile dei realizzatori in CGI del film.

domenica 15 giugno 2025

Fredo Valla - Le parole del padre


Una volta i padri parlavano ai figli – trasmettevano nella memoria le loro parole. Forse ancora oggi, chi sa. Non tutti. Fredo Valla è un documentarista, sceneggiatore, regista (e varie altre cose, nel corso di una lunga vita: è del 1948). Con Le parole del padre. Scritti, geografie e memorie (Aragno 2025, pp. 294, Euro 25), non scrive né un’autobiografia né un manuale di istruzioni morali: niente di pomposo e “ciceroniano”. Raccoglie una serie di suoi scritti sparsi, alcuni pubblicati su giornali e piccole riviste, altri inediti; direttamente e con modestia parla di sé e della propria avventura di vita e d’intelletto. Fa emergere un quadro a piccoli tocchi discreti: anche se parla di sé non è mai invasivo: da buon documentarista, fa sì che l’“io” tende a inverarsi nello sguardo. Si sarebbe potuto usare l’aggettivo “umile”, prima che questa parola diventasse di moda in ore stultorum.
Leggo nella bella prefazione di Luca Margaria “Quanti e quali incontri ci hanno plasmati e attraverso di essi ci siamo formati e costruiti? (…) Voluti o subiti, desiderati, ricercati, o semplicemente successi”. Questo mi fa venire in mente una pagina molto saggia di Jean Renoir (da Ma vie et mes films): “È il nostro orgoglio che ci fa credere all’individuo-re. La verità è che questo individuo di cui siamo così fieri è composto di elementi come un piccolo amico conosciuto alla scuola materna o il protagonista del primo romanzo che abbiamo letto, o perfino il cane da caccia del cugino Eugenio. Noi non esistiamo di per sé ma per gli elementi da cui siamo stati circondati nella nostra formazione”. C’è un po’ di enfasi positivista (perché fermarsi alla prima formazione?), e del resto un genio come Renoir sapeva bene che anche quello che facciamo ci trasforma; homo faber; nondimeno, ha ragione da vendere. Contro ogni idealismo, noi veniamo formati da influenze esterne.
Le parole del padre è una raccolta di scritti dove si può ritrovare tutto quanto – persone, viaggi, progetti, delusioni – ha modellato Fredo Valla. Lui viene fuori tutt’intero da queste pagine, e il fatto di non nascondere il loro carattere occasionale (non sono state riscritte o rifuse) non fa che rinforzare l’effetto. Accanto ai temi che uno si attende – quali l’amata Occitania (e l’occitano), il padre e la famiglia, la montagna, i suoi autori, i suoi maestri, o il rapporto col sodale Giorgio Diritti (“Dedizione: è la parola chiave di Giorgio per ogni suo progetto di film. È ciò che lui chiede ai suoi collaboratori. Sceneggiare per e con lui, è un’esperienza totalizzante”), e quello, meno lineare, con Ermanno Olmi – troviamo sorprese come il taccuino di un viaggio in Amazzonia, pieno di osservazioni interessanti (occhi aperti e niente retorica) e particolari vividi: gli italiani d’Amazzonia; le giovani donne; il vescovo sboccato; i miti; la festa rituale del Boi Bumbà, una delle tante resurrezioni di animali benefici del mondo; il rito di passaggio della Tucandera (riflessione assolutamente in margine: nella realtà fisica noi non ci castreremmo a capriccio, “per allegria” – nella realtà culturale sì. Quanto male, ma quanto male, ci siamo fatti come popolo, insieme di generazioni, quando abbiamo abolito nel nostro mondo i riti di passaggio?).
È interessantissima la genesi nella vita reale della storia de Il vento fa il suo giro: il tentativo di far rivivere un paese alpino in decadenza che si infrange contro l’ostilità della gente locale – o almeno dei peggiori di loro (grande l’annotazione “È vero che le donne di Ostana sono di una perfidia spettacolare”), ma vincitori. Uno stesso carattere antiretorico si ritrova anche in Nadinot – Lettera a un amico, un soggetto non realizzato (“mai abbandonato veramente” dice Valla), o, altro progetto non realizzato, ne Il mezzo prete, un film tra documentario e finzione che dà dell’omosessuale (“due gay di montagna”) una visione diversa dal modello lacrimoso-arcadico di moda.
Naturalmente non manca nel libro il progetto per il film su Ligabue, poi realizzato (Volevo nascondermi) con la sceneggiatura di Valla e la regia di Giorgio Diritti. “Mi piace pensarlo come un fossile, un relitto dei giorni che furono all’inizio del genere umano (…) Come bestia Ligabue annusa l’aria. Come belva mostra i denti, gli artigli davanti alla tela, e l’azzanna. Ligabue si masturba. Toccarsi è godere. Impasta i colori con le mani…”. Sarebbe interessante (un bell’argomento per una tesi di laurea) fare uno studio sul rapporto tra questo primo abbozzo e il film.
C’è altresì un progetto su Hans Clemer, artista innovatore del secolo XVI, stabilitosi a Saluzzo, “grande artista ignoto per secoli”. Dovrebbe dipanarsi secondo due linee, una più classica con il narratore, una in cui “episodi e avvenimenti e opere della vita del pittore diventano visioni che si mostrano sullo schermo”. Chissà se riusciremo a vederlo?
Una sezione è dedicata a quello che, almeno oggi, è il film più noto di Fredo Valla, il bellissimo documentario di oltre tre ore (ma passano in un attimo!) sul catarismo Bogre – La grande eresia europea. Valla riflette sul film e ne rievoca l’origine, con la scoperta dei Bogomili in Bulgaria che, racconta, dalla conoscenza dei Catari in Occitania si dilatò a uno spazio vastissimo, sia geografico sia ideale.
Forse soprattutto – mi perdoni il lettore questo tuffo nella soggettività – ho amato di questo libro le Pagine sparse, che fanno l’effetto di fogli volanti portati dal vento. E allora, il bellissimo Soffiare sul fuoco che parla dei “cicli del tempo degli uomini” e si situa su quello scivoloso crinale tra passato e presente/futuro che Valla sente come una pressante sfida esistenziale. La sfida fra passatismo conservatore, inevitabilmente “antiquario”, e fiducia nella forza della tradizione vivente, della lingua e della cultura locale, in senso democratico. Valla esprime il suo esserci con la necessità di continuare a “soffiare” – che se non vado errato è parente stretta del “dire la propria messa ogni giorno” di un film che amo molto, il bergmaniano Luci d’inverno.
O il magico Storie del Po, che segue il fiume ed è, nelle sue quattro pagine, un documentario di Fredo Valla su carta. Dettagli memorabili come la lista dei toponimi di origine animale (uno vorrebbe vederli, la roca di ciat, la rocca dei gatti, la funtana dla vurp, la fontana della volpe, il pra da lu, il prato del lupo), oppure le storie fantastiche di gatti e di masche (la disavventura che toccò alla Masca del Po, che rubava i gatti morti). C’è sempre nel realismo di Valla un côté fantastico e notturno.
E poi, l’incontro di rito e storia, di festa pagana e sovrascrittura cristiana, nelle feste delle valli, le Baie, in Rito e storia. In Valla (“smarrito nella modernità”, dice di sé in un punto) prende una dimensione urgente la dimensione locale: la lingua, le abitudini, la memoria, in lotta contro la marcia del tempo che appiattisce.

giovedì 12 giugno 2025

Ballerina

Len Wiseman

All’uscita di Ballerina di Len Wiseman (spin-off della serie John Wick), bastava leggere la stroncatura in puro stile anni Settanta di Porro sul Corriere della sera per capire che si tratta di un bel film. E infatti Ballerina è senz’altro bello, anche se inferiore all’ultimo film (il quarto) della “serie madre”, film geniale nel ripercorrere la storia del cinema popolare attraverso la geografia dei viaggi di John Wick. Sul piano temporale il presente spin-off si situa tra il terzo e il quarto film della serie.
Un’inquadratura ci dice tutto sul programma del regista (e dei produttori, fra cui Keanu Reeves). Quando Eve (Ana de Armas) fa fuori un avversario spaccandogli la testa a colpi di telecomando, naturalmente a ogni colpo vediamo cambiare il film sul grande televisore della stanza, e l’ultimo è una citazione decisiva: è Io... e il ciclone (1928) di Buster Keaton, il re della geometria cinematografica, quando la facciata della casa gli crolla addosso ma lui si salva perché sta esattamente dove cade il riquadro vuoto di una finestra. Ballerina (e tutta la serie John Wick) si basa su un’idea del cinema d’azione come pura geometria, non semplice balistica. I suoi percorsi e movimenti sono così belli che per trovarne di simili bisogna riandare con la memoria al vecchio cinema di Hong Kong – non per nulla, una delle cinematografie cui rende omaggio John Wick 4. In Ballerina, basta pensare alla splendida scena delle bombe a mano: geometria cinetica pura, e per l’appunto un gioco di spazi e di movimenti degno di Jackie Chan. I film di John Wick sono un’accumulazione di geometrie, e non solo sul piano dei combattimenti: Ballerina si basa su un sistema di raddoppiamenti sia nella diegesi (due padri fuggitivi, due bambine portate via, due sorelle combattenti, due progetti del nemico) sia nella definizione dei personaggi (Eve è un doppio di John Wick, che appare nel finale a rendere più chiaro come le loro storie di individualismo ribelle si riflettano l’una nell’altra).
C’è una folle esagerazione, certamente, in questi scontri (comprendente perfino l’uso intensivo di un lanciafiamme). Tutta la serie John Wick – andando naturalmente in crescendo – è basata su un “barocchismo guerriero” in confronto al quale la serie concorrente Mission: Impossible è neorealismo. Chi non ricorda la scalinata di John Wick? La sfida della serie è di costruire un’illusione credibile attraverso il godimento della visione, nel che rientra l’abile costruzione di un immaginario para-mitologico: l’indimenticabile hotel Continental e le varie organizzazioni criminali, in primo luogo la Ruska Roma di Anjelica Huston, col suo carico di riti, simbologie e ferrei codici (ove i film materializzano un mito, quello dei “banditi d’onore”, antecedente al cinema stesso, presente nel feuilleton, e ancor prima).
I film di John Wick sostituiscono al fato (non a caso invocato solo dal villain Gabriel Byrne) la responsabilità, in un rigido sistema di rules e consequences. Nella sua relativa semplicità rispetto agli altri film, Ballerina indica bene come l’origine profonda del cinema di John Wick, con la sua ossessione degli spari, non stia tanto nel thriller/noir quanto nel western. Se il noir si basa su un’ambiguità morale generalizzata, in John Wick e in Ballerina lo spettatore esulta nel vedere i cattivi mordere la polvere en masse. Con la loro divisione netta fra l’“io” del(la) protagonista combattente e il “loro” dei nemici, senza alcuna negoziazione (quando il nemico crolla a terra ferito non bisogna trascurare l’ultimo colpo), questi film fanno propria la dura morale euclidea del western: la distanza più breve fra due punti è la linea retta di una pallottola.

domenica 8 giugno 2025

Scomode verità

Mike Leigh

Il mistero della malattia mentale. Da dove deriva? Da qualche misteriosa perturbazione nell’equilibrio biochimico del nostro corpo? Da una maledizione genetica? O da traumi vissuti che hanno lasciato il segno? O dobbiamo ricorrere al frusto “È colpa della società”?
Mike Leigh è un umanista e un realista (un realismo non retorico, nemmeno accompagnato da toni predicatori come a volte in Ken Loach). In Scomode verità, che parte in modo faticoso ma poi si eleva a un’autentica altezza drammatica, Leigh mostra la vita di due famiglie della piccola borghesia nera di origine giamaicana attraverso il personaggio di Pansy (moglie e madre nell’una, sorella e zia nell’altra) – che, come dice una nipote, “è fuori di testa”. Non è pericolosa ma è insopportabile. Accanto all’ossessione della pulizia della casa e a fobie varie, dagli insetti alle volpi, ha un’aggressività (verbale) costante: in casa, sono continue rampogne a marito e figlio; fuori di casa, sono litigi illogici, da black comedy, con tutti, dai medici alle commesse. La rabbia continua e irrazionale di Pansy, che risale a una triste infanzia, è ovviamente la proiezione su gli altri del suo stare male (“Sto male”: è il lamento classico del malato di mente: tutto deve girare intorno a lui e al suo vittimismo astioso). “Voglio che tutto si fermi”.
Leigh non ci dà né faticose spiegazioni didattiche all’italiana né forzati happy ending alla hollywoodiana. Il suo film racconta una scomoda verità: quando il “male di vivere” trionfa in una persona, non c’è molto da fare se non soffrire. A livello conscio, si soffre con lei; a livello inconscio, si soffre a causa di lei. Il film descrive magnificamente il dolore frustrato della sorella Chantelle, che cerca di stare vicina a Pansy, mentre il marito Curtley si chiude in un silenzio rassegnato (tanto che a un certo punto un gesto privato e solitario di rabbia ci colpisce come uno schiaffo) e il figlio grasso e depresso Moses si isola dal mondo (e viene bullizzato quando esce in strada). C’è un’agghiacciante veridicità nella scena della riunione di famiglia nel giorno della “festa della mamma”, con Pansy che siede cupamente muta in mezzo ai familiari, non estraniandosi, in realtà, ma facendo colare sugli altri il suo malessere ostile.
È una situazione bloccata, che trova un’illustrazione simbolica – attenzione, spoiler! – nel tragico finale. Curtley si è fatto male alla schiena sul lavoro, si è fatto portare a casa dal suo aiutante Virgil e ora è immobilizzato su una sedia in cucina. Ma Pansy è bloccata dai suoi fantasmi al piano di sopra e non vuole/non può scendere. Sulla guancia di Curtley scende una lacrima.
Scomode verità potrebbe essere il film più nero di Leigh, perché ci mette di fronte all’implacabilità del dolore senza rimedio – senza neppure quell’ottimismo implicito del “tirare avanti” su cui Leigh ha costruito tanta parte del suo cinema. La triste conclusione è solo leggermente illuminata da una tenue sottilissima speranza, affidata a una caramella – ma nella generazione seguente (Moses).
Mike Leigh è famoso per il suo paziente lavoro con gli attori, spesso suoi regulars; qui è magnifica Marianne Jean-Baptiste, già apparsa nel suo Segreti e bugie; ma vanno menzionati almeno Michele Austin come Chantelle, David Webber come Curtley e Tuwaine Barrett come Moses.
A un certo punto del film, per bocca di Virgil, sentiamo parlare di Haydn: il compositore della leggerezza e della precisione. Nessuno ci leva dalla testa che sia un omaggio segreto di Leigh a se stesso, ovvero al proprio programma di regista: perché le sue grandi doti sono le stesse. In scene potenti e autentiche, come la visita al cimitero e la riunione familiare già citata, Leigh tocca in maniera impressionante la realtà dei rapporti umani, senza infingimenti ma allo stesso tempo con una profonda pietas – che ci mostra anche nell’inavvicinabile Pansy una straziata umanità.

sabato 31 maggio 2025

La trama fenicia

Wes Anderson

C’è un metodo nella sua follia”: quando Shakespeare scrisse questa frase, di sicuro pensava profeticamente a Wes Anderson. Il pazzo e geniale regista americano ritorna, per far incazzare metà pubblico e farsi adorare dall’altra metà, con La trama fenicia. Nel film, un milionario senza scrupoli (dal nome doppiamente cinematografico di Zsa-zsa Korda) è comicamente soggetto a continui attentati (neanche in un thriller Benicio Del Toro sanguina tanto quanto in questo film!) che mirano a sabotare un suo piano edilizio/finanziario. Nomina sua futura erede la figlia Liesl (Mia Threapleton, sublime), abbandonata in convento a 5 anni, che sta per farsi suora. Assieme a lei si lancia nel tentativo di salvare il progetto, dal quale dipende la sua fortuna. Compare anche un bizzarro aldilà (un Paradiso dove Zsa-zsa viene processato, non a fine film) in bianco o nero.


Tutti i film di Wes Anderson presentano una banda di personaggi bizzarri, disfunzionali, sconclusionati. Sorretto dall’impassibilità “keatoniana” di molte di queste figure, il cinema di Anderson è un’antologia di storie impossibili, dove si apprezza in prima battuta l’umorismo eccentrico. Indimenticabile, qui, “Gradisce una bomba a mano?”, il tormentone delle granate educatamente offerte a ogni incontro.
Non cercate di decifrare il senso dell’operazione finanziaria del milionario (ovvero, non cercate di dipanare la “trama fenicia”). Il cinema di Anderson è popolato di piani assurdi e incomprensibili (che peraltro spesso funzionano – laddove il controllo ossessivo, pallino di molti personaggi fra cui Zsa-zsa, fallisce sempre). Il vero argomento di Anderson è un altro: la mancanza e il suo superamento. È un cinema di orfani, in senso proprio o figurato, come Liesl, che ha al centro una disgregazione, una ricorrente perdita della figura paterna per mancanza o allontanamento o incapacità, una frattura della famiglia (I Tenenbaum, cronaca di un divorzio come dolore da riassorbire, o Il treno per il Darjeeling, con la morte del padre e l’abbandono della madre, per non parlare del capolavoro Moonrise Kingdom, e così via). Il fare i conti con il dolore – e la ricerca della ricomposizione. Ricomposizione è (anche qui) la parola chiave di Wes Anderson. Specialmente ricomposizione familiare; e il pensiero corre alla misteriosa scatola sigillata lasciata in eredità dal nonno (ma, tipicamente per Anderson, non è il MacGuffin dell’intreccio), che quando viene aperta non contiene segreti ma ricordi di famiglia. Così, è centrale la necessità della ricomposizione con se stessi – e quindi la rinascita. Anche, naturalmente, nel finale del presente film.
La trama fenicia è particolarmente mosso. La scansione narrativa a tappe (le varie persone da convincere) è molto congeniale al cinema di Anderson, che ama la successione di “quadretti” in sequenza (il primo esempio che mi viene in mente: i vagoni del treno di Darjeeling); ma qui essa si piega e si distorce sotto l’impulso di una fantasia di avventura. La faticosa ricerca di Zsa-zsa culmina nella presentazione agli astanti (e a noi) di un grande modellino dell’opera; ed è normale strategia comunicativa nel mondo degli affari; tuttavia non riusciamo a sottrarci al pensiero irrazionale che lo scopo della “trama fenicia” sia lo stesso del cinema di Wes Anderson: produrre modellini.

La radice del suo cinema è grafica. Classificatore per eccellenza, Anderson riempie i suoi film di inventari, di accurati appunti e scritture, di quadri, di copertine di libri e di dischi. In questo film pieno di dipinti le quote dello “schema fenicio” sono esposte in forma di scatole da scarpe ordinatamente disposte su un tappeto (come ha scritto Ilaria Feole in una bellissima recensione, “c’è sempre più Greenaway, nel regista texano”). In tutti i suoi film ci sono questi accumuli di materiali – rigorosamente disposti in bella vista, ma spesso “bruciati” in pochi secondi di visione. Non a caso Anderson ama trarre libri illustrati dal suo lavoro cinematografico. Poeta e giocoliere, crea un cinema immediatamente riconoscibile sul piano visivo, per il quale è obbligatorio richiamare i concetti gemelli di illustrazione e di fumetto. Vedi per esempio l’inquadratura perpendicolare, “a piombo”, di Zsa-zsa nella vasca da bagno in una grande stanza, assistito dalle infermiere – un’inquadratura che è del tutto esterna alla logica della fotografia cinematografica: è fumettistica.
Quando parlo di fumetto non intendo il fumetto americano attuale, fratturato nelle vignette in modo piuttosto isterico, ma quello americano classico, con quadretti ben delineati – un nome che mi sento di fare, e che di sicuro Anderson conta fra le sue basi culturali, è quello “arcaico” di Winsor McCay. Però i film andersoniani ricordano anche, sia per la concezione grafica sia per quell’impressione di ordine e pulizia, la ligne claire francese-belga. E naturalmente molte classiche copertine di riviste alla New Yorker, Saul Steinberg in primo luogo. La cura delle composizioni, la tendenza all’inquadratura centrata, le sue figurette bizzarre e irreali, la particolarità dei colori: tutto ciò crea un’inconfondibile astrazione figurativa.
Non può stupire che mezza Hollywood sgomiti per fare un cameo nei suoi film (anche La trama fenicia è un Gotha di nomi hollywoodiani, ma elencarli implicherebbe troppo tempo – così, per ovvii motivi di reverenza, mi limito a menzionare Bill Murray nella parte di Dio). A parte il lustro intellettuale, che però varrebbe anche per altri registi, è l’astrazione che la vince: è come diventare personaggio di un fumetto senza l’incombenza di farsi disegnare. Entrare col proprio corpo fisico in un quadro fantastico. Wes Anderson costruisce le immagini con la stessa maniacalità di un diorama.

martedì 27 maggio 2025

Far East Film Festival 2025 - Cina, Mongolia, Corea


Con queste note concludo la serie di brevi recensioni dei film del Far East Film Festival 2025 (va da sé che non li ho visti tutti). Nota: alcune recensioni sono già state pubblicate in forma breve sul quotidiano Messaggero Veneto.

Tsui Hark

Il maestro Tsui Hark, grande regista e produttore, il cui cinema si situa fra Hong Kong, Taiwan e la Cina continentale (ma anche con una puntata nel cinema hollywoodiano) in un ricchissimo territorio di fantasy, wuxiapian, arti marziali e avventura, ha ricevuto il Gelso d’Oro alla carriera 2025, consegnato in una bellissima cerimonia da un altro grande, Tony Leung Ka-fai. Il FEFF ha reso omaggio a Tsui Hark con la presentazione di tre suoi film, fra cui l’ultimo, Legends of the Condor Heroes: The Gallants.
Shanghai Blues (Hong Kong 1984), presentato in un restauro in cui il regista ha cambiato qualcosa, è un superbo mélange di velocità, ritmo, umorismo e commozione all’interno di una descrizione calda e appassionata della Shanghai povera del dopoguerra, subito prima che la città cadesse nelle mani dei comunisti (ha un valore simbolico quel treno che parte nel finale verso Hong Kong). Equivoci, scambi di persone, gag, una ronde di una serie di quadri collegati da una presenza continua della musica (anche il dénouement si svolge al ritmo della canzone eponima, Shanghai Blues). Un ottimismo di fondo sul fuggire e una nota amara sul restare, nel finale. Un capolavoro.
(Nota in margine: quando uscirà il DVD, mi auguro che contenga ambedue le versioni, quella originaria del 1984 e questa).
Nell’ambito della rassegna, che sono stato felice di curare, sulle creature del folklore asiatico nel cinema è inserito Green Snake (Hong Kong 1993), in cui il regista riprende la vecchia leggenda giapponese di Serpente Bianco e Serpente Verde, due spiriti-serpente sorelle travestite da umani per vivere nel nostro mondo. Fiabesco e fascinoso, certo; ma soprattutto, Tsui Hark – che non dimentica mai nel suo cinema la personalità dei suoi personaggi in favore del racconto – amplia la leggenda allargando il gioco psicologico fra le due sorelle, la maggiore e la minore: Serpente Verde (personaggio assai minore nella leggenda e qui co-protagonista, interpretato da Maggie Cheung) è più giovane di Serpente Bianco, ha solo 500 anni, ed è piena di impetuosità e inesperienza giovanile (con gag di trasformazione incompleta), ma vuole anche lei, come la sorella maggiore, provare l’amore di un mortale.
Il wuxiapian Legends of the Condor Heroes: The Gallants (Cina 2025) ritagliando la sua storia da una parte del romanzo-fiume di Jin Yong, maestro riconosciuto del wuxia letterario con le sue opere scritte fra il 1955 e il 1972. Nel lavoro di taglia e cuci di Tsui Hark, che usa in modo molto autonomo (e non è la prima volta) l’opera di Jin Yong, un punto però rimane come stella polare: il concetto di righteousness (rettitudine), centrale nella cultura cinese classica, che si riflette in questi “cavalieri antiqui”. Tsui Hark crea un filmone rutilante di grande spettacolo, un’orgia visuale e narrativa piena di movimento e di colore. È un maestro del combattimento e i suoi “voli” nell’aria sono probabilmente i più belli dopo quelli di King Hu. Eppure, non è la tensione del combattimento wuxia a mantenere il primo posto nell’economia psicologica del film bensì, tipicamente, la personalità umana. Mentre continua la lotta contro il super-villain dai poteri magici interpretato da Tony Leung Ka-fai, si crea un triangolo fra l’eroe Guo Jing, la sua donna perduta e ritrovata Huang Rong e la vivacissima figlia guerriera di Genghis Khan, che è innamorata di Guo Jing. Su questa situazione, il film costruisce un intrico di equivoci e di necessaria finzione (“dissimulazione onesta”, avrebbe detto Torquato Accetto) in modo così intenso che palpitiamo per l’esistenza sentimentale dei personaggi prima ancora che per quella fisica.

Green Wave

Il film cinese Green Wave di Xu Lei parte dalla scoperta, durante la demolizione di una casa, di una ciotola che (forse) è antica, e in tal caso vale un mucchio di soldi. Un po’ esile (migliora nella seconda ora) ma piacevolissimo, il film incrocia due vite, i cui protagonisti sono padre e figlio; e insieme, con eguale ironia, incrocia due mondi, quello dell’arte e delle expertise e quello dei giovani cinefili, aspiranti sceneggiatori/registi.
Nel primo caso, vediamo una banda di truffatori di sottigliezza e accuratezza incredibile (tanto da travalicare la semplicità dell’assunto, è come prendere il transatlantico per andare da Trieste a Venezia, ma che importa? Quando il figlio, che ha capito il trucco, prende una stoviglia dall’acquaio, gliela porta e loro mettono in atto di nuovo tutta la manfrina degli esperti coltissimi, ci si rovescia dal ridere). Nel secondo caso vengono presi per il bavero sia il cinema cinese di blockbuster sia la fauna cinefila: da notare che il feroce critico online non è meno ridicolo del protagonista, quando quest’ultimo lo affronta per strada.
Il maggior pregio del film è la sincera simpatia che riesce a creare verso i suoi personaggi, molto umani. Per una volta non dipende solo dalla bravura degli attori perché se Xu Chaoying (il padre) è molto bravo, Wang Chuanjun (il figlio) lo è un po’ meno. Sobriamente delineati ma deliziosi i personaggi di contorno, come il fratello che accompagna il padre nella sua avventura. Nella seconda parte, poi, Green Wave acquista una maggiore profondità: la scena in cui padre e figlio sono coricati vicini in casa e il padre racconta dei suoi progetti per usare i milioni che guadagnerà (dal reperto) aiutando la famiglia… solo che tanto il figlio quanto noi spettatori già sappiamo che è una truffa… è la migliore del film e ha una delicata, malinconica autenticità vagamente čechoviana.

Deep in the Mountain

Li Yongyi è il montatore di alcuni recenti film di Yang Zhimou, tra i quali ricordo lo splendido Full River Red. Ha debuttato come regista con Deep in the Mountain, in cui, fedele al titolo, il poliziotto Yao (che deve riabilitarsi dopo un ridicolo errore) si inoltra in mezzo al nulla fra le montagne alla ricerca di una persona scomparsa, e finisce in qualcosa di molto simile a un alveare di vespe infuriate.
Deep in the Mountain è interessante e piacevole, ma sconcerta per una contraddizione importante, sia narrativa sia linguistica. Inizia (parlo di un buon pezzo, non della scena iniziale) come un thriller, e anche il linguaggio cinematografico è raffinato, procede per lampi, se non è anacronico ci va vicino. Poi il film, con l’arrivo del poliziotto in un villaggio di bifolchi dove si nasconde un astuto assassino, cambia radicalmente direzione e diventa una black comedy; e qui, pure il modo di raccontare diventa più tradizionale. Impossibile non sentire una specie di stridore; forse Li Yongyi e lo sceneggiatore Wang Zhongyan pensavano ai fratelli Coen, che mi sembrano il riferimento occidentale più vicino, ma a differenza per esempio di Fargo, si ha l’impressione che questa contraddizione non sia del tutto risolta sul piano artistico. Comunque sia, la stupidità di questi contadini ambiziosi, intenti a preparare in pompa magna l’arrivo di un pezzo grosso a livello locale, riceve un’illustrazione memorabile.
Tutti gli attori sono eccellenti. Qiao Shan (Yao, il poliziotto) è una meraviglia – mi fa pensare a un Silvio Orlando cinese (più giovane e più atletico). Wang Yanhui (l’assassino Ge) è pure bravissimo e molto inquietante nel suo atteggiamento di simpatia manipolatoria dietro la quale traspare sempre un senso di minaccia da far rizzare i capelli.

Her Story

Vibrante film femminista, mai didattico, di freschezza invidiabile, ricco di humour, il cinese Her Story di Shao Yihui tocca una quantità di temi (compresa l’omosessualità, per via di equivoco, su cui umoristicamente un inganno per fregare un dongiovanni), ma in primo luogo la rivendicazione della capacità della donna di agire e farsi avanti – che nel caso della bambina Moli può anche voler dire la libertà di rinunciare per ora a prendere una decisione sul futuro. Contestualmente ironizza sul pregiudizio maschile che si si aspetta che la donna sia perfetta in tutto quello che fa. Con un dialogo eccellente, sparato “a raffica” come nelle commedie screwball americane, è un film attraversato da un senso di libertà – sia come aspirazione sia come realizzazione concreta – che è raro trovare nel cinema cinese: con tanta convinzione almeno. Forse c’entra il fatto che si svolga a Shanghai invece che a Pechino, e l’atmosfera è diversa. Di certo, vi spira un vento leggero ma indiscutibile di fronda (vedi la figura del ragazzino “denunciatore” a scuola).
Il trio di interpreti femminili è ben delineato, e ottimo sul piano interpretativo: la giornalista Tiemei (Song Jia) che è anche troppo controllata, la cantante Ye (Elaine Zhong), sua vicina, che è l’esatto opposto – fra le due nasce un imprevedibile rapporto di “sorellanza” – e la piccola Moli (deliziosa l’attrice bambina Isabella Zeng) che si divide fra le due “mamme” cercando la propria strada. Fra le figure maschili di contorno, divertentissimo l’ex marito di Tiemei che dopo il divorzio è diventato “femminista” – nel senso che ripete a pappagallo sentenze orecchiate nei libri femministi che ha letto.

Like a Rolling Stone

L’aspetto decisamente positivo del film di Yin Lichuan è il ritratto della protagonista Li Hong, ben interpretata da Mei Yong, ispirata a una persona reale, Su Ming, che a cinquant’anni passati ha mollato il marito e gli obblighi familiari e ha cominciato a viaggiare da sola per la Cina, diventando famosa con i suoi post online. Li Hong è una donna che aveva ambizioni da ragazza (studentessa brillante, voleva andare al college) e ha dovuto rinunciare, prima per aiutare la famiglia – il padre, violando le promesse, le fa un ricatto morale – e poi per gli obblighi del matrimonio, poi quelli dell’allevare una bambina, poi di fare la nonna quando la figlia ha due gemelli. Da figlia, da sposa, poi madre, poi nonna, Hong non ha mai un momento per se stessa (questo è espresso sul piano spaziale nella scenografia, con lei che spignatta in una piccola cucina separata da un vetro). Il racconto è narrato in modo anacronico sull’arco di molti anni. Il concetto del peso di obblighi che schiaccia la donna cinese, tanto ieri quanto oggi, è ben reso, e la bella definizione della protagonista “lima” l’inevitabile aspetto didattico.
Il problema è che l’aspetto didattico uscito dalla porta delle interpretazioni femminili rientra dalla finestra con quella maschile: il marito appare come una figura eccessiva, non perché non sia autentico il primitivismo neanderthal del maschilismo cinese che incarna, ma sul piano artistico, per la ripetitività (non smette di rompere un minuto in tutto il film!) con cui il film lo trasforma in un rompipalle pazzoide.

My Friend An Delie

Li Mo (il regista Dong Zijian) sta andando in aereo al funerale di suo padre. Sull’aereo riconosce il suo amico An Delie (Liu Haoran) che non vedeva dai lontani tempi della scuola. An Delie però prima dice di non esserlo, poi dice che conosce Li Mo e non è lui. Tutto è molto ambiguo. Quando Li Mo è costretto ad affittare un’auto per continuare il viaggio, An Delie viaggia con lui, con aspetti sempre più misteriosi.
La storia interlinea questo bizzarro presente e il racconto in flashback dei tempi della scuola, con l’amicizia fra Li Mo e An Delie quand’erano ragazzini (Chi Xingkai e Han Haolin). In quel tempo, siccome An Delie ha come vero nome An Deshun, a tutti scoccia che voglia farsi chiamare An Delie, anche perché, dicono, è un nome straniero: è un po’ sconcertante ma la spiegazione è che An Delie è la pronuncia cinese di André. Viene spesso picchiato dal padre ed è un anticonformista totale, il che affascina Li Mo (questi vive da solo col padre perché la madre se n’è andata). C’è una pagina coraggiosamente polemica contro le istituzioni quando i voti vengono “aggiustati”, a danno di Li Mo, per far vincere una borsa di studio a un’altra allieva (evidentemente figlia di un pezzo grosso) e An Delie lo denuncia pubblicamente, pagandola cara.
Andando avanti nel film ci facciamo un’idea del concetto: il regista Dong Zijian (anche co-sceneggiatore da un romanzo di Shang Xuetao, nonché interprete) ha voluto in pratica incrociare una concezione alla David Lynch, o alla Kurosawa Kiyoshi, con il tradizionale realismo cinese. Forse il film, nella seconda parte, rende ciò un po’ troppo esplicito, mentre prima era un po’ troppo oscuro, e casca almeno in una ingenuità (un’allucinazione che picchia!), ma in compenso è una delle opere più intriganti del festival.

Upstream

Xu Zheng, regista e interprete di Upstream, è famoso per le sue commedie, ma ha anche interpretato ruoli drammatici, come in Dying to Survive (2018). Upstream è un film drammatico, anche se la carica comunicativa di Xu vi porta una certa leggerezza. Il “colletto bianco” Gao Zhilei viene inaspettatamente licenziato da un ruolo di dirigente. Cerca un nuovo lavoro ma nessuno assume un quarantenne, e lui nella disperazione deve riciclarsi come rider per le consegne a domicilio. Naturalmente all’inizio se la cava malissimo. La prima parte fa stupire che non sia stata proibita (chissà se non ci fosse una superstar come Xu Zheng...), perché dà della Cina “socialista” (per quanto sia un’etichetta vuota) una descrizione in termini di super-capitalismo infernale tale da andare oltre i sogni più estremi di Trump e Musk. Questo, sia nella descrizione delle grandi industrie sia nella descrizione dei rider, sottoposti a un sistema di iper-sfruttamento feroce con tempi cronometrati (per cui devono anche essere imprudenti nella guida se vogliono fare le consegne senza rimetterci).
La seconda parte descrive il passaggio di Gao Zhilei, come si suol dire, from zero to hero (campione e inventore di un’idea produttiva, con premio in denaro) negli stilemi del cinema sportivo, compresi i classici passaggi di montage celebrativo, fra cui quello finale in una discoteca – con lui tutto sanguinante per un incidente. Esiste indubbiamente una discrasia di tono tra le due parti, dalla disperazione all’ottimismo che elogia chi lavora duro (se volessi esagerare, giusto per farmi capire, direi che la prima parte sembra firmata da Preston Sturges e la seconda da Frank Capra); ma il film “tiene” – e siccome è impossibile non solidarizzare con questa banda di eroi sconosciuti, scalda il cuore una conclusione pur minimamente positiva.

Successor

Successor, di Peng Damo e Yan Fei, viene dal famoso gruppo Manhua Fun Age, compagnia comica di cinema e teatro di Pechino. In questa commedia tanto delirante quanto intelligente, un padre milionario (l’attore comico Shen Teng) non vuole che il secondo figlio Jiye cresca guastato dalla ricchezza come suo fratello, che se n’è andato di casa. Così finge di essere poverissimo e di abitare in una casa miserabile con la moglie, il bambino e una (finta) nonna paralitica. Aiutandosi su un apparato supertecnologico alla James Bond, del quale fanno parte tutti i falsi vicini, alleva il figlio nella povertà in modo che impari tutte le virtù confuciane. Bellissimo – ma funziona finché Jiye è un ragazzino (deliziosa la sua bontà, diremmo qui, “deamicisiana”). Quando diventa un giovanotto, è ancora un ragazzo d’oro, ma comincia a dubitare della realtà…
Successor è una commedia gustosissima, con dei momenti assolutamente farseschi (il finto funerale!), ma va al di là di una “cosa da ridere”. Affronta con intelligenza quella specie di “coscienza infelice”, propria della Cina ma nelle sue forme di tutti i paesi ex poveri, che è la consapevolezza della discrasia fra la nuova ricchezza materiale e le vecchie virtù, lodate dai conservatori ma difficili da vivere. Soprattutto, però, Successor è una sorta di The Truman Show cinese. Il protagonista Jiye quando è cresciuto è troppo intelligente per non avere degli ovvii sospetti, ma non sa comprendere cosa succede, e nessuno ci riuscirebbe. Il film, esattamente come The Truman Show, diventa un esercizio di “paranoia giustificata”. Sublime la scena in cui Jiye, a scuola, scandalizza l’insegnante mettendo in questione il materialismo marxista obbligatorio nel regime e sostenendo che in realtà la nostra vita è determinata da forze misteriose.
E così, di nuovo come The Truman Show, Successor diventa un’ironica riflessione filosofica (e implicitamente politica) – e chiama in causa in una conclusione dolceamara anche l’aspetto morale.

Decoded

Più interessante sulla carta che nella realizzazione, il pomposo Decoded è un film di Chen Sicheng sulla lotta ventennale fra due geniali esperti di cifrari e decrittazione, uno cinese e uno americano, Jingzhen e Lisiewicz, che erano stati amici in gioventù in Cina. La lunga durata del plot dà l’occasione di tratteggiare (da un punto di vista rigorosamente patriottico e di regime) una storia della Cina fra i Quaranta e i Sessanta. Nella parte finale, mentre i buoni costruiscono la bomba atomica, i nemici americani e taiwanesi si adoperano per impedirlo.
Il film si avvale di una bella fotografia di Cao Yu, che è molto bilanciata, con una predisposizione per la centratura: utile per introdurre un elemento di sotterranea inquietudine che entra bene in un film che si sofferma molto sul sogno. Infatti per Jingzhen, affascinato all’interpretazione dei sogni fin dall’inizio, il sogno è un territorio popolato di simboli in cui la mente risolve i problemi insoluti durante la veglia.
Purtroppo non basta saccheggiare David Lynch e Christopher Nolan per rendersi interessanti; inoltre il film contiene grossolanità di racconto (l’episodio del quaderno smarrito) e ridicolaggini di messa in scena (la cella stile Abate Faria del Conte di Montecristo in cui i suoi dirigenti americani rinchiudono Lisiewicz per punizione) che, unite a una lunghezza eccessiva, rendono faticosa la visione.

Silent City Driver

Gli spettatori del Far East Film ricorderanno il film della Mongolia The Sales Girl di Sengedorj Janchivdorj. Lo stesso regista firma Silent City Driver, che è, a parere di chi scrive, più bello di The Sales Girl, ma anche molto diverso (ho anche avuto difficoltà a vedere una continuità stilistica fra i due; poi però compaiono dei motivi comuni, come il viaggio nella steppa). È più intellettuale, per così dire, quasi d’avanguardia, e molto elegante, a tratti maestoso.
Il racconto del film fraziona l’esperienza di vita del protagonista in una serie di “momenti significanti”, con un effetto a mosaico. Il giovane, semi-ritardato dopo un inumano trattamento in carcere, lavora come autista di carro funebre in una specie di azienda tutto-per-la-morte”, che va dai funerali alla fabbricazione delle bare al lavoro di scalpellino per le lapidi. A un certo punto il protagonista si imbatte in un mistero: una ragazza che esce di nascosto da casa sua di notte. In breve, vediamo che è ricattata dal padrone di un hotel a causa di certe foto erotiche. Nel rapporto fra i due e nella rabbia di lui sembra di avvertire una vaghissima reminiscenza di Taxi Driver, ma tutto si svolge in un contesto buddhista (gustosa una spiritosa figura di giovane bonzo tifoso di calcio e non alieno dalla carne): tema ultimo di questo film complesso ma ricco di fascino è l’espiazione.

About Family

Nella spiritosa commedia coreana About Family di Yang Woo-seok il ricco e avaro ristoratore Mu-ok, il re dei ravioli, è disperato perché è vedovo e non ha un erede. Poiché segue la religione tradizionale coreana, si vergogna come un ladro quando deve fare rapporto agli antenati durante i riti. Non può contare sul suo unico figlio, Mun-seok, che ha abbandonato la famiglia ed è diventato monaco buddhista, per di più di grande successo come predicatore (ha pure scritto un bestseller, Da Ippocrate a Buddha, e pagherei qualcosa per leggerlo). Ma ecco che si presentano da Mu-ok due bambini – i cui genitori adottivi sono morti in un incidente – che dichiarano di essere figli di Mun-seok. “Antenati!!!”, strilla felice Mu-ok per avvertirli della scoperta.
Di qui prosegue con varie complicazioni (dalla religione agli scherzi sull’avarizia di mu-ok, più l’inevitabile, ma controllato, côté patetico) un’agile commedia feel-good, fondata sul dialogo e sulla reazione psicologica al dialogo, un “botta e risposta” supportato da ottimi attori. Il ritmo naturalmente è molto vivace (è interessante che il regista sia l’autore di un dramma politico come The Attorney e di due durissimi thriller di avventura come i due Steel Rain). Questo film ha una esuberante cordialità di messa in scena e di svolgimento, da cui il cinema italiano di oggi potrebbe ben imparare qualcosa.

Dark Nuns

Il coreano Dark Nuns di Kwon Hyuk-jae è una via di mezzo tra un sequel e uno spinoff di The Priests di Jang Jae-hyun, visto al FEFF nel 2016, e si svolge nello stesso universo fantastico, basato – da buon film di esorcisti – su una teologia para-cattolica, con i Rosacroce autorizzati dal Vaticano in lotta contro le demoniache “12 Manifestazioni”. Alla fine ricompare in un cameo Kang Dong-won, il Padre Choi del primo film. Tuttavia Dark Nuns è meno apocalittico come trama del suo predecessore, che minacciava la fine del mondo.
Qui di tratta di salvare un ragazzo posseduto (Woo-jin è efficace nel ruolo). Il problema è che il sacerdote a capo dell’ospedale che ne ha cura, Padre Paolo, è uno di quei preti “moderni”, un positivista-progressista, per il quale la possessione demoniaca è superstizione e la psichiatria è la soluzione. S’intende che per lui una suora esorcista (una suora!) come suor Yunia è abominio.
Yunia, che è stata formata come esorcista dal Padre Kim di The Priests, trova un’alleata indispensabile in suor Michaela, formata dal prete psichiatra, e quindi scettica e ostile – ma che poi si lascia convincere. La differenza totale di carattere e abitudini fra le due è molto divertente; Song Hye-kyo e Jeon Yeo-been sono molto brave rispettivamente come Yunia e Michaela.
È interessante la presenza nella trama del fatto che per la Chiesa cattolica le donne non possono esorcizzare; inoltre, viene ripresa e ampliata l’idea, già presente in The Priests, di un’alleanza fra il cattolicesimo e lo sciamanesimo coreano contro le forze oscure. Ma in primo luogo Dark Nuns va visto come un horror estremamente piacevole. Non ci sono l’estremismo fanatico né le bizzarrie surreali di Jang Jae-hyun in The Priests, ma Kwon Hyeok-jae porta nel suo film una mano molto sicura che realizza un’opera tesa e concentrata.
I vari film di esorcisti hanno il problema che: a) la trama è tutta costruita per arrivare alla scena madre dell’esorcismo; b) quando ci si arriva si vede in genere una scena “friedkiniana” già passata sullo schermo molte volte. Dark Nuns sfugge con molta abilità a questa trappola, prima dando molto spazio ai rapporti interpersonali (non che per questo manchino le scene horror!) e poi realizzando la lunghissima scena dell’esorcismo risolutivo con una vivezza e convinzione che la fanno spiccare nel genere.

The Square

In uno dei regimi più chiusi e inumani del mondo, la Corea del Nord, un diplomatico dell’ambasciata svedese, pedinato e spiato come tutti, ha una storia d’amore con una agente del traffico di Pyongyang. Sarebbe una storia appassionante e improbabile comunque, ma ciò che rende unico The Square, primo lungometraggio di Kim Bo-sol, è che si tratta di un’animazione. Le figure, realistiche, rientrano nel canone del cartoon occidentale contemporaneo, ma i movimenti della bocca sono tipico manga.
Un breve episodio laterale rende bene l’idea del mondo in cui Isak si muove. Per strada l’uomo vede una bambina, in braccio alla madre, incuriosita e un po’ spaventata da questo viso occidentale e diverso. Lui le sorride, dice qualcosa e la bambina diventa amichevole. Dopo che lui è andato via, un poliziotto si avvicina alla madre e la rimprovera: “Non dovresti parlare con uno straniero”.
Ricorda Orwell, e va oltre, la descrizione degli accorgimenti che Isak Borg (biondo scandinavo ma coreano da parte della nonna) e Bok-joo devono prendere per rubare pochi attimi per la loro relazione necessariamente platonica – come mangiare vicini al ristorante ma in tavole separate senza guardarsi. Il loro amore è possibile perché l’interprete di Isak, Myung-jun, è una persona fondamentalmente onesta e pur essendo stato messo al suo posto dalla Gestapo del regime finge di non accorgersi e non li denuncia.
È una storia, raccontata abilmente, che si svolge per intero sotto il segno di una tormentosa impossibilità. In effetti si ha l’impressione che Isak non si renda conto a sufficienza del pericolo cui espone la donna che ama; ma questo dà al racconto la sua aria di disperato romanticismo. C’è una suspense rispetto ai personaggi, ci preoccupiamo per loro, ciò che è la dimostrazione della capacità del film di scavarci dentro.
Il film ovviamente non può avere un lieto fine – ma ha una conclusione che, sebbene amara, almeno non ha le caratteristiche sanguinose che una storia del genere avrebbe nella realtà.

lunedì 26 maggio 2025

Paternal Leave

Alissa Jung

Ci sono certi padri, che è meglio perderli che trovarli (scusate l’anacoluto). Uno di questi è Paolo, che quando la fidanzata tedesca Anna è rimasta incinta si è dato alla fuga senza più farsi sentire. Ora la figlia Leo (Leonia) ha 15 anni e all’insaputa della madre va a cercarlo in Italia, nel film tedesco/italiano “Paternal Leave” di Alissa Jung.
Il primo approccio con Paolo, infuriato e spaventato da questa irruzione del passato nella sua vita (ora ha una fidanzata e una bambina), è quasi da antropologa, o da entomologa: un’“intervista” con una serie di domande preparate in anticipo. Poi però i sentimenti rabbiosi e inespressi vengono fuori.
Immerso in ambienti romagnoli volutamente tristi, “Paternal Leave” ha un grande merito: ci dà un bellissimo ritratto di adolescente, con la prodigiosa giovanissima Juli Grabenhenrich che sul piano interpretativo non sbaglia un colpo. Lei non è una che le manda a dire: fra la “poker face” adolescenziale e una certa rigidezza teutonica (anzi: adolescenzial-teutonica), è un personaggio memorabile, il cui dolore è privo di qualsiasi sviolinata patetica. Dall’altro lato, Paolo, interpretato da Luca Marinelli, è una figura che conosciamo molto bene dal cinema italiano dei Cinquanta e dei Sessanta, da Risi, Salce, Monicelli, Pietrangeli (la interpretava splendidamente Alberto Sordi): il mediocre nato, bugiardo, autoindulgente, vittimista, sempre pronto a piangersi addosso (vedi il discorso di Paolo sull’essere rimasto psicologicamente “paralizzato”) e sempre propenso a dare la colpa agli altri.
Ma mentre nel “realismo cinico” dei film italiani degli anni Sessanta il personaggio sarebbe rimasto nella propria grettezza, qui invece arriva, improvviso come un UFO, un finalino consolatorio con volate poetiche (il funerale del fenicottero).

(Messaggero Veneto)