martedì 20 novembre 2018

Animali fantastici - I crimini di Grindelwald

David Yates


Tutto è cominciato nel lontano 1997 con La pietra filosofale – e poi quello di Harry Potter, dilatandosi a proporzioni mostruose, è diventato un Potterverse. Ma non è questo il segno del successo nella fiction contemporanea? Una storia diviene un universo in espansione tramite continui ampliamenti attraverso le storie laterali e quelle di prequel (talvolta anche attraverso la fanfiction, come in Star Wars). Nel cinema, si perde il suo carattere conchiuso per omologarsi alle serie televisive. Nel fumetto italiano, anche il roccioso Tex Willer si è arreso, mandando in edicola proprio in questi giorni una serie parallela sulle avventure di Tex da giovane (un lontano antenato di questo concetto si trovava nei fumetti di Superman). Niente di nuovo sotto il sole, naturalmente. Pensiamo alla letteratura ottocentesca di Balzac, che riempie tasselli ed “espande” personaggi nelle varie opere; o, su un piano più popolare e basato su un'arte sopraffina della ripetizione, al novecentesco Wodehouse. Così uno è costretto sempre più a ricorrere a veri e propri dizionari biografici online – ottimo, per il nostro argomento, Harry Potter Wiki.
Ora nuove linee narrative e nuovi sviluppi del Potterverse arrivano en masse dalla serie Animali fantastici, di cui è appena uscito il secondo episodio, Animali fantastici – I crimini di Grindelwald, come il precedente sceneggiato da J.K. Rowling e diretto da David Yates. Conviene dire subito che è un piacere vederlo, e il suo successo lo testimonia, ma è inferiore al precedente Animali fantastici e dove trovarli. Riferendoci alle aggiunte recenti alla saga, non ha la drammatica potenza di Harry Potter e i doni della Morte né l'elegante fantasia del testo teatrale Harry Potter e la maledizione dell'erede. Secondo di una progettata serie, Animali fantastici – I crimini di Grindelwald è un film di transizione, che elabora una pluralità di avvenimenti e peripezie personali (con ben tre storie d'amore intrecciate in aggiunta allo sviluppo di “politica magica”) allo scopo di preparare il terreno per lo scontro futuro. Certo, quanto a trama intricata anche il film precedente  non era uno scherzo; ma questo lo supera. Spero che non venga considerata lesa maestà se affaccio l'ipotesi che la geniale J.K. Rowling ragiona ancora più da romanziera che da sceneggiatrice cinematografica.
La regia di Yates è efficiente come sempre, ed è servita da buone interpretazioni. Contrariamente al titolo della serie, nel presente film gli animali fantastici sono un po' played down, anche se il nuovo arrivato, lo Zouwu, leone-drago cinese, è impressivo, e il più simpatico di tutti, lo snaso, ha un ruolo piccolo ma importante nel finale. Questo è il film di Newt Scamander (Eddie Redmayne) ma più come persona che come magizoologo. Siamo nel 1927 e Scamander è sempre nei guai per il suo carattere ribelle non in sintonia con gli agenti del Ministero della Magia, che mostrano una durezza ai limiti della spietatezza: si mantiene la visione critica verso il potere costituito che caratterizzava gli ultimi Harry Potter. Tuttavia il nemico è anche peggio: come in quei film il mago avversario, che ora è Grindelwald, ha delle evidenti caratteristiche nazisteggianti. Basta vedere qui l'abbigliamento di un membro del servizio d'ordine di Grindelwald nella scena della riunione dei maghi purosangue: non sarebbe stato fuor di posto in una certa birreria di Monaco. Va detto che a Grindelwald (Johnny Depp) manca la potenza demoniaca di Voldemort, l'Oscuro Signore. Peraltro, mentre Voldemort era ictu oculi uno psicopatico pieno di sé, Grindelwald è un demagogo, un abile manipolatore, e quindi, se vogliamo, ancora più pericoloso.
Più ancora di Johnny Depp colpisce però nel film Jude Law nella parte di un Albus Silente più giovane. Possiede la calma autorevolezza, l'umanità non priva di umorismo e anche i tratti fisionomici che ci permettono di connetterlo senza sforzo al Silente vecchio (Richard Harris, Michael Gambon) che conoscevamo nella serie principale. I film di Harry Potter hanno sempre avuto un punto di forza nel casting anche dal semplice punto di vista della logica delle somiglianze.
Oltre che, non occorre dirlo, nelle scenografie. La serie Animali fantastici sembra intenzionata a esibire un bondiano “gusto turistico”... non sarà sfuggito ai potteriani accaniti l'elenco dei vari termini per dire “babbani”, di cui uno sembra aprire all'Italia... e nel presente film troviamo delle bellissime visuali con dettagli assai pittoreschi, come la cripta della famiglia Lestrange al Père-Lachaise oppure la statua animata che cela l'ingresso all'equivalente parigino di Diagon Alley, la via dei maghi (e sarebbe interessante sapere come si chiama).
Soprattutto, rivediamo la vecchia Hogwarts. Siamo cresciuti tutti con Hogwarts (alcuni crescendo materialmente di film in film; altri, già adulti, semplicemente vivendo interiormente questa crescita); quel tuffo al cuore quando la rivediamo è indicativo di come questa lunga saga e questo luogo magico abbiano segnato il nostro animo. Come se l'avessimo frequentato nella realtà, la gioia quando appare sullo schermo è veramente come tornare a casa.

lunedì 19 novembre 2018

The Ballad of Buster Scruggs

Joel & Ethan Coen


E così anche i fratelli Coen hanno saltato lo schermo e sono approdati direttamente su Netflix, dov'è appena uscito The Ballad of Buster Scruggs, dopo un passaggio alla Mostra di Venezia. Questo western a episodi porta sullo schermo alcune storie scritte dai Coen nell'arco di 25 anni. Giustamente trattandosi di una serie di racconti, i Coen recuperano la forma “preistorica” dell'apertura di un libro con illustrazione a colori, che introduce ogni episodio. Come sempre il loro cinema altamente stilizzato riprende e trasfigura materiale (topoi) preesistente.
Il concetto base dei fratelli Coen, con il loro feroce senso dell'umorismo, si potrebbe concretizzare nell'ossimoro “allegria tragica”. The Ballad of Buster Scruggs non apparterrà alla lista dei capolavori assoluti dei fratelli Coen – ma è una delizia totale. In tutto il loro cinema i Coen hanno bordeggiato sui confini del western (non c'è solo Il Grinta; pensiamo a Non è un paese per vecchi). Il grande tema del loro cinema, che è il non-senso del mondo, il quale trova un punto fermo solo nella morte, si lega molto bene all'universo del West inteso come un mondo magmatico, in formazione. Il West come metafora dell'assurdità dell'esistenza. E in tutti questi episodi la morte e il dolore entrano come un lampo improvviso, intrinsecamente assurdo, quasi un'ingiustizia; ma non c'è giustizia nel cinema dei Coen, come scoprono i suoi personaggi, per esempio il Serious Man dell'omonimo capolavoro. La cosa più importante è che la forma a episodi permette ai Coen non solo di declinare le varie sfumature del loro cinema in una serie di sfaccettature ma anche di sperimentare: l'episodio della carovana ha un inedito respiro hawksiano che non conoscevamo nei due.
Il primo episodio, che dà il titolo al film, ci riporta i fratelli Coen più sfrenati, con un memorabile personaggio di cowboy canterino alla Gene Autry, completo di costume bianco e chitarra (i Coen non rinunciano a una delle loro inquadrature impossibili: da dentro la cassa della chitarra). Classico personaggio interpellatore coeniano, parla agli spettatori lamentandosi con gli spettatori che l'avviso di taglia sulla sua testa lo definisca “misantropo”. Si ricorderà peraltro che un cowboy canterino compariva già nel precedente Ave, Cesare! Non manca il tradizionale sadismo buffonesco coeniano nella scena del duello. E poi – senza fare spoiler – un episodio già folle di suo si allarga in follia metafisica. Questo primo episodio ci ricorda come i Coen amino la forma della parodia; ma in generale per i due fratelli la vita è una parodia in sé.
Il secondo episodio, Near Algodones, pur essendo assai divertente è un nerissimo apologo sull'assurdità che trova nella sua conclusione – una vera gemma del film – uno dei finali più tragici e tuttavia logici di tutto il cinema coeniano. Vien da dire che solo Samuel Fuller al suo meglio sarebbe stato capace di fare altrettanto.
Il terzo, Meal Ticket, è strabiliante e introduce un cambio di atmosfera del film, abbandonando la sua relativa levità. Con quest'episodio i Coen realizzano il loro personale Freaks, non meno doloroso del capolavoro di Browning, su un impresario che gira i luoghi più infimi del West esibendo un giovane privo di braccia e gambe, grottesca bambola umana, che però è un attore meraviglioso, e incanta (o dovrebbe) gli spettatori dei desolati villaggi recitando una compilation di brani che vanno da Shakespeare al discorso di Gettysburg di Lincoln. Va detto per inciso che in un film inzeppato di star (Tim Blake Nelson, James Franco, Liam Neeson, Tom Waits, Zoe Kazan, Brendan Gleeson eccetera) il più stupefacente è Harry Melling, che interpreta quest'attore. A proposito... Harry Melling, chi era costui? Noi lo abbiamo conosciuto, più giovane e completamente diverso, come il cugino Dudley dei film di Harry Potter! E' con questo film che scopriamo non un onesto caratterista ma un attore mirabile.
Il quarto episodio, All Gold Canyon, è bucolico. Si apre in una valle, su un mondo incontaminato (il corvo, il gufo, le farfalle, i pesciolini) come quello che apparve ai primi pionieri americani, e lì colpì talmente che ancor oggi risuona come un'eco nella cultura americana. Qui appare un cercatore d'oro, cantando una canzone popolare che spaventa un cervo. Il film dipinge nella ricerca e nello scavo del filone la materialità del lavoro (anche questo è un elemento ritornante nel cinema dei Coen, sebbene di solito in senso macabro, oppure comico: Burn After Reading). Però anche qui entra a sorpresa la violenza. La conclusione, dopo la partenza del cercatore, riprende esattamente le immagini di natura con cui l'episodio, come un ritorno allo stato precedente. Ma l'immagine del cervo che fiuta la fossa ci avverte: la natura non è tornata incontaminata: se pure esiste un'innocenza primigenia, questa può essere solo prima della contaminazione della presenza dell'uomo.
The Gal Who Got Rattled è il grande e disteso episodio, dal finale tragico, sulla carovana, rispetto al quale parlavo sopra di respiro hawksiano. Le scene riportano perfettamente la grande dimensione narrativa del western, anche dal punto di vista pittorico e visuale. C'è qualcosa di John Ford o Allan Dwan nel suo pudico corteggiamento; ma è tutto Howard Hawks il suo interesse per la professionalità e la dimensione umana del lavoro, per i tocchi di umorismo al suo interno (poiché lo humour hawksiano è diverso dallo humour fordiano; e qui siamo nel campo del secondo), ed anche per il suo carattere impietoso. Possiamo aggiungere che nella coppia di guide della carovana ritroviamo non solo il concetto western di gentiluomo ma anche due incarnazioni di quei “giusti” che fanno capolino sovente nel cinema coeniano, come a equilibrare moralmente la prevalenza del male..
Della storia finale, The Mortal Remains, non si potrebbe assolutamente parlare senza rovinarne la visione agli spettatori; e basterà dire che, pur essendone affatto lontana sul piano narrativo, ricorda molto da vicino il racconto che apriva A Serious Man, quindi in una concezione “todoroviana” del fantastico basato sull'ambiguità. Così con esso la tavolozza coeniana è completa.

lunedì 12 novembre 2018

Menocchio

Alberto Fasulo


Il cinema sull'Inquisizione e le sue vittime, che già aveva un esempio italiano alto in Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti, si arricchisce di un apporto notevole con Menocchio di Alberto Fasulo. E' quel Menocchio mugnaio eretico del Cinquecento la cui storia è narrata ne Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg; anche se il film non si riferisce direttamente al libro, supportandosi piuttosto sugli studi di Andrea Del Col.
Nella prima immagine Menocchio (l'eccellente non professionista Alberto Martini) entra dal buio avanzando quasi teatralmente fino al primissimo piano. Non è solo l'affacciarsi alla ribalta del racconto; di più, è l'emergere dal grumo di oscurità che avvolge il personaggio nella sua essenza – un rappresentante delle classi inferiori in un mondo agricolo, storicamente mute (i senzastoria, per dirla con Tito Maniacco), che si prende il diritto non solo di parlare ma di ragionare di quelle cose che l'egemonia della Chiesa arroga a sé. Infatti – e questo è un tratto perfettamente centrato nel film – gli inquisitori ancor più che di sanzionare l'eresia di Menocchio si preoccupano di individuare la fonte del “contagio” (“Chi ti ha detto queste cose?”) quasi ribellandosi all'idea che l'umile mugnaio possa averla elaborata da solo. E' per mantenere la nozione di questa distanza che il film non menziona i libri da cui il Menocchio storico aveva tratto, interpretandoli a suo modo, le basi della sua nebulosa cosmogonia. Ed è, questo atteggiamento mentale degli inquisitori, imparentato con lo stesso sconcerto descritto da Ginzburg in un altro libro famoso, I benandanti, davanti a un fenomeno che non rientra nelle categorie della teologia cattolica e quindi ci verrà fatto rientrare a forza.
Il racconto poi si apre su una stalla, frazionata in dettagli: una donna che prega, uomini e animali, una vacca gravida di cui questo montaggio per dettagli ritaglia il ventre gonfio e gli occhi dolci. Ha un senso, quest'inizio, sul piano della storia. E' la concretezza contadina che sostanzia la visione del mondo di Menocchio; ma c'è di più: un uomo abituato a veder nascere bambini e animali come esperienza quotidiana è il meno propenso a credere alla verginità della Madonna ante partum, post partum et in partu secondo il dogma della Chiesa. “I miei figli li ho fatti nascere io... mia moglie non era vergine dopo”.
Le opinioni di Menocchio ci vengono riferite “come in uno specchio” attraverso il gioco delle domande degli inquisitori, le risposte di Menocchio alle contestazioni fattegli, le risposte impacciate e impaurite dei testimoni. Sfila davanti all'inquisitore un mondo di contadini reticenti. Rimane impressa la vulnerabilità della moglie di Menocchio, sulla quale l'inquisitore cerca di far leva con tecniche psicologiche consumate – che del nostro tempo, invertendo la filiazione, possono ricordare la Stasi e le altre inquisizioni comuniste. Nota che fra questi testimoni a rischio di divenire imputati c'è il parroco del paese. Qui viene appena adombrata, ma con intelligenza, una questione che tormentava la Chiesa, quella del clero di campagna e della sua formazione (è per questo che il Concilio di Trento impose l'istituzione obbligatoria dei seminari).
Il film giustamente insiste poco sulla cosmologia di Menocchio, una sorta di materialismo panteista (solo durante l'abiura finale sentiamo sentiamo l'espressione “a modo di formaggio” che richiama il testo di Ginzburg); mentre non manca di dar conto di come i suoi discorsi contengano un sottofondo di contrapposizione di classe (il dio della ricchezza e quello della povertà) che è proprio di molti movimenti ereticali.
Saggiamente il film non trasforma Menocchio in un santino illuminista ante litteram: il suo interesse è di metterne in risalto la carica di ribellione intellettuale e morale. Tutto questo è scritto nel suo viso barbuto, cupo, roccioso, che esprime una volontà indomabile. Nella scena finale in cui recita coram populo la sua abiura, Menocchio alza la voce quasi gridando quando elenca le proposizioni eretiche che deve condannare, come a riaffermarle.
Per questo Menocchio si trova contro contro un potere più grande di quanto lui stesso si immaginasse – un dominio sulle anime come sui corpi. In una scena vagamente brechtiana vediamo l'inizio della costruzione di una chiesa con i contadini che lavorano visti in opposizione al frate che, da mosca cocchiera, sbraita autoritarie esortazioni (alla fine dell'erezione della grande croce uno di loro commenta: “Adesso ha finito di gridare anche il prete”). C'è una bellissima pagina in cui Menocchio, portato al processo, è lasciato da solo in una stanza riccamente affrescata con immagini di vescovi e re. Sono la manifestazione visibile del potere, amplificato dalla meraviglia del mugnaio che vede qualcosa che non aveva mai visto prima. Il film inserisce una serie di primissimi piani dei personaggi affrescati che – come fosse un'interpellazione – guardano “in macchina” verso di lui in una logica di campo/controcampo.
Menocchio è un film della soggettività. Il cinema di Fasulo è sempre stato un cinema della concretezza, dell' immediatezza dell'esperienza – qui, per Menocchio, per gli altri personaggi, fra cui spicca la moglie, per gli stessi inquisitori. Il film si articola su due percorsi: da un lato quello degli inquisitori, preoccupati o scandalizzati di fronte a questo soggetto incognito; dall'altro quello di Menocchio, sempre meno in grado di difendersi e tuttavia ostinatamente ribelle, sempre più vicino al momento della scelta fra il rogo e l'abiura. E' a questo punto che entra il suo incubo, con suggestioni goyesche, in cui si vede messo al rogo da figure demoniache con le maschere dei Krampus che scandiscono in coro “Menocchio non parla più”. Una scena precedente, la macellazione della vacca, col muso insanguinato tirato su da Menocchio davanti alla propria faccia, gli offre ora il materiale inconscio per la maschera-teschio bovino nell'incubo.
Così Menocchio abiura – ma, così nella realtà storica come nel racconto del film attraverso le didascalie finali, dopo un periodo di imprigionamento, tornato al paese, continuerà a esprimere le sue idee, sicché anni dopo perirà sul rogo come eretico relapso.
Non dico niente di originale se dico che Menocchio è un film olmiano. La lezione di Ermanno Olmi è presente nella narrazione, che riesce a fondere la concretezza materiale con un elemento di astrazione; ed è presente nell'autenticità assoluta dei visi, così concreti e terragni, dai quali Fasulo fa emergere una forte verità. E anzi, una battuta di Menocchio su Dio che si nasconde per vergogna degli uomini richiama – non volutamente, penso, ma è un cortocircuito interessante – un passaggio di dialogo nel capolavoro di Olmi Torneranno i prati.
Allo scopo di garantire l'immedesimazione degli interpreti, il film è stato girato in sequenza cronologica, e Fasulo ha fatto recitare gli attori senza fornir loro in anticipo un copione dei dialoghi, in modo da portare allo scoperto le loro emozioni. Non manca l'uso del dialetto, friulano e veneto, in contrapposizione all'italiano (le esortazioni del figlio ad abiurare: “Salviti, parivif, parino pues vioditi murì cumò... no par man di lôr, dai predis”). Nella raffinata fotografia, dello stesso Fasulo, sono evidenti le suggestioni pittoriche: Rembrandt in questo buio d'inchiostro, tangibile, che avvolge Menocchio imprigionato; Caravaggio un certi tagli di luce, come una porta a sbarre illuminata da dietro; e naturalmente Goya, non solo nella scena dell'incubo. Potrebbe essere un caso, ma anche l'inquadratura di Menocchio nudo alla tortura ricorda con segno rovesciato il Colosso.
Il film è attento sul piano storico (notevole l'esplorazione della logica del carcere: la candela in cella a spese di Menocchio, l'elenco delle proibizioni che comprende sputare e tossire), ma intende essere universale; tanto che non stridono un paio di leggeri anacronismi linguistici (“ideologie” in senso moderno, “fulminanz”, ossia fiammiferi, l'improbabile uso colto dell'avverbio “ne” che sentiamo in bocca a uno dei testimoni all'inizio). Bisogna ricordare che Alberto Fasulo tende in tutto il suo cinema “antispettacolare” a raggiungere attraverso il realismo una sorta di dimensione atemporale, con l'esperienza umana al centro – e anche questo è un tratto olmiano.