sabato 22 novembre 2025

The Smashing Machine

Benny Safdie

Gli amanti del cinema sportivo apprezzeranno il film biografico sul lottatore di arti marziali miste Mark Kerr (interpretato da Dwayne Johnson, “The Rock”), il discreto The Smashing Machine di Benny Safdie, già presentato con successo all’ultima Mostra di Venezia. Il film si concentra su alcuni anni cruciali di Kerr (che nel finale 2025 appare in persona, dopo il ritiro, e saluta gli spettatori). I durissimi scontri sul ring sono girati con la macchina a mano e in 16mm. come tutto il film, dando un’idea di verità aumentata dal posizionamento della cinepresa non direttamente sul ring ma fuori dalle corde. 
Con la storia (autentica) di Mark Kerr, The Smashing Machine segue i tratti classici del cinema sportivo. Dapprima il successo, poi la crisi e la caduta, con abuso di pillole originato dagli analgesici, accompagnata da tensioni con la fidanzata Dawn (Emily Blunt); segue la rinascita, propiziata dall’amico campione Mark Coleman (il lottatore Ryan Bader) e dall’ex campione ora allenatore Bas Rutten (incisivo nel ruolo di se stesso); vediamo il ritorno all’allenamento nel tipico montaggio veloce celebrativo, sulle note di My Way nella versione grintosa di Elvis Presley. Il rapporto con Dawn tuttavia si aggrava disastrosamente. Poi Kerr parte per l’incontro della sua vita in Giappone...
L’aspetto notevole del film è l’insistenza sulla vulnerabilità del protagonista, che piange sovente e mostra dei tratti decisamente infantili (vedi all’inizio la scena in cui tiene il muso a Dawn, arrivata in aereo, per avere interrotto la sua concentrazione prima del combattimento). La strana contraddizione fra questa montagna di muscoli e certi suoi comportamenti da bambino da sculacciare (difficile a farsi, però...) espone un problema base dei nostri tempi: l’eclissi della virilità.

(Messaggero Veneto)



domenica 16 novembre 2025

The Running Man

Edgar Wright

Diversi anni fa, Stephen King pubblicò alcuni romanzi sotto lo pseudonimo Richard Bachman; i migliori sono La lunga marcia (The Long Walk) e L’uomo in fuga (The Running Man). Quest’ultimo è poi diventato un film, L’implacabile, con Arnold Schwarzenegger; ora torna sugli schermi come The Running Man, diretto da Edgar Wright e ben interpretato da Glen Powell, più fedele dell’altro al romanzo originale.
Siamo in un futuro distopico, nel quale la tv organizza un gioco mortale: sotto l’occhio voyeuristico delle telecamere, un concorrente per soldi deve sfuggire, per un dato periodo di tempo, a dei Cacciatori legalmente autorizzati a ucciderlo, mentre il pubblico televisivo fa il tifo per l’uno o gli altri. Come si vede, siamo solo un passo oltre rispetto alle varie Temptation Islands dell’oscenità televisiva di oggi. Va detto che il romanzo di King è largamente debitore (eufemismo!) a un paio di profetici racconti di Robert Sheckley (La settima vittima, da cui un film di Elio Petri, e Sprezzo del pericolo) risalenti addirittura agli anni Cinquanta. Sheckley era un autore satirico di tutto rispetto, finché non cadde in preda alla tentazione arty di molta fantascienza del periodo seguente.
Partecipa al gioco per povertà e disperazione il padre di famiglia, con figlioletta malata, Ben Richards (Glen Powell), spinto e incoraggiato da due figure che più odiose non si può, il produttore Dan Killian (Josh Brolin) e il presentatore Bobby Thompson (Colman Domingo). Ma che il network giochi sporco non è una sorpresa – se non per il running man. Edgar Wright, anche co-sceneggiatore, regola i conti con la televisione, non solo esponendo il modo in cui fabbrica una falsa realtà ma anche divertendosi a parodiare en passant la soap opera.
L’inglese Wright è un regista che si distingue per un approccio vivace, diretto, quasi brutale, ma con un grano di follia (Hot Fuzz, Scott Pilgrim vs. the World, The World’s End, Ultima notte a Soho) che può trasformarsi in bizzarro umorismo anarchico – anche al di là di una comedy quale L’alba dei morti dementi. Ve n’è un esempio anche nel presente film, con una casa piena di sorprese e di trappole, come in un Buster Keaton perverso. Lo stile moderno di Wright si vede bene nel modo in cui visualizza i pensieri (nella trattativa con Killian, vediamo dapprima come realtà la tentazione di Ben Richards di sfasciargli la testa sul tavolo), anche incrociandoli abilmente col racconto (il riconoscimento di un Cacciatore sotto le spoglie di un falso barbone matto).
Il film mette in scena un’America futura in confronto alla quale Blade Runner sembra Honolulu. Autore molto portato agli inseguimenti e all’azione (si pensi a Baby Driver – Il genio della fuga), Wright conduce il racconto con tutta la tensione del caso; ma l’aspetto avventuroso sul fuggitivo spietatamente inseguito non gli fa mai dimenticare una carica di protesta sociale.
Nonostante il tentativo del network di presentarlo come un farabutto, Ben Richards diventa un eroe per gli emarginati. E il film – attenzione, spoiler! – mette in scena addirittura una rivoluzione, sebbene sul piano personale il lieto fine sia chiaramente appiccicato.
Curiosità: Edgar Wright esordì in Italia a Udine, accompagnando il suo primo film, il super-indipendente A Fistful of Fingers, alla rassegna “Eurowestern" nel 1997. Da allora, ne ha fatta di strada.

giovedì 13 novembre 2025

The Mastermind

Kelly Reichardt 

Mille anni fa, Jean-Luc Godard buttava bombe narrative sotto il polar (piani di rapine e gangster in fuga) soffermandosi sui tempi intermedi mentre i momenti forti dell’azione erano o elisi o parodiati. Ce lo fa tornare in mente (in tutt’altro clima culturale, naturalmente, e non parliamo neanche di analogie di grandezza) l’interessante film di Kelly Reichardt The Mastermind. “Mastermind” è in inglese il cervello dietro un crimine; ma qui di cervello ce n’è poco. Siamo all’inizio degli anni Settanta. Un imbecille, James Mooney (Josh O’Connor), sposato con due figli, in passato (apprendiamo) studente d’arte fallito, decide di rubare in pieno giorno nel museo della cittadina quattro quadri di un maestro contemporaneo. Non sembra così difficile perché la sicurezza (con un guardiano sempre addormentato) è a livello Louvre. James arruola due balordi (uno è una sostituzione dell’ultimo momento) per fare materialmente il colpo e consegnargli le tele.
Ovviamente tutto comincia ad andare a rotoli fin dal giorno dopo – e qui entra il nostro discorso. La tragicomica sequenza del furto, che in un normale heist movie sarebbe centrale, qui è (come si direbbe in arte: siamo in argomento) risolta in una serie di schizzi. Invece più tardi, quando James deve nascondere il bottino al piano superiore di un granaio, l’operazione… togliere i quadri dalla cassa, portarli su a due a due per una scala a pioli, poi portare su la cassa, rimetterci dentro le tele, infine risolvere il problema della scala che è caduta… è seguita in un tempo reale, immediato, che fa contare ogni secondo (al cinema, si sa, il tempo reale significa un tempo dilatato). Beninteso, non è certo la prima volta che un film si concentra sul tempo reale, il tempo quotidiano, l’immediatezza assoluta e via dicendo. Ma è molto più raro che ciò accada all’interno di uno svolgimento legato al cinema di genere.
Una fenomenologia dell’immediato immediato si incrocia nella seconda parte con lo sviluppo narrativo di James in fuga, dopo che tutto il piano è collassato – mantenendo quella stupidità assolutamente irriflessiva che si potrebbe considerare un frutto maligno dell’epoca, ma che poi è andata anche peggio. Respinto da due vecchi amici, James si aggira senza sapere che fare in quella specie di deserto sociale che è la sterminata solitudine americana. Kelly Reichardt si attiene all’immediato, non ne fa una metafora politica e nemmeno un’elegia della solitudine – sebbene la dimensione politica sia indubbiamente presente (sono gli anni della guerra del Vietnam) e inneschi la feroce beffa del destino che conclude la fuga.
Josh O’Connor è assai bravo ma in particolare colpisce, fra le molte buone interpretazioni, Alana Haim nel ruolo della moglie delusa Terri, che non sapeva niente del crimine. Sotto una maschera di impassibilità ha, davanti all’incoscienza assoluta del marito, delle espressioni di furiosa e trattenuta disperazione davvero memorabili.

domenica 9 novembre 2025

Un semplice incidente

Jafar Panahi

Il grande regista iraniano Jafar Panahi fa un cinema eminentemente morale – che non significa “cinema col messaggio”, come molti credono specialmente in Italia, bensì cinema che ti mette prepotentemente di fronte a un problema morale. In Un semplice incidente – film potente, che ha vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes 2025 – Panahi pone un problema morale che si squaderna e si moltiplica (è una spiacevole caratteristica della morale, questa. Non ama le linee facili).
All’inizio, un uomo accigliato in auto con la figlioletta e la moglie incinta investe un cane, con disperazione della bambina. «Quello che deve succedere succede; c’è sicuramente un motivo per cui Dio lo ha messo sul nostro cammino», commenta con rassegnato fatalismo la moglie. È più vero di quanto pensino! La macchina ha un guasto; in officina il meccanico Vahid riconosce dalla voce dell’uomo, che zoppica, e dal cigolio della sua protesi, Eghbal detto “Gambalesta”, il seviziatore zoppo che ha torturato lui e altri sventurati, bendati, nelle carceri dell’infame regime iraniano. Là i torturatori violentano le ragazze perché, in base alle loro credenze primitive, se muoiono vergini vanno in paradiso, mentre loro vogliono condannarle all’inferno.
Scoperto dove abita, lo rapisce e scava una buca nel deserto per seppellirlo vivo. Ma ecco il dubbio: quell’uomo legato e bendato, che protesta disperatamente la sua innocenza, è proprio Eghbal? L’onesto Vahid non vuole ucciderlo se non è sicuro. Così raduna un gruppo di persone che sono state torturate per una sorta di grottesco consulto (non per nulla nel film viene menzionato en passant Beckett) all’interno del furgone dove giace narcotizzato il possibile torturatore. Nella suspense continua, che non sarebbe esagerato definire da thriller, c’è un momento di terribile umorismo dell’assurdo quando il furgone finisce la benzina e il gruppo deve scendere per spingere, compresa la ragazza in abito da sposa.
Il primo problema morale di Un semplice incidente è lo stesso di un film (minore) di Roman Polanski, La morte e la fanciulla: il rischio di colpire un innocente per uno scambio di persona. S’incrocia con quello, posto da alcuni degli ex torturati, della liceità etica di uccidere così. Un altro problema aggiuntivo riguarda la famiglia del colpevole. La narrazione di Panahi intreccia l’analisi dei caratteri (con magnifici attori), il dibattito morale e naturalmente l’ansietà materiale per il crimine che stanno compiendo, in questo paese dittatoriale ma, come vediamo, basato sulla corruzione – e così costruisce nel film una tensione addirittura dolorosa. Jafar Panahi qui non è metacinematografico come in altri casi (Taxi Teheran, Tre volti, Gli orsi non esistono) ma semplice e diretto come una lama nella carne.


sabato 8 novembre 2025

Dracula - L'amore perduto

Luc Besson  

È una vera doccia scozzese Dracula – L’amore perduto di Luc Besson, fra cadute imbarazzanti e aspetti riusciti (meno). Il motivo: incerto su quale direzione prendere, Besson (anche sceneggiatore) le sceglie tutte.
Già all’inizio lascia piuttosto perplessi la stupidità dei dialoghi relativi alla guerra contro i turchi, fra il pacifismo idiota di Elisabetta (“È necessaria questa guerra?”) e il discorso di Vlad al vescovo quando pretende da Dio che la guerra risparmi sua moglie – risciacquatura di piatti eccessiva anche per il XXI secolo, non diciamo neppure il XV. Ma si capisce tutto dall’armatura che i suoi uomini fanno indossare a Vlad: il film si ispira direttamente a Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola: Dracula rinnega Dio perché avergli tolto l’amata moglie Elisabetta e si strugge nei secoli cercando la sua reincarnazione, finché non la ritrova nell’Ottocento in Mina. Niente di male in questa derivazione (il film di Coppola è una pietra miliare), ma Besson vi aggiunge una strana ingenuità: un conto è rifare la storia, un conto – a mo’ di pudibonda ammissione? – copiare dei particolari e delle inquadrature di Coppola, in modo pedissequo quanto goffo (basta pensare alla scena della ribellione contro Dio o all’acconciatura con cui Dracula vecchio appare a Jonathan Harker); il che non solo è inutile ma danneggia il film.
Nella scena della battaglia contro i turchi, non si capisce perché Besson stacchi subito, visto che la descrizione degli scontri è la sua specialità (e infatti è efficace l’apparizione dei soldati sul crinale con le teste tagliate sulle lance). Muore Elisabetta, e Dracula uccide il vescovo e rifiuta Dio, con un super-coppolismo (quando alza le mani urlando a fine scena) da far pensare a un madonnaro che riproduce un quadro famoso coi gessetti. Stacco a quattrocento anni dopo, in una Parigi che si prepara a festeggiare il centenario della rivoluzione.
In questa sagra della cattiva recitazione, a partire dal protagonista, tengono su il film Christoph Waltz (non sorprende!) come prete vampirologo e la nostra Matilda De Angelis, spiritosa nel ruolo di un’allegra vampira. Quello che c’è di buono nel film di Besson è un certo gusto dell’ironia e del grottesco: vedi i gargoyle disneyani di servizio nel castello di Dracula, o la scena di Dracula nel convento con le suore possedute, a metà strada fra Ken Russell e il recente (mediocre) Dracula televisivo della BBC, o quella dell’eliminazione della donna vampiro. Nella stessa vena ironica, il dialogo contiene delle battute riuscite. Il medico sul ragazzo vampirizzato: “Stavo pensando di fargli una trasfusione” – Christoph Waltz con cortese freddezza: “Sono certo che la gradirebbe”. Quando scoprono alla fine la tomba di Dracula: “Una bara? Non ci dormirei mai” – Waltz: “Lo faremo tutti un giorno”.
Nel lungo flashback sulla vita di Dracula prima di ritrovare Elisabetta/Mina, raccontata a Jonathan Harker prigioniero, una svolta forse un po’ ingenua ma almeno originale è quella dell’invenzione del profumo, dove l’aspetto più notevole è che diventa un balletto! Peccato che, incrinando l’unità, resti un unicum nel film (e ci fa capire con improvvisa e assoluta evidenza che questo Dracula sarebbe stato più felice se fosse stato un musical).
Il finale è alquanto over-spoken – sarebbe irrispettoso ma non oltraggiosamente sbagliato dire che il prete sconfigge Dracula a forza di chiacchiere – ma almeno fornisce un’adeguata dose di romanticismo. Qui però bisogna dire chiaramente che Besson non raggiunge mai l’alto e dolente romanticismo del Dracula di Coppola.
In conclusione: ci sono stati vari Dracula (intendo quelli tratti dal romanzo) memorabili nella storia del cinema, ma il presente film si inserisce nella serie dei tentativi poco riusciti. Provaci ancora, Drac.

venerdì 31 ottobre 2025

Bugonia

Yorgos Lanthimos

Necessariamente, volendo seguire le premesse di Bugonia, il commento di questa superba satira andrà diviso in due parti. Ne approfitto per avvertire chi legge che la presente recensione non si preoccupa degli spoiler e rivela senza patemi d’animo il rovesciamento alla Swift della parte finale (un trick, peraltro, piuttosto prevedibile come possibilità narrativa, benché splendidamente gestito; e del resto, il film è il remake, su sceneggiatura di Will Tracy, di un film coreano abbastanza noto, Save the Green Planet!, scritto e diretto da Jang Joon-hwan).

Il linguaggio come produttore di senso, e quindi come costruzione del mondo, è uno dei temi principali di Yorgos Lanthimos, accanto al dominio, alla prigionia, al corpo fisico e le sue modificazioni. Anche il suo film più famoso, Povere creature!, è una versione geniale della storia di Frankenstein che risale al nocciolo del mito, ossia la formazione della coscienza di una creatura artificiale attraverso il linguaggio (un aspetto sempre messo in ombra nel cinema dal tema della mostruosità). Ancora di più ciò si può dire per Dogtooth – ed è interessante che anche questo film sia un remake, un’abile riscrittura di El castillo de la pureza di Arturo Ripstein.
Bugonia è una dimostrazione di come sia il linguaggio a costruire la “verità”: di qui tutte le paranoie complottiste. Il complottismo è una sorta di istituzione totale linguistica: è il trionfo di un mondo auto-costruito e auto-regolantesi, che recupera e ingloba nel proprio sistema qualsiasi dato di possibile opposizione. Come recita la storiella: “Gli elefanti della Francia sono bravissimi a mimetizzarsi” – “Ma non ci sono elefanti in Francia!” – “Lo vedi come sono bravi?”
Nel film, l’apicultore paranoico Ted (Jesse Plemons), che ha plagiato il cugino scemo Don (Aidan Delbis), è convinto che la ricca e potente CEO di una grande compagnia farmaceutica, Michelle Fuller (una monumentale Emma Stone), sia una aliena di alto rango inviata dall’Imperatore di Andromeda e capintesta di un’invasione che ha schiavizzato, e forse vuole distruggere, la razza umana – e che fra l’altro è colpevole della moria delle api. Infatti questi insetti fondamentali nell’ecosistema soffrono di una sindrome chiamata SSA (sindrome di spopolamento degli alveari), CCD in inglese, che ne sta drammaticamente riducendo la popolazione.
Nella splendida descrizione della paranoia complottista di Bugonia (è il miracolo del film di offrire un’illustrazione da manuale del sistema psicotico prima del sarcastico rovesciamento) è centrale il dettaglio dell’anti-sessualità. Già in apertura parlando dell’impollinazione tramite le api Ted dice “È come il sesso ma è più pulito. Nessuno si fa male”); in seguito lui e il (riluttante) cugino si castrano chimicamente con un’iniezione per “non sentire pulsioni e liberare la mente”. “Una volta uccisi i desideri, cosa che io ho fatto, il padrone di te stesso sarai tu”. Non ci pensiamo spesso ma le varie forme di cultismo complottista (compresa la deriva estremista del MeToo) si basano, esattamente al pari del fascismo con cui molto condividono, su un atteggiamento di difesa aggressiva nei riguardi della sessualità. Lanthimos, sempre molto attento ai meccanismi psicologici, non trascura il dettaglio.
Il film comprende un sguardo sarcastico anche sull’altra parte: il super-sfruttamento – stile Amazon – degli operai della compagnia di Michelle (dove al livello più basso lavora Ted) si accompagna a un linguaggio orwelliano “socialmente conscio”: un’“altra cultura” organizzativa per cui lei ripete ai colletti bianchi “Sentiti libero di andare a casa se non sei impegnato”. Ted ha anche un conto personale con Michelle: sua madre è in coma dopo un esperimento fallito condotto dalla sua compagnia.
I due rapiscono Michelle, la rapano a zero (perché i capelli, dice Fred, con gli alieni funzionano come un GPS) e la tengono prigioniera incatenata nella cantina della loro vecchia casa isolata. La tormentano fino alla tortura fisica per farle confessare la “verità” e convincerla a organizzare un incontro con l’Imperatore di Andromeda per “trattare la pace”. Va da sé che qualsiasi cosa possa dire Michelle per difendersi verrà interpretata come menzogna (perfino quando, nella disperazione, ammette di essere un’aliena!). Altra ossessione di Lanthimos: la prigionia, in senso psicologico: quello fra Ted e Michelle è un perverso gioco di dominio mentale, in un rapporto quanto mai inquietante, con punte volutamente estreme; la posta in gioco è l’influenza, chi dominerà chi. La serie di contorcimenti dialettici di questa partita, in un’eccezionale raccolta di doppi sensi stratificati, è macabra e affascinante. Al fondo, ma è un argomento troppo complesso per svilupparlo qui, il film è una dimostrazione in vitro dell’impossibilita della democrazia.

Poi arriva il rovesciamento: nella sua ultima parte con un’audacia geniale – che però si deve a Save the Green Planet! – il film procede a smantellare il proprio impianto narrativo e ridefinirlo interamente in senso apertamente sarcastico e distruttivo: non per niente menzionavo sopra Jonathan Swift. A sorpresa scopriamo che il pazzo era nel giusto. Ogni particolare del suo delirio, anche quelli minimi, si rivela essere la realtà.
Si potrebbe pensare che il passaggio da un universo concettuale/narrativo realistico a un altro fantastico crei uno iato nel film minandone l’unità. Il rischio c’è, ma non accade: perché il secondo è il rovesciamento speculare del primo, e quindi già implicito, e alluso, nello svolgimento, seppure in negativo; e perché comunque Bugonia contiene in sé quell’elemento di “realismo irreale” ch’è proprio di Lanthimos – e vedi Kinds of Kindness per esempio.
Tuttavia Ted, l’aspirante ambasciatore della razza umana presso gli Andromedani (destinato a una morte ridicola), ha capito tutto alla rovescia. Gli Andromedani non sono sulla Terra per invaderla ma per salvarla – ma con un piccolo problema per quel che ci riguarda. Un lunghissimo spiegone (ironico) che mescola in un solo costrutto tutte le ubbie della visione paranoica del mondo, da Atlantide in poi, ci dà la “vera versione” della storia dell’umanità: deriviamo da progetti genetici sciagurati e portiamo dentro di noi un elemento distruttivo. “Io stessa sono diventata più umana… più egoista e crudele”, dice l’Imperatrice sulla sua vita fra di noi.
A proposito di crudeltà, si scopre che Ted è un serial killer che rapiva, torturava e faceva a pezzi dei malcapitati per fargli confessare di essere Andromedani, e ne teneva delle parti in alcool come campioni “scientifici” (ecco una possibile origine del nome: è lecito pensare che si alluda al famoso serial killer Ted Bundy). Solo due dei rapiti erano effettivamente Andromedani, confessa Ted a Michelle. Chiaro che – nella logica illogica della folle parte finale – è a questi che Ted ha strappato i segreti più straordinari, ma veri nella diegesi, come quello sui capelli-GPS, o la descrizione esatta della nave spaziale Andromedana, che vediamo nel finale corrispondere esattamente a un suo disegno.
La sorpresa avvolta entro la sorpresa è, come accennavo, che quella degli Andromedani è una missione volta alla salvezza del pianeta; i loro esperimenti, compresi quelli sulla madre di Ted, erano indirizzati ad eliminare le tendenza distruttiva degli umani. Purtroppo hanno dato tutti esito negativo. Gli esseri umani, sentiamo, hanno messo in pericolo le vite che condividono. “Perciò crediamo che… il loro tempo finirà”. L’Imperatrice – con le lacrime agli occhi: aveva ben detto prima di essere diventata un po’ umana – aziona il meccanismo dello sterminio.
Se all’inizio, nella visione del mondo di Ted, il film sembrava una versione perversa de L’invasione degli ultracorpi (o della miniserie televisiva V), e più tardi, nel breve momento di relativa verità fra lui e Michelle, di Ultimatum alla Terra, sul finale si stende l’ombra di Stanley Kubrick, che è uno dei punti di riferimento di Lanthimos, con Il dottor Stranamore. La fine del mondo sulle note di una dolce canzone – ricontestualizzata. Su Where have all the flowers gone, cantata da Marlene Dietrich, vediamo tutti gli esseri umani ridotti d’un colpo a cadaveri: un Trionfo della Morte bruegeliano che indica ironicamente la vanità di tutto ciò che noi abbiamo ritenuto importante, uccidere per nutrirci, insegnare ai cuccioli, onorare i morti, pregare le divinità, ingegnarsi di salvare i malati… Vediamo una sala parto dove non nascerà nessuno, vediamo i nastri trasportatori vuoti dove lavorava Ted, vediamo un’inquadratura vuota della casa di lui e Don – e vediamo le api che impollinano i fiori.
Sul “nero” dei credits sentiamo i suoni della natura che rinasce, quello degli insetti e degli uccelli, quello dei tuoni e della pioggia. Il mondo continua – senza di noi. 

domenica 26 ottobre 2025

La ragazza del coro

Urška Djukić

Discutere il titolo dato in Italia a un film straniero, per inventarne un altro, è l’operazione più oziosa che ci sia. Tuttavia non posso fare a meno di pensare che per La ragazza del coro (lo sloveno Little Trouble Girls di Urška Djukić) sarebbe stato più adatto “L’uva acerba”, dal sapore francese/truffautiano che si adatta bene alla storia. Perché al di là di un episodio che vediamo (uva acerba mangiata dalla protagonista come penitenza di un peccato), l’uva ancora acerba è proprio la metafora della sua prima adolescenza, con le sue incertezze e le sue paure, che è l’argomento del film. Infatti nella conclusione la protagonista Lucia, adolescente cresciuta a giovane donna confidente al posto della ragazzina di prima, compra al mercato e mangia con gusto un ricco grappolo d’uva matura, sulle note della canzone del titolo originale, mentre appaiono i titoli di coda.
La ragazza del coro è un Bildungsroman – a prima vista, del tutto realistico. Racconta l’avventura della sedicenne Lucia (Jara Sofija Ostan), che canta nel coro della chiesa cattolica, in un viaggio dalla Slovenia a Cividale del Friuli assieme alle compagne, (decisamente più scafate di lei), alloggiate in convento, per le prove di un concerto da tenersi là. A casa Lucia vive una normale vita familiare, con una madre autoritaria, che la critica per essersi messa il rossetto quasi per gioco fra le compagne, ed è rassegnata accanto al marito che quando non è al lavoro dorme sul divano. Guardano insieme la televisione (niente scene spinte però!) mangiando cioccolata.
A differenza delle compagne Lucia non ha ancora avuto la prima mestruazione. C’è nel film un continuo discorso sulla verginità; quando le ragazze arrivano a Cividale e appare il Ponte del Diavolo, sentiamo la storia leggendaria del sacrificio di una vergine per costruire il ponte; c’è un interessante colloquio delle ragazze con una suora su come si vive il “nubilato”. Soprattutto, v’è un collegamento soggettivo fra Lucia e con la Madonna – o, come si dice, la Vergine. Una scena mostra in rapido montaggio una serie di edicole (tempietti) dedicati alla Madonna. Più tardi, nel gioco notturno di “obbligo o verità”, Lucia riceve l’ordine di baciare appassionatamente la ragazza più bella del convento – dopo un bel momento di sospensione, va, seguita dalle altre, fino alla statua della Vergine nell’atrio e incolla le sue labbra a quelle di marmo.
L’arrivo a Cividale è anche marcato dall’improvvisa visione di un uomo nudo sul greto del Natisone. Come si vedrà, è uno degli operai che lavorano nel cortile del convento, e che le ragazze spiano e commentano, arrivando a rubare la maglietta dell’uomo per annusarla. Lucia sperimenta il suo risveglio della sessualità; che comprende desideri e paure, pulsioni e sensi di colpa. In questo turbamento (Lucia poi ha già di suo una tendenza a perdersi nei suoi pensieri), la sua partecipazione al coro va a rotoli.
Il montaggio veloce di una serie di inquadrature in dettaglio di fiori in piena apertura esalta la loro natura fastosa, sensuale, insolentemente erotica. Un’ape che si introduce in un fiore, nella bella fotografia di Lev Predan Kowarski, non solo allude alla sessualità ma ci ricorda che basta il dettaglio molto ravvicinato, l’ingrandimento, per rendere fantastica la realtà. Infatti: all’interno di una narrazione apparentemente realista (almeno sino al finale) emergono nascostamente dei tratti, degli squarci, dei palpiti, che aprono nascostamente un’altra realtà; il film possiede il dono di un suo implicito surrealismo (che storicamente è molto presente nel cinema est-europeo) nel trattare la sessualità nascente, la passione, la paura. Tanto che risale alla memoria un film cecoslovacco di Jaromir Jireš, che non era un regista surrealista ma in quel caso, 1970, sì: Valerie a týden divú (Valerie and Her Week of Wonders), che è molto diverso, eppure sembra un parallelo (interamente onirico) di questo film.
La rottura della mano della statua della Madonna in atrio, che – sappiamo – è stata rotta dagli operai, in un’allucinazione, è causata da Lucia; non sarebbe sbagliato collegarlo con la scena (pudica come tutto il film) della masturbazione. È da notare che l’amica Ana-Maria non rappresenta soltanto un’irridente ateismo favorevole alla sessualità senza pensieri (“Siamo animali”): figura di tentatrice, eppure desiderata, Ana-Maria è più volte connotata da inquadratura e illuminazione sotto il segno del demoniaco.
L’ardire di Lucia da sola di spiare (e fotografare) l’operaio nudo sul greto del fiume porta a un loro incontro muto da vicino: che a prima vista sembra un difetto del film, uno sviluppo alla David Herbert Lawrence che si oppone alla sua atmosfera di leggerezza delle sensazioni; ma non lo è, se nell’interminabile inquadratura che li vede insieme, di profilo in silenzio, prima che Lucia fugga, riconosciamo il motivo classico dell’incontro col fauno.
Non sappiamo come sia proseguita la vita di Lucia, né la sua partecipazione al coro. Ma certo l’immagine della ragazza che vediamo alla fine del film ci dice, in un modo che potremmo definire trionfale, che l’uva è non è più acerba.