venerdì 25 marzo 2022

The Adam Project

Shawn Levy

Se potessimo avere la macchina del tempo e andare nel passato a uccidere Hitler o “aggiustare” la storia qua e là… non sembra una buona idea? Ma basta rifletterci un attimo per capire che cambiare il futuro è un’operazione pericolosissima (morale: gli Hitler è meglio ucciderli nel loro tempo). Nel piacevole film fanta-avventuroso di Shawn Levy The Adam Project, il futuro è dominato dalla perfida industriale Maya Dorian (Catherine Keener), ex socia del defunto dottor Reed, il fisico le cui ricerche hanno reso possibile il viaggio nel tempo. Anno 2050: il figlio di Reed, Adam (Ryan Reynolds), pilota di un “jet temporale”, ruba l’apparecchio per saltare nel 2018 a salvare sua moglie Laura (Zoe Saldana), pilota come lui, che Maya ha fatto assassinare in missione. Braccato, finisce invece nel 2022 e vi incontra se stesso a 12 anni (Walker Scobell), adolescente difficile perché soffre per la morte improvvisa del padre. Al centro del film, sotto la peripezia fantascientifica, stra l'estraniazione di Adam, in entrambe le età. “E’ più facile essere arrabbiati che tristi”.
Questa teoria psicologica piuttosto traballante è figlia in tutto e per tutto del nuovo narcisismo americano. In ogni modo, è un tratto gradevole del film che il dodicenne sia dipinto come un nerd sarcastico anziché come il solito stronzetto ingrugnato che si vede sempre. In fuga da Maya e dalle sue guardie, l’Adam adulto e l’Adam giovanissimo vanno insieme nel 2018, avendo deciso di tagliare il male alla radice: bisogna impedire che il dottor Reed (Mark Ruffalo) inventi il viaggio nel tempo.
Se chi legge ha sentito odore di Ritorno al futuro incrociato con Terminator, ha assolutamente ragione; e ci sono dentro anche Star Wars negli scontri fisici con una specie di lightsaber e Top Gun nel duello fra due jet. Il trucco di The Adam Project è di menzionare esplicitamente il film copiato, cosicché il saccheggio viene nobilitato a citazione.
Se la regia di Shawn Levy è funzionale ma piuttosto piatta, il film può contare, oltre che sull'aspetto avventuroso, su una buona sceneggiatura (il fascino oscuro del paradosso temporale non delude mai) che nel climax vede contrapporsi due Adam e due Maya, con la più vecchia che suggerisce nefandezze a se stessa giovane – nonché su un dialogo vivace: il gioco di sponda fra Adam adulto e Adam dodicenne è forse l’aspetto migliore, con Adam che fa da burbero fratello maggiore a un se stesso che disprezza per come aveva trattato la madre. Tutti abbiamo nel nostro passato attitudini di cui pentirci; ma non tutti abbiamo l'opportunità di tornare indietro a dircelo in faccia. 

mercoledì 23 marzo 2022

Against the Ice

Peter Flinth

Le insidie del deserto di neve, dove sfrecciano le slitte tirate dai cani. I panorami bellissimi e desolati della Groenlandia intorno al Circolo Polare bastano a dare interesse al film di Peter Flinth Against the Ice, che però funziona anche sul lato umano. Parla di una storia vera: nel primo Novecento gli USA rivendicavano parte della Groenlandia (danese) essendo convinti che un braccio di mare, il Canale di Peary, la tagliasse in due. Esploratori danesi scoprirono che il Canale di Peary non esiste, onde tutta la Groenlandia apparteneva alla Danimarca; ma perirono dopo aver depositato le mappe in un tumulo di pietre. Nel 1911 i danesi Ejnar Mikkelsen e Iver Iversen compirono una durissima spedizione con due slitte per ricuperare quei documenti. Poi rimasero isolati in una baracca per due inverni prima di venire salvati da un’altra spedizione.
Against the Ice è il racconto di questa seconda spedizione, con Nikolaj Coster-Waldau (il Jaume Lannister de Il Trono di Spade) nella parte di Mikkelsen e Joe Cole in quella di Iversen, l’inesperto meccanico della nave che è il solo a offrirsi volontario per la missione. Secondo i canoni del cinema di avventura e sopravvivenza, Mikkelsen è saggio e duro, il John Wayne della situazione, mentre Iversen è il cucciolo (combina anche un guaio perdendo parte dei rifornimenti) che però finisce per rivelare inaspettate capacità, anche più del suo compagno. Stranamente, si ha l'impressione che la sceneggiatura abbia fretta, liquidando alcuni episodi – come l’attacco di un orso bianco a Mikkelsen – in una manciata di secondi: quasi fosse la versione concentrata di un’opera più lunga. La seconda metà, nella baracca, quando uno dei due prigionieri della solitudine comincia a cader preda di allucinazioni, è più distesa, e rappresenta probabilmente la parte migliore del film. Mikkelsen comincia a vedere nel rifugio la fidanzata (Heida Reed) che ha lasciato in patria; l’aspetto notevole è che – l’uomo essendosi convinto che il pazzo sia Iversen – si crea una minacciosa complicità in tal senso fra lui e la sua compagna allucinatoria. Grande il loro scambio di espressioni knowing
quando Iversen è nella baracca!

sabato 19 marzo 2022

Il male non esiste

Mohammad Rasoulof

Il potente film di Mohammad Rasoulof Il male non esiste, uscito ora in Italia, ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino nel 2020; ma il regista non ha potuto ritirarlo di persona perché trattenuto in Iran come oppositore del regime. Sono quattro episodi a sorpresa, che ruotano intorno alla stessa questione: la pena di morte in relazione alla responsabilità di chi la esegue. Un brav’uomo, gentile e pieno di sopportazione fra la moglie nervosa e la figlia petulante, fa un lavoro misterioso (è prevedibile ma assai ben raccontato). Un soldato è angosciato per l’ordine di eseguire una condanna a morte. Un militare in licenza – nell’episodio forse più bello di tutti – visita la fidanzata in campagna e trova tutta la famiglia sconvolta per l’impiccagione di un amico. Il quarto episodio, sulla visita della nipote a uno zio dottore che ha un segreto, è come uno sviluppo del secondo proiettato a distanza d’anni.
Uno scherzo narrativo in apertura introduce l'argomento. In un parcheggio, vediamo due uomini mettere nel portabagagli di un’auto un sacco oblungo: è un’immagine vista mille volte nei thriller e pensiamo subito a un cadavere. Poi quando al guidatore, il protagonista del primo episodio, una guardia fa aprire il portabagagli e chiede cosa c'è nel sacco, e quello risponde “riso”, la nostra impressione si rafforza e anzi “carichiamo” sulla sua espressione calma il peso dei nostri sospetti come fosse una conferma. Invece siamo stati ingannati: sapremo poi che era veramente un sacco di riso. Niente omicidio quindi. Ma invece sì – perché è il tema del film.
Il male non esiste si fonda su un doppio aspetto: quello narrativo, di tensione e scoperta, e quello descrittivo, forse ancora più notevole. Rasoulof usa assai bene quel senso di tempo lento, dilatato, che viene sempre dato al cinema dal tempo reale. La struttura dei racconti è sempre la stessa: il “tempo lento” si estende, con un sottofondo di tensione angosciosa, e poi esplode in improvvisi soprassalti di sorpresa di forza sconvolgente. Il quarto episodio, a tale proposito, si basa su una “suspense dei sentimenti” – su uno strano comportamento e un segreto da rivelare – che diviene quasi dolorosa.
Emerge dal film un ritratto feroce della Repubblica Islamica iraniana, che ha l'abitudine (Hitler e Stalin avrebbero approvato) di far eseguire le condanne a morte ai giovani di leva, in modo da comprometterli sulla strada dell’obbedienza assoluta. Inutile aggiungere che, come afferma il secondo episodio, gli oppositori da impiccare vengono sempre fatti passare per criminali comuni. Nelle numerose discussioni (bellissima quella fra i soldati di leva, la notte, nelle loro brandine) ritorna l’idea, inculcata dal regime nelle persone semplici, della “legge” come un’entità misteriosa e indiscutibile, decisa da gente in alto, cui bisogna solo obbedire.
Ad essa Rasoulof oppone l’urgenza (ma anche il costo) della scelta. Sotto la dittatura c’è comunque un libero arbitrio delle persone; il regista-sceneggiatore sposa una morale di tipo tolstoiano – evidenziata in modo simbolico dalla presenza della volpe, che il protagonista non vuole uccidere e anzi nutre, nel quarto episodio.
Attraversa il film una tensione fra spazi aperti e spazi chiusi. Gli spazi aperti sono connessi alla libertà: vedi la grande visione in campo lunghissimo, dal ciglio della strada, di Teheran illuminata nella notte, durante la fuga in auto dei due giovani (al suono di Bella ciao nella sua versione autentica, quella delle mondine, cantata da Milva); e questa visione panoramica viene replicata da un campo lunghissimo analogo nel terzo episodio. Mentre nel quarto, che si svolge in un paesaggio di colline desolate dove lo zio ha dovuto rifugiarsi rinunciando anche alla paternità di sua figlia affidata al fratello, l’isolamento serve da sfondo al tema profondo dell'episodio, che è il prezzo della scelta: un costo che non è pagato solo dall’individuo ma si riflette anche su altre persone: una somma di dolori che si riflettono uno sull’altro… anche il dolore del cieco militare in licenza nel terzo episodio, che, quando emerge la verità,
per non essere abbandonato dalla sua fidanzata cerca di cavarsela con un semplice “Dimentichiamo”.