sabato 24 luglio 2021

Vanya al Parco Moretti

 regia di Rita Maffei

Grande serata di teatro sabato 24 alle 19 al Parco Moretti di Udine con “Vanja al Parco Moretti”, messo in scena dal CSS per il progetto “Vanja in città” di Rita Maffei.
Una parola di spiegazione. Tutti conosciamo il film di Louis Malle “Vanya sulla 42° Strada”, in cui Malle filma (non in modo meccanico!) le prove di un “Zio Vanja” a New York per la regia di André Gregory, con Wallace Shawn nel ruolo di Vanja – spettacolo mai andato in scena. In epoca di Covid, nel 2020 “Vanja in città”, ispirandosi liberamente al film, ha ambientato le prove di “Zio Vanja” in una serie di luoghi urbani, per un pubblico ristretto. Così il dramma di Čechov si concretizza in una serie di rifrazioni che, portandolo fuori dal teatro, compongono un dialogo fra il testo e la città. Gli attori si muovono col copione in mano. E tutto ciò, paradossalmente, esalta la purezza del testo.
Ripreso nel 2021, sabato ho visto “Zio Vanja” recitato (magnificamente) sull'erba del Parco Moretti. Va detto che, al di là del suo carattere di singola “rifrazione”, l'ambientazione del parco, con l'erba e gli alberi, realizza di per sé un'idea vincente di regia. Porta tangibilmente in primo piano quella presenza della campagna, piena, totale, che informa il dramma. Depura l'astrazione della messa in scena senza minimamente far concessioni al naturalismo. Il frinire autentico di grilli e cicale nella sera! I pochi arredi di scena – tavoli, tavolini, sedie – che rappresentano i luoghi della villa “labirinto” sono posizionati sull'erba a pochi metri l'uno dall'altro, il che consente anche alcuni graziosi scherzi di regia, come salutare o indicare un personaggio teoricamente fuori scena quando si parla di lui (il che rinforza quella compattezza del disegno dei personaggi nel dramma). Idem, la situazione “intima” all'aperto, che attenua particolarmente la sensazione della “quarta parete”, rende più che mai scorrevole la trasformazione dei saluti ai personaggi nell'ultimo atto in un saluto al pubblico.
Ma ciò che importa è la tessitura, il pathos, del dramma, come emerge grazie al livello eccellente, emozionante, delle interpretazioni: Gabriele Benedetti, Pepa Balaguer, Paolo Fagiolo, Fabiano Fantini, Daniela Fattori, Natalie Norma Fella, Rita Maffei, Klaus Martini, Nicoletta Oscuro. Regia di Rita Maffei, scena di Luigina Tusini.
Alla conclusione, col sublime discorso di Sonja “Noi vivremo” – una pagina che forse è ispirata al discorso di Marmeladov in “Delitto e castigo”, e certamente raggiunge la stessa altezza di speranza ultraterrena – avevo le lacrime agli occhi.

mercoledì 21 luglio 2021

Marx può aspettare

Marco Bellocchio

La famiglia, la religione, la ribellione, la follia, i punti nodali del cinema di Marco Bellocchio, ruotano, si sa, attorno a una dimensione marcatamente autobiografica. Bellocchio non solo trasfonde nell'elaborazione artistica singole esperienze e traumi della sua vita, come il suicidio del fratello, ma vi porta tutto un insieme di ricordi, atmosfere, suggestioni. E' questo uno dei vari tratti che lo accomunano a Luis Buñuel e ai suoi tocchi di reminiscenza “privata”, potremmo chiamarli micro-biografici (per esempio i tamburi di Calanda). La figura ricorrente del pazzo che urla o bestemmia (L'ora di religione) rimanda al fratello maggiore psicotico – e I pugni in tasca è costruito sull'evocazione del desiderio inconscio e inammissibile della sua morte. L'ossessione per la religiosità tradizionale cattolica è legata, prima che all'educazione dai Barnabiti, all'atmosfera familiare e alla figura della madre (“La mamma era ossessionata dall'Inferno e dal Paradiso”, sentiamo in Marx può aspettare). Da incrociare con la figura del padre che rifiuta i conforti religiosi (“Va via pretaccio!”) sul letto di morte. Dell'antipatia di Bellocchio per le strutture formali del cattolicesimo, per la pompa (per fare due titoli su un lungo arco temporale si va da In nome del padre a Sangue del tuo sangue), si capisce il background biografico ed emozionale. Nota in margine: ho detto antipatia e va bene, ma – Bellocchio essendo un autore barocco – in questa c'è anche un'attrazione oscura.
Non ignoto già prima, ora questo background biografico si precisa nell'abbacinante Marx può aspettare. Bellocchio, che ha già usato molto la forma del documentario familiare (Sorelle), si apre come non mai, costruendo il film sulla figura del fratello gemello Camillo, morto suicida nel 1968.
Si sentiva un fallito”, tra la mancanza del successo scolastico e l'incertezza su cosa fare nella vita – e questo in una famiglia colta con figure brillanti come i fratelli Pier Giorgio (Quaderni Piacentini) e Marco, giovane regista premiato a Locarno e Venezia. Camillo, apprendiamo qui, aveva anche scritto una lettera a Marco chiedendogli un parere sulla possibilità di cercare anche lui una carriera nel cinema. Chissà se ha un senso che ne La Cina è vicina (1966) il personaggio dello studente maoista che rovina in modo farsesco il discorso del candidato socialista abbia nome Camillo? Dopo aver fatto l'ISEF Camillo sembrava aver trovato una sistemazione; ma, racconta Marco parlando dell'ultimo incontro nel 1968, “era molto scontento”. Al suo malessere Marco rispose con “quattro cazzate rivoluzionarie”, al che Camillo replicò “Marx può aspettare”. “Voi eravate talmente occupati a salvare il mondo... – parla la sorella dell'allora fidanzata di Camillo, la cui presenza educatamente ma fermamente critica nel film di Bellocchio è implicitamente autocritica – che non vi siete accorti che avevate in famiglia una persona assolutamente fragile”. Però Marco, (che era andato a Roma) poco prima è stato ancora più duro: “Io proprio mi annullai”.
E quando a proposito di Camillo sentiamo “Percepiva che non avevate stima di lui”, colpisce molto ritrovare nella sua vicenda umana, effettuale, quella domanda di riconoscimento impossibile che accomuna i personaggi bellocchiani – e la sua mancata soddisfazione come causa ultima del suo suicidio.
Con questo suicidio Bellocchio aveva già drammaticamente fatto i conti in forma traslata ne Gli occhi, la bocca (che pure contiene la frase “Marx può aspettare”), il quale naturalmente compare tra i brani che vediamo nel presente film. Ma qui lo prende di petto, in forma documentaria, senza mediazioni.
Della necessità della maschera “per difendersi, sopravvivere, e vivere” parlava Bellocchio in una vecchia intervista sul suo Enrico IV nel 1984. Ci si potrebbe chiedere se la rielaborazione artistica di una tragedia personale non sia essa stessa un modo sottile, e necessario, di mettere una maschera – una protezione, una pellicola, uno spessore – tra la propria pelle nuda e il fatto terribile. In Marx può aspettare non ci sono più maschere. E' un processo rivolto a se stesso, anche in presenza dei figli Pier Giorgio ed Elena, non meno coraggioso che impietoso. Di qui l'obbligo di scavare non solo nel groviglio delle responsibilità ma nelle cose più minute, nei dettagli più minuti. Il tragico è che comprendiamo le cose solo dopo che sono successe: prima vige l'ignoranza pigra del quotidiano. E', quello di Bellocchio, un mettersi a nudo quasi chirurgico (e non dimentichiamo la lunga esperienza di Bellocchio con la psicoanalisi, sebbene non ortodossa) sul suo essere mancato, al pari degli altri familiari: un'analisi del passato che diventa un'autoanalisi, e mette in luce l'aspetto più tremendo delle questioni morali: l'irreparabilità del tempo. Qualsiasi ricerca del genere è un rito di espiazione.
Questo termine ci porta direttamente all'aspetto religioso. L'impressionante racconto, da parte della cognata Pia, della scoperta e della deposizione di Camillo morto è appunto una Deposizione. Il racconto è denso di immagini religiose (“C'era la mamma – crocefissa proprio”), con un senso che va oltre la soggettività di chi parla. Anche Bellocchio, come Don Luis, è “ateo per grazia di Dio”; ma, potremmo aggiungere, con più inquietudine. Assai intelligentemente padre Virgilio Fantuzzi, il gesuita qui intervistato, dice a Bellocchio che lo riconosce come un suo penitente, e lo potrebbe assolvere, avendo visto i suoi film che sono tappe della sua confessione: lo schermo al posto della grata del confessionale.
In uno di quei grandi finali bellocchiani, immaginari e simbolici, che non si dimenticano, Marco incrocia un uomo – per noi di spalle – che corre in direzione inversa; dalla tuta ISEF “riconosciamo” il fratello morto; Marco si volta a guardarlo mentre quello corre e si allontana. E' un senso di pacificazione. Quest'assunzione di responsabilità, seguita a questo scavo nel passato, ora consente di lasciar andare.

martedì 6 luglio 2021

Far East Film Festival 2021


Dopo l'edizione solo online, a causa della pandemia, dell'anno scorso, il Far East Film Festival 2021 si è svolto a fine giugno in forma doppia: dal vivo sul grande schermo, non al Teatro Nuovo Giovanni da Udine bensì ai cinema Visionario e Centrale, e online sulla piattaforma MyMovies – con alcune eccezioni da un lato e dall'altro.
La domanda da un milione di dollari è: cosa ci aspetta per l'edizione 2022? E' certo (toccando ferro) il ritorno sia alla collocazione a fine aprile sia al Teatro Nuovo. Ma è altrettanto certo che al Visionario rimarrà un ruolo centrale nel festival.
Inoltre c'è la grande questione della trasmissione online. Su questo, è prematuro discutere. Ma una cosa, a parere di chi scrive, è sicura, e vale per tutti i festival cinematografici e non solo per il FEFF: la dimensione online non è stata un semplice ripiego dovuto a un anno di lockdown, ed è qui per restare.

Ecco uno sguardo ai film, premettendo che ovviamente non li ho visti tutti. Di una ventina ho pubblicato una recensione o una scheda breve sotto il presente articolo.
Cominciamo dal Giappone, che quest'anno è stato il più ricco – tallonato da Hong Kong – sia come qualità sia come quantità. Vedi schede sotto per Hold Me Back di Ohku Akiko, Ito di Yokohama Satoko, Jigoku-no-hanazono OFFICE ROYALE di Seki Kazuaki, Midnight Swan di Uchida Eiji.
Last of the Wolves di Shiraishi Katsuya è il seguito di The Blood of Wolves, che mostrava una fantasia visuale barocca e un realismo naturalistico nella narrazione. Vi ritorna il poliziotto Hioka (Matsuzaka Tori) che, dopo la morte di Ogami (Yakusho Koji) in Blood, ha ereditato la sua politica di immischiarsi fra le gang yakuza per mantenere la pace. Ma deve vedersela con lo yakuza psicopatico Uebayashi, appena uscito di prigione. Costui, la tradizionale figura di super-villain debitamente ghignante e odioso, colpisce più di Hioka: il film vorrebbe mostrare in quest'ultimo l'uomo che ha fatto un patto faustiano e ne è travolto ma gli fa fare piuttosto una figura barbina. Senza dubbio il film è spettacolare come Grand Guignol yakuza-style. Però lo danneggia gravemente, oltre alla necessità di appoggiarsi sul film precedente, una dose di forzature e implausibilità che lo rende inferiore al barocchismo di Blood.
Blue di Yoshiha Keisuke è un buon esempio di cinema sportivo sulla boxe (come Underdog, che non ho visto). Bello il montaggio, assai netto e preciso, di una secca sobrietà, fra una scena e l'altra. Gli incontri sul ring sono assai ben resi, con una chiarezza che si oppone al gusto contemporaneo del racconto a flashes. Le figure dei personaggi riprendono quelle di tanti film sul pugilato: il campione che si ritrova il cervello danneggiato dai colpi (Higashide Masahiro), la sua donna che soffre per questo (Kimura Fumino), il bravissimo teorico del gioco che però sul ring perde sempre (Matsudara Kenichi), il rookie in ascesa (Emoto Tokio, che è il personaggio più originale, in parte per un paio di bei tocchi di comedy, in parte per una faccia memorabile). Per fortuna l'abilità del regista Yoshida non fa avvertire la prevedibilità e guida il racconto con sicurezza fino a una bella conclusione.
The Goldfish: Dreaming of the Sea di Ogawa Sara: in una casa-famiglia per orfani, una diciottenne di nome Hana si affeziona a una bambina piccola, Harumi, che all'inizio sembra autistica – poi vediamo che è shockata perché era picchiata dalla madre, cui è stata tolta. Ma anche Hana ha un passato che le fa male. Che Ogawa Sara abbia imparato da Kore-eda si vede. E' brava (alla Kore-eda) nel dare concretezza a momenti significanti, come andare a mangiare sotto un albero o correre a cercare un riparo perché piove. Inoltre Ogawa (lei stessa attrice) ottiene buone interpretazioni, e non solo perché i bambini rubano sempre la scena. La piccola Hanada Runa (Harumi è eccezionale) anche per una capacità della regia di cogliere/costruire la pregnanza di un'espressione. Un paio di sue inquadrature nel film fanno veramente provare un brivido.
The Wheel of Fortuna and Fantasy di Hamaguchi Ryusuke, Orso d'Argento all'ultimo festival di Berlino, è un film intenso che si focalizza sul mondo femminile per esplorare in tre episodi le “intermittenze del cuore”, con una delicatezza di sguardo – come è stato scritto – quasi rohmeriana. Sono tre episodi con quattro protagoniste femminili (l'ultimo episodio è a due), splendidamente interpretati; ma vanno elogiate anche le figure di contorno maschili e femminili: il regista Hamaguchi ha fra le sue varie doti una particolare capacità di direzione degli attori. Dentro il gioco del caso e dell'immaginazione... questo il significato del titolo... si svolgono i tre incontri, ciascuno dei quali insegna qualcosa sull'amore alle protagoniste – e a noi.
Lasciando perdere il modesto You're Not Normal, Either! di Maeda Koji, segnalo in conclusione l'ottimo documentario SUMODO – The Succcessors of Samurai di Sakata Eiji, che non solo dà un quadro vivo e soddisfacente dello sport del sumo ma potrebbe compiere il miracolo di trasformarci in appassionati di questo sport!

Hong Kong è la patria spirituale del FEFF, sempre nei nostri cuori. Vedi schede sotto per Drifting di Jun Li, Limbo di Soi Cheang, Madalena di Emily Chan, Shock Wave 2 di Herman Yau, Sugar St. Studio di Sunny Lau, Time di Ricky Ko.
Girato con abilità, The Way We Keep Dancing di Adam Wong è un seguito di The Way We Dance del 2013. E' interessante l'argomento: il quartiere di Kowloon è diventato la base per tutta la cultura di strada dello hip hop e adesso viene travolto dalla gentrification con il conseguente aumento degli affitti, per cui le varie band non hanno più dove andare. Senza sorpresa, la polizia è al servizio delle grandi imprese edilizie. Parte del gruppo protagonista viene convinta a mettere le loro capacità al servizio di questo redevelopment con un progetto chiamato Dance Street – e questo li pone in contrasto con le frange più povere e radicali dei giovani che vi abitano. Segue un conflitto di sentimenti fino all'ovvio pentimento finale, che però non cambia le cose. E' interessante osservare come, sotto la novità concreta della musica hip hop e della street dance, l'impianto sia molto “vecchia Hollywood” (che vuol dire anche “vecchio cinema hongkonghese”).
One Second Champion di Chiu Sin-hang (co-regista di Vampire Cleanup Department con Yan Pak-wing) riprende da Vampire la nostalgia del vecchio cinema hongkonghese, sebbene in modo meno evidente: One Second Champion si rifà al vecchio melodramma sportivo made in Hong Kong (la figura del bambino, la sua sordità, l'incidente, il bambino che assiste disperato mentre il padre pugilatore ne prende un sacco). Tuttavia purtroppo il film è piuttosto insoddisfacente. Il violentissimo incontro di boxe finale può però essere una pagina di cinema sportivo interessante per gli appassionati.
Assai migliore Hand Rolled Cigarette di Chan Kin-long. Un prologo in b/n nel 1996 parla dei militari cinesi di HK che nello sciagurato Handover il governo inglese abbandonò a se stessi, garantendo un passaporto solo ai gradi alti. L'azione del film si svolge nel 2019, quando questo gruppo è stato diviso dai fatti della vita. Chiu (Lam Ka Tung, aka Gordon Lam) si barcamena come mediatore nell'ambiente della malavita. A casa sua si rifugia, inseguito dagli uomini di un boss per ragioni legate allo spaccio di droga, il giovane Mani che appartiene a una minoranza di immigrati disprezzati. Il film è puro noir hongkonghese; la fotografia di Rick Lau è moderna, col consueto uso di colori acidi e alterati. Non è un film d'azione nel senso isterico contemporaneo, anzi, si basa sulle atmosfere, ma i momenti d'azione non mancano e il finale, come prevedibile, è un autentico massacro. Il film si conclude con questa dedica: “A coloro che continuano a lavorare duro per il cinema di Hong Kong – passando la fiaccola alle future generazioni”. Questo dice tutto.
Zero to Hero di Jimmy Wan è un film sportivo strappalacrime sulla storia vera del campione hongkonghese delle Paralimpiadi So Wa Wai. Nato con una paralisi cerebrale che gli inibisce i movimenti; cresce e diventa un corridore grazie agli sforzi eroici di sua madre (Sandra Ng, anche produttrice). E' il classico film di cui Dante direbbe “E se non piangi, di che pianger suoli?” – ma tutta l'adesione umana non può nasconderci l'evidenza della costruzione a effetto (del resto, lo dichiara già il pomposo commento musicale). Un'osservazione in margine. Il giovane attore che interpreta So Wa Wai, con grande impegno naturalistico, presenta una prosthetic che gli fa sporgere i denti in modo spaventoso. Chiaro che lo si compiange lungo tutto il film. Poi sui titoli di coda appaiono le foto del vero So Wa Wai; segue controllo su Internet; sorpresa, il vero So Wa Wai aveva un aspetto molto più “normale”! Jacques Rivette avrebbe avuto una o due cose da dire in proposito.
Nella selezione hongkonghese svetta alto, insieme a Limbo, Coffin Homes di Fruit Chan; ma questo film verrà recensito solo dopo la sua uscita in sala. Infine: menzionare il cinema di Hong Kong significa far salire immediatamente alla mente (e al cuore) un gruppetto di grandi nomi, fra cui quello di Ann Hui. Ann Hui è la protagonista del toccante documentario intimista Keep Rolling di Man Lim-chung, che ci illumina sulla sua personalità. E poi, come non menzionare il film di chiusura, appena restaurato, l'indimenticabile Infernal Affairs di Andrew Lauy e Alan Mak?

Taiwan. Vedi schede sotto per My Missing Valentine di Chen Yu-hsun e per il restauro Execution in Autumn di Lee Hsing.
Gatao: The Last Stray di Ray Jiang è uno spin-off della linea narrativa di Gatao e del suo seguito Gatao 2: il protagonista non è Ren ma il suo vice Qing, ben interpretato da Cheng Jen-shuo. “L'ultimo randagio” è Qing: il film narra del tentativo di un villain di introdurre la droga e mettere zizzania fra le due bande della serie, e, in tale contesto, dell'amore fra Qing e una fotografa, Chi (Hsieh Hsin-ying) che non appartiene al suo mondo. Francamente è un po' uggiosa l'ingenuità di questa ragazza che non si rende conto di cosa significhi la vita di un gangster – ma per fortuna il film ha un buon montaggio veloce per cui non si sofferma oltremodo sul lato sentimentale, tranne che alla fine. Meglio la descrizione della lotta fra bande.
A Man in Love di Yin Chen-hao è un melodramma sulla storia di Cheng, un piccolo criminale attivo nel recupero debiti (Roy Chiu), e del suo amore con una ragazza, Wu Ho-ting. Il film parte come comedy, si trasforma in drama e finisce come puro mélo. Questo è uno dei problemi principali: con questo trapasso non di generi ma di sensibilità, il film appare poco o per nulla equilibrato (oltre che piuttosto debole in sé). Certamente, ci si commuove nel finale (anzi, nella proliferazione dei finali) – e chi non lo farebbe?

Cina continentale. Vedi schede sotto per Anima di Cao Jinling, Endgame di Rao Xiaozhi, Like Father and Son di Bai Zhiqiang.
Before Spring Comes di Li Gen costruisce la narrazione prevalentemente per scene brevissime, spesso impressionistiche, come a piccole pennellate. Questo è funzionale al racconto, che, anche se gira intorno al personaggio del giovane Li, mira a una dimensione collettiva, quasi alla Altman. L'argomento è la vita degli immigrati cinesi recenti in Giappone, e ruota intorno al piccolo ristorante cinese a Tokyo dove lavora Li. Ci si affeziona a questi personaggi, ciascuno con la sua storia, interpretati da buoni attori, fra cui un cameo di Sylvia Chang.
Cliff Walkers di Zhang Yimou, film di apertura del festival, è un'intricata storia di spionaggio (comunisti cinesi contro gli occupanti giapponesi e i collaborazionisti) ambientata negli anni Trenta. Il tema è patriottico ma quella che soprattutto Zhang Yimou mette in scena è la “nebbia del conoscere” connaturata a tutti film di spionaggio, l'impossibilità di riconoscere amici e nemici. L'amico è un traditore che fa il doppio gioco, dal finto nemico, in realtà amico infiltrato, può venire un aiuto imprevisto. In questa nebbia si sacrifica l'idealismo, in un film tragico e melodrammatico, ma ricco altresì di splendide scene d'azione.
In The Eight Hundred di Guan Hu invece chi è il nemico è chiarissimo: è di fronte, in un film di guerra: l'epopea della resistenza di un battaglione di soldati cinesi contro forze giapponesi soverchianti in un magazzino militare a Shanghai nel 1937. Un fiume divide la zona di combattimento da quella “pacifica” delle Concessioni occidentali, e questa doppia partizione – con i cittadini dell'altra sponda che osservano da fuori, ma sempre più coinvolti, la battaglia sull'altra riva, dà a questo film assai ben realizzato una particolare originalità.

E siamo alla Corea. Vedi schede sotto per Seobok di Lee Yong Zoo e il restauro Suddenly in Dark Night di Go Yeong-nam.
Night of the Undead di Shin Jung-won, vacuo titolo anodino (o ironico?) che può trarre in inganno, è una gustosa commedia demenziale. So-hee, sposata a un bellone innamoratissimo che sembra essere l'uomo perfetto, sospetta che costui la tradisca e si rivolge a un investigatore privato. Salta fuori dapprima che il marito se la intende con una quantità inverosimile di donne in giro per tutta la città in uno stesso giorno – al che noi spettatori possiamo solo ammirare la sua resistenza. Ma poi si scopre che è un invasore alieno (infatti gli piace bere benzina). Di qui nasce una farsa scatenata con tentativi reciproci di ammazzarsi fra marito e moglie (che arruola due sue amiche), col detective preso in mezzo, con equivoci e rovesciamenti, e una gustosissima cattiveria (e no, alla fine non si ricompongono). Un gran vantaggio del film sono le interpretazioni. La protagonista Lee Jung-hyun (So-hee) ha una capacità rimarchevole di passare da un'espressione all'altra – cosa necessaria in un film sulla finzione e l'imbroglio reciproco – nel giro di un secondo; le sue due sodali, la durissima Se-ra (Seo Young-hee) e l'ingenua Yang-sun (Lee Mi-do), sono perfette spalle comiche. Da menzionare anche il gelido Kim Sun-oh (l'alieno) e lo stralunato Yang Dong-geun (il detective).
Deliver Us from Evil di Hong Wong-chan è un action gangsteristico di medio livello, che però si lascia seguire volentieri finché non si dà a esagerazioni eccessive. Un sicario compie l'ultima missione uccidendo un boss della yakuza e progetta di ritirarsi a Panama. A impedirglielo, due sviluppi che si intrecciano: in Thailandia la sua ex moglie viene uccisa e sua figlia di nove anni rapita; il fratello dello yakuza assassinato, un killer psicopatico, gli dà la caccia per vendicarsi. Il protagonista (Hwang Jung-min) attraversa il film con un aspetto desolato che gli cattura le simpatie del pubblico; però sul piano spettacolare è più interessante il killer, una buona interpretazione “inumana” di Lee Jung-jae. Ci sono alcune ingenuità di sceneggiatura (Hwang Jung-min che dopo essere stato pugnalato due volte corre come un centometrista). Il comic relief è affidato alla figura di un trans che collabora col protagonista, e l'idea sarebbe interessante, se fosse appesantita da una recitazione stile Il vizietto. Bello, comunque, veder massacrare i trafficanti di bambini.
In Voice of Silence di Hong Eui-jong (che non nasconde ispirazioni alla Coen) una “strana coppia”, Kim e Kang, smaltisce cadaveri per la malavita. Kim (Yoo Ah-in di Burning) è muto ed è il classico bruto obbediente; Kang (Yoo Jae-myung), che lo ha allevato, mescola senza problemi il loro mestiere con una fervida religiosità. Sono due buone interpretazioni ma in particolare colpisce Yoo Ah-in, dovendo esprimersi solo con le espressioni del viso. Un giorno vengono incaricati di occuparsi di una bambina rapita per chiedere un riscatto. Ma poi il boss viene ucciso e i due si trovano fra la bambina (cui Kim si affeziona) e una banda di spietati venditori di bambini. Il film varia di registro, andando dallo humour nero all'inevitabile patetico alla suspense della parte finale.
Non vale molto la commedia Ok! Madam di Lee Cheol-ha, con caos su un aereo in volo e agenti nordcoreani. A tal proposito, interessante invece la produzione americana Assassins di Ryan White. Nel febbraio 2017 Kim Jong-nam, fratellastro (e pericoloso concorrente? O informatore della CIA?) del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, viene assassinato all'aeroporto di Kuala Lumpur (Malaysia) da due donne che gli spruzzano in faccia del gas velenoso sotto gli occhi di tutti. Arrestate e a rischio di una condanna a morte, le due si difendono così: erano state ingaggiate da qualcuno per fare a quello sconosciuto quella che credevano fosse una burla innocua, genere Scherzi a parte. Il documentario di Ryan White cerca di tracciare i contorni di questa storia incredibile. Se fosse la trama di un film di spionaggio i critici direbbero che è inverosimile.
Infine ricordo la retrospettiva di quattro titoli sull'importante regista Yoon Jong-bin (Beastie Boys, Nameless Gangster, Kundo: Age of the Rampant, The Spy Gone North).

Thailandia. Vedi scheda sotto per The Maid di Lee Thongkham.
Il titolo di The Con-Heartist di Mez Tharatorn è un gioco di parole che incrocia “rubacuori” e “re della truffa”. Ina è stata truffata da un bellone che l'ha corteggiata, le ha chiesto un prestito e l'ha ridotta in povertà. Quando incontra Tower, altro truffatore, un bellone anche lui, lo costringe a farsi aiutare a recuperare i soldi. Di qui parte la classica girandola di piani truffaldini sempre più complicati e di fregature reciproche, che coinvolge altri complici. E' un film un po' lungo forse, ma non c'è (quasi) momento che non sprizzi vivacità. Colpisce l'eccellente recitazione: la protagonista Pimchanok Luevidadpaibul ha una mimica deliziosa, Nadech Kugimiya (Tower) fa un George Clooney thailandese con humour e convinzione, e anche gli altri interpreti rendono il massimo. Personalmente, mi ha fatto impazzire Pongsatorn Jongwilas nel ruolo di Jone, il fratello (d'elezione) di Tower.

Indonesia. L'horror Death Knot è il dignitoso esordio come regista del noto attore indonesiano Cornelio Sunny. Una donna si suicida impiccandosi e i suoi due figli, Hari ed Eka, vanno al villaggio di lei, accompagnati dal marito di Eka, Adi. Non la vedevano da anni; anche il padre l'aveva abbandonata. Al villaggio scoprono che la gente la odiava perché aveva fama di essere una strega. Da notare che la casa della madre non è la solita casa piena di oggetti antichi dell'“horror antiquario”ma una casa di campagna di una modernità povera, un anonimato tetro. Molto atmosferico, il film si muove in maniera decisa ed è capace di vivacizzare la narrazione inserendo dove conviene delle immagini-shock. La storia parla di misteriosi istinti suicidi per impiccagione che colpiscono la popolazione locale. Molto bello, inquietante, il folle ghigno che compare sulla faccia dei posseduti.

Malaysia
Hail, Driver! di Muzzamer Rahman: first things first, la fotografia in b/n (di Fairuz Ismail & Hafiz Rashid) è senz'altro bella e si impone con notevoli inquadrature di Kuala Lumpur, fra inquadrature architettoniche e veloci lampi di vita cittadina. Il protagonista è un giovane malese, scrittore fallito (ormai le riviste hanno chiuso perché le gente legge solo online), che per sopravvivere fa il tassista abusivo. Fa amicizia con una ragazza cinese che si prostituisce e va ad abitare con lei – non come convivenza d'amore (i sentimenti sono inespressi fino alla fine) ma d'amicizia e necessità. Per inciso, lui non vede i colori, e ciò vuol porre un'analogia (un po' goffa) con la foto in b/n. La fotografia è più decisa della sceneggiatura: che è programmaticamente impressionistica, tutta fatta di momenti, e in verità piuttosto esile, anche se ciò rientra nel programma decisamente minimalista del regista-sceneggiatore. Non mancano peraltro i riferimenti volanti alla realtà malaysiana (le elezioni politiche, i difficili rapporti fra malesi e cinesi, l'invidia degli indonesiani per il più progredito vicino malaysiano).
Il bel documentario Life in 24 Frames a Second di Saw Tiong Guan intervista quattro registi – l'indiano Anurag Kashyap, il filippino Lav Diaz, il cambogiano Rithy Panh, e John Woo (emigrato a Hong Kong da bambino coi genitori – che hanno alcune cose in comune. La prima, un'infanzia o tragica da subito o diventata tale: abusi sessuali, guerra, povertà, malattie infantili. Si capisce che la storia più terribile è quella di Rithy Panh, che ha vissuto da bambino l'auto-genocidio cambogiano dei Khmer Rossi. La seconda: un amore nato già da bambini per il cinema, come territorio dei sogni e dell'evasione, e in seguito diventato per loro (in forme diverse) un modo per esprimere se stessi e cambiare il mondo. Queste interviste sono assai interessanti sul piano biografico. Bello sentire John Woo sostenere che i musical, che ama molto, hanno ispirato il modo in cui dirige i suoi film d'azione; oppure Lav Diaz affermare che i suoi film sono “emancipati” dalla regola delle due ore e che lui non li considera lunghi, li considera liberi. Soprattutto, c'è al fondo di tutto questo un'idea forte di resistenza che commuove.

Filippine. Per ragioni diverse, non posso esprimere entusiasmo né per Son of the Macho Dancer di Joel C. Lamangan né per Fan Girl di Antoinette Jadaone (interessante però come volontaria autodistruzione del protagonista Paulo Avelino, nel ruolo di se stesso, come figura romantica). Assai meglio il bellissimo documentario di Grace Pimentel Simbulan A Is for Agustin, che traccia un ritratto del quarantenne Agustin, poverissimo carbonaio nella zona di Zambales, il quale ha sempre avuto il desiderio di andare a scuola – e così ci va, mescolandosi ai bambini (delizioso come questi a volte non resistono al desiderio di guardare in macchina!). Agustin vive con la moglie e il figliastro Nonoy, e il suo desiderio di studiare si scontra con le esigenze della loro miseria, tanto più che Nonoy deve andare alle superiori. Il documentario dà un quadro veramente memorabile di vita quotidiana in questa famiglia e questo villaggio, comprendente le uscite per andare a cantare in qualche fiesta (Agustin è bravo con la chitarra) o magari per cantare in gruppo in città a Natale davanti alle case in cerca di offerte. Il ritmo che all'inizio appare un po' lento serve per entrare dentro queste vite, e man mano l'adesione diventa tale che non si sente più lo scorrere del tempo. A differenza del solito, le didascalie “di destino” che appaiono alla fine non servono solo ad acquietare la curiosità ma hanno anche un senso “poetico” commovente. Un film di grande umanità.
Ricordo en passant che il festival ha presentato una retrospettiva dedicata al grande attore filippino Eddie Garcia, che intendeva onorare nell'edizione 2020, e che è morto improvvisamente – a 90 anni, ancora attivo – in un incidente sul set.

Infine, se non ci sono stati film da Singapore, c'è una new entry del festival, il Myanmar (Birmania). Vedi scheda sotto per Money Has Four Legs di Maung Sun. Ma anche in questa sede voglio ripetere che la produttrice e co-sceneggiatrice del film, Ma Aeint (ospite a Udine due anni fa), è stata arrestata dai militari e non se ne ha notizia dal 5 giugno. Il regista Maung Sun attualmente si nasconde. FREE MA AEINT!

lunedì 5 luglio 2021

Anima

Cao Jinling

Il notevole Anima è un racconto semplice e solido, di un semi-documentarismo ecologico-esotico, con una bellissima fotografia degli ambienti naturali (di Mark Li Ping Bing). La regia di Cao Jinling, anche sceneggiatore, è sicura. Il film è ambientato presso gli Ewenki, una popolazione della Mongolia Interna in Cina, e nella prima parte apprendiamo le loro usanze. Infatti il film ha una doppia direzione: ecologica (col discorso sul disboscamento selvaggio, che sarà causa della tragedia – un'inondazione – che conclude il racconto) e antropologica, con una interessantissima descrizione di questa cultura. Per esempio la pagina del funerale dell'orso (animale totem degli Ewenki) è memorabile. Col proseguire del film quest'aspetto si perde alquanto, ma perché è la loro cultura che si perde.
I due aspetti si concretizzano in un plot di finzione, che vede il trovatello Linzi (da adulto, Wang Chuanjun) crescere nella foresta col padre e il fratello maggiore. Diventa boscaiolo assieme a quest'ultimo. Incontra – cadendo in una sua trappola per orsi! – una giovane vedova, Chun (interpretata da Qi Xi, la miglior interpretazione del film); entrambi i fratelli se ne innamorano e questo è causa della loro rottura. Chun sceglie Linzi ma il loro destino sarà tutt'altro che fortunato, prima per la povertà, poi per la tragedia che si srotola in collegamento con il taglio degli alberi. Perché anche il rispetto per gli alberi è parte integrante della cultura Ewenki, disastrosamente abbandonata.

Drifting

Jun Li

Con Francis Ng (Brother Fai) come protagonista, il film narra la vita alla deriva (drifting) dei senzatetto di Hong Kong, a Sham Shui Po, che prima dormono per strada, poi si costruiscono delle misere baracche. Molti, come Fai all'inizio, sono drogati.
L'inizio, con Fai che esce di prigione e torna nel gruppo, è neorealistico, non nel senso di attori presi dalla strada (anzi, sono tutti ottimi professionisti) ma nel senso della realtà fotografata senza mediazioni. In seguito il film si struttura secondo varie linee narrative; sul piano individuale, la principale è l'amicizia di Fai con un giovane rimasto traumatizzato dalla vita sulla strada. Una di queste storie interlineate (autentica e di ispirazione per il film) narra che il gruppo, con l'aiuto di un'assistente sociale, fa causa al Comune perché durante una pulizia notturna delle strade è stato buttato via senza tanti complimenti tutto ciò che gli homeless possiedono, compresi i documenti. Quando Drifting si avvia alla conclusione, è solenne e fluente l'emergere in primo piano del discorso polemico sulla gentrification di Sham Shui Po, che era il quartiere della povera gente e adesso la espelle per costruire grattacieli.
Scritto e diretto da Jun Li, è un film che a volte appare forse un po' programmatico, ma che attiva una forte carica di empatia. Un film americano su questi argomenti risulterebbe indubbiamente tetro, ma questo – pur tutt'altro che allegro in sé – riesce a mantenere un tono calmo e matter of fact molto lodevole. Francis Ng fa un'operazione recitativa di grande impegno, nel segno del naturalismo. Anche sfiorando qualche volta sul piano dell'espressione un overacting alla De Niro – ma si vede bene che per lui è l'interpretazione di una vita, più o meno come è accaduto per Anthony Wong in Still Human
.

Endgame

Rao Xiaozhi

Endgame di Rao Xiaozhi è un film molto diverso (e meno bello) del suo eccellente A Cool Fish, ma resta comunque un buon film divertente, e impreziosito da un grande Andy Lau. È il remake del giapponese Key of Life (Uchida Kenji, 2012), che già aveva avuto un remake coreano, Lucky Key (Lee Gae-byok, 2016). Un attore disoccupato vuole uccidersi, non ci riesce, e va tristemente al bagno pubblico. Qui vede un personaggio chiaramente più ricco di lui scivolare e battere la testa, riportando un'amnesia. Allora l'attore cede alla tentazione di scambiare la chiave del suo armadietto con quella dell'altro, in uno scambio di identità e di casa. Il guaio è che – noi spettatori lo sappiamo ma il protagonista no – lo sconosciuto facoltoso è un temibile killer professionista. 
Rao Xiaozhi proviene dal teatro e sviluppa nella sceneggiatura dei riferimenti teatrali – a partire dal titolo, Finale di partita, con riferimenti a Beckett e al teatro dell'assurdo. In fondo questo scambio d'identità è una situazione teatrale, con un personaggio che recita la parte di chi non è e l'altro che crede di essere un attore. Non stupisce che il film prenda una piega buffamente metateatrale (comprese discussioni sulla recitazione condite di citazioni di Stanislavskij!).
Xiao Yang (membro della coppia di attori/cantanti Chopstick Brothers) è bravo nel ruolo dell'attore disoccupato. L'attrice Huang Xiaolei è spiritosissima nel ruolo sopra le righe di una capobanda psicopatica. Ma a rubare la scena è il “nostro” Andy Lau, il killer smemorato, che è delizioso. Scherza sulla sua età non più tanto verde (la gag dei trent'anni sul documento), si permette di imitare il De Niro comico quando fa la faccia piangente, e – visto il carattere metateatrale – impartisce una lezione esplicita di recitazione al suo collega. Vale da solo il prezzo del biglietto.

Execution in Autumn

Lee Hsing

Nel maggio di quest'anno il maestro taiwanese Lee Hsing ha compiuto 91 anni. Nato a Shanghai nel 1930 e trasferitosi a Taiwan nel 1948, Lee Hsing è stato definito “il padrino del cinema taiwanese”. Fra i suoi film, accanto a Execution in Autumn (1972), bisogna menzionare almeno Beautiful Duckling del 1964, anch'esso con gli interpreti di Execution (Tang Pao-yun, Ko Hsiang-ting e Ou Wei), e anch'esso scritto dal grande sceneggiatore Chang Yung-hsiang. Ambientato nella Taiwan rurale, il film pose le basi di una corrente chiamata “Sano Realismo”, che univa la lezione del realismo occidentale con gli ideali neo-confuciani sostenuti a Taiwan dal governo nazionalista.
Dei valori confuciani Lee Hsing era appassionato sostenitore. Ne è un manifesto anche lo splendido Execution in Autumn, che presentiamo in un restauro a cura del Taiwan Film and Audiovisual Institute del 2021. Questo film in costume delinea un quadro psicologico e una riflessione morale sulla colpa e la redenzione, in cui rientrano i temi (per fare un riferimento occidentale) de L'ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo. Pei Gang (Ou Wen) è un uomo viziato fin da bambino dalla ricca nonna che lo ha allevato dopo la morte dei genitori. Incapace di controllarsi, Gang in un impeto di rabbia ha ucciso una donna incinta, che lo indicava come padre del nascituro, e i suoi cugini; per questo è stato condannato a morte, e verrà decapitato il prossimo autunno, la stagione deputata alle esecuzioni. La nonna cerca di salvarlo ma ciò è impossibile; allora gli fa sposare in carcere la giovane Lian (Tang Pao-yun), una orfana allevata nella famiglia, affinché la stirpe dei Pei non si estingua.
L'apertura mostra un uomo e un ragazzo portati all'esecuzione con il jia (gogna) al collo, mentre una donna e due figli, vestiti a lutto, piangono in disparte. In seguito vediamo un uomo (Pei Gang) fuggire con le catene ai piedi, inseguito, in un bosco ed essere fermato da un vecchio (il capo carceriere) esperto in arti marziali; poi lo vediamo venire tormentato in prigione. Ammaestrati da innumerevoli wuxiapian, siamo subito convinti di assistere a uno spettacolo di ingiustizia del potere. Ma con un fulminante rovesciamento sul piano delle attese, vediamo ben presto in flashback quali siano le malefatte di Gang, e che la condanna è giusta.
Dei principi alla base del film si fa portavoce un intellettuale confuciano che è andato in prigione volontariamente al posto del padre (sia in lui sia in Lian quando accetta di sposare Gang agisce il concetto di obbligazione). L'accettazione in tutti i sensi (filosofico e morale) è il principio che Gang deve raggiungere – anche attraverso il rapporto con Lian – nella sua evoluzione. È importante notare che nel personaggio di Gang i nuovi tratti della coscienza non emergono, 
moralisticamente, dal nulla bensì come sviluppo positivo di alcuni tratti negativi e infantili presenti fin dall'inizio (vedi al processo il rifiuto di mentire, che ivi è segno di orgoglio, ma sul piano assoluto è un barlume di onestà). Il suo processo di evoluzione è dialettico.
Questo processo non è indolore. Dapprima Gang è terrorizzato solo a sentir nominare la morte e anche la sua crescita morale non annulla il rimpianto. “È troppo tardi. L'estate non è mai stata tanto veloce. Ora l'autunno è sopra di noi!” Le stagioni sono centrali nel film: sia nel concetto del ciclo stagionale come eterno ciclo di morte e rinascita sia come segni del passare del tempo che, avvicinandosi l'esecuzione, ha qualcosa di fatale. Il film mette bene in luce la contraddizione per cui la pena tocca a un “nuovo” Gang, che ora la accetta, ma la sua accettazione è originata appunto dalla prospettiva della pena.
Circa la bellissima regia di Lee, basterà menzionare (nella scena in cui uno sbocco di rabbia di Gang diventa una dolorosa autocritica colpendosi con le catene) il meraviglioso surcadrage che divide i personaggi – da sinistra a destra, Lian, Gang e il carceriere commosso – in partizioni isolate l'una dall'altra: esprimendo il senso della colpa, del pentimento e della tragedia, ma anche un senso di irreparabilità, per cui i personaggi possono solo soffrire dello stesso dolore di Gang ma sono separati perché ciascuno porta la sua responsabilità.

Catalogo FEFF 23

Hold Me Back

Ohku Akiko

Di Ohku Akiko, l'autrice di My Sweet Grappa Remedies, ritroviamo tutto in Hold Me Back. Sul piano superficiale, l'amore per l'Italia (qui c'è un viaggio a Roma per far visita a un'amica sposata) e l'alcool italiano (qui il limoncello), gli hobby strani (qui fabbricare tempura di plastica, quello dei ristoranti), perfino le scarpe a tacco alto in dettaglio. Sul piano profondo, come in tutto il cinema di Ohku il film è una meditazione dolceamara sulla solitudine, i sentimenti e la personalità femminile, sulla soggettività e il modo non facile in cui essa può rapportarsi all'universo esterno. “L'Io e il mondo” è il grande tema dell'autrice. Il film è sceneggiato da Ohku da un romanzo di Wataya Risa come il precedente Tremble All You Want.
Il film spinge al di là dei precedenti l'interesse di Ohku per la “voce di pensiero”. La protagonista Mitsuko (l'attrice, bravissima, ha per nome d'arte Non) è un'impiegata, che si vede come una professionista della vita solitaria, e si è creata una voce-nella-testa che chiama A, alla quale si rivolge per chiacchiere e per consiglio. Non c'è nessuna psicopatia: Mitsuko è conscia che A non esiste fuori di lei (anzi, A le ripete di continuo “Io sono te”) e vive questa situazione con assoluta tranquillità. Meno tranquilla è semmai nella vita reale, dove ha una terribile difficoltà a lasciarsi andare. La tiene su uno dei tanti “doppi” ohkuiani (qui con un ruolo limitato), l'amica e collega Nozomi.
Mitsuko ha una cotta (glielo fa notare A) per un giovane impiegato, e il film è assai divertente nel dipingere, non dico neanche il corteggiamento, il cauto avvicinamento fra questi due super-timidi. Il problema è che Mitsuko si è troppo ancorata a questo rapporto a due con se stessa, e come farà a uscirne? Ce lo racconta il film, che è attraversato da un umorismo leggero e molto gradevole. Davvero la levità è una caratteristica preziosa di questa regista.

Ito

Yokohama Satoko

Il bellissimo film giapponese Ito di Yokohama Satoko è un intenso e originale ritratto di adolescenza, ambientato nella prefettura di Aomori sull'isola di Honshu. Il ritmo è volutamente calmo (non sarebbe giusto dire lento, perché si sente un'intensità sotterranea), in modo da creare una connessione empatica più che una semplice immedesimazione narrativa. Ito è una ragazza sedicenne orfana di madre, che vive con la nonna e un padre intellettuale distratto (strepitosa l'interpretazione di Komai Ren, fin dalla postura che rende appieno la goffaggine filiforme dell'adolescente); ha difficoltà a parlare e si esprime con la musica: come la nonna e la madre morta, è una suonatrice di shamisen, anche se di recente lo trascura. Chiaro che nel suo silenzio ci sono problemi inespressi e irrisolti. Trova lavoro part time in un caffè della città di Aomori: per la precisione un “maid café” dove le ragazze sono in divisa da ragazzina e bamboleggiano (castamente) coi clienti. Qui la ragazza timida e silenziosa comincia a uscire dal suo guscio; e tutto questo processo è reso con bella sottigliezza psicologica e umanità. Poi cominciano i guai per il locale, ma non è difficile indovinare che lo shamisen verrà in soccorso.
Quel che sta al centro del film ovviamente non sono le vicissitudini del bar: è un percorso di crescita che si esprime in un grande finale con un tocco simbolico. Questo si prende il suo tempo: segue da vicino la protagonista nei suoi silenzi e nei suoi smarrimenti (grande per realistica concretezza la scena in cui deve andare al caffè la prima volta e non trova la strada); guarda attentamente le procedure, che si tratti di un artigiano che ripara uno shamisen
o di un barista che insegna a Ito a fare il caffè; e mostra uno sguardo attento su tutti i particolari umani (penso al personale del caffè ma anche ai clienti, fra cui spiccano in particolare due gemelle dentone non più giovanissime). Un film umanista, che può conquistare gli spettatori.

Jigoku-no-hanazono OFFICE ROYALE

Seki Kazuaki

L'impegnativo titolo Jigoku-no-hanazono OFFICE ROYALE si drappeggia su un film molto intelligente (oltre che terribilmente divertente) sotto la superficie programmaticamente silly. Esordio nel lungometraggio di Kazuaki Seki, si ambienta nel mondo delle OL (Office Lady), le impiegate delle grandi aziende, e si articola su due livelli.
Il primo sta nello spostare il concetto di lotte tra fazioni in ditta fra le impiegate al di fuori dell'uso metaforico. Lo annuncia bene una gag assai bella all'inizio: la voce narrante della protagonista Nao dice con calma che la vita in ufficio può comprendere aspetti di lotta tra fazioni; è ovvio, pensiamo; e poi vediamo una ragazza scaraventata contro un armadio che va a pezzi come in un film di kung fu. Non era una metafora!
Il film descrive – nelle forme dei film di yakuza “eroica” e dei jidaigeki – gli scontri per il dominio del territorio e per il titolo di OL più forte del Giappone, con l'ascesa di una lottatrice fortissima che in scontri ultra-fisici (ma senza scomporre la sua aria tranquilla e mediocremente elegante) sconfigge le avversarie a capo di gruppi di potere (femminile) e li incorpora nel proprio. Nota che questa lottatrice fortissima non è la protagonista Nao, che si limita a guardarla ammirandola e non partecipa a queste lotte, anzi, lei e le sue due amiche sono il quadretto della OL “regolare”. Sarebbe uno spoiler spiacevole descrivere come continua; basti dire che c'è in serbo una grossa sorpresa. Non manca (ed è una scena geniale) la classica pagina in cui l'eroina sconfitta va prendere lezioni da una insuperabile maestra (sensei).
E gli uomini? Gli uomini compaiono in questo quadro di lotte fisiche femminili come puri esempi di uomo-oggetto. Aggiungo che quando gli scontri salgono a un livello superiore alcune delle più temibili donne combattenti sono comicamente interpretate da uomini en travesti.
Passiamo ora al secondo livello del film, quello metanarrativo. Continuamente la voce narrante (che non è solo quella di Nao) fa riferimenti al fumetto, ora con l'artificio comico del finto distanziamento (“Sembra un fumetto”, sentiamo ripetere, con riferimento al “reale” della diegesi), ora direttamente col richiamo alle regole narrative del fumetto, ossia disquisendo sul classico ruolo del compagno dell'eroe. Perché questa è la preoccupazione dei personaggi: sono io l'eroe, o sono solo il suo compagno? Anche nello scontro finale sentiamo: chi vince è l'eroe, chi perde è un personaggio di supporto.
Solo che, infine, la conclusione riprende e supera la metafora sulle “lotte” iniziale. Geniale.

Like Father and Son

Bai Zhiqiang

Like Father and Son riprende temi tipici del cinema cinese, spesso declinati nella dimensione del viaggio: il rapporto tra due età diverse e il sorgere di un affetto dall'ostilità, la povertà nella campagna più isolata e i poveri segni di modernità che vi spiccano, i vasto spazi in mezzo al nulla. E questo conglomerato di temi, che rappresenta quasi un sottogenere, ha una sua cifra stilistica riconoscibile: ritmo lento per ragioni sia psicologiche sia poetiche, sguardo realistico sulla vita materiale, visi “documentaristici”, accuratezza e spesso ricercata bellezza della fotografia. Tutto questo vale per il film di Bai Zhiqiang, nel quale si nota – specie nella prima parte – un uso assai marcato dei campi lunghissimi, che può ricordare Jia Zhangke.
È la storia di un venditore ambulante che si trova senza volerlo a prendersi cura di un bambino rimasto solo dopo la morte della nonna, il quale vuole andare alla ricerca di suo padre. Volutamente i due protagonisti, l'uomo e il bambino (Hui Wangjun e Bai Zeze), sono privi di quel tipo di attrattiva cinematografica (per cui l'adulto dev'essere di una bruttezza simpatica e il bambino cute) che ci sarebbe in altre cinematografie. Naturalmente dapprima il rapporto è difficile ma il venditore si rivela un “burbero benefico” – ma lentamente. È gente dura, senza sentimentalismo. Vedi l'episodio della piccola mendicante cacciata dal locale, alla quale il bambino dà i soldi del resto sul tavolo e per questo viene rimproverato. Nota che l'uomo ha perso un figlio, che non ha potuto curare perché un amico lo ha truffato dei soldi (e infatti va in cerca di questo ex amico con un coltellaccio nella cintura).
Due scene diverse coinvolgono con grande perizia registica l'albergo sito in un “grattacielo”, che è – spiega il venditore al bambino – “dove i ricchi godono di cibo e riposo”. Il film è molto attento sul tema scottante delle differenze di classe in Cina. Ma mentre nella prima delle due scene l'inquadratura in contre-plongée marca l'estraneità al mondo dei due, nella seconda, verso la fine, una panoramica discendente crea un collegamento con loro, che infatti (con nostra sorpresa) ci entrano – una scelta non indifferente in un film dove si sta attenti anche all'ultimo yuan.
Le opere di Zhang Yimou sulla Cina rurale e quelle successive del già citato Jia Zhangke possono fornire dei punti di riferimento, ma molti sono i film che salgono alla memoria, dal recente Crossing the Border di Huo Meng a Going to School with Dad on My Back di Zhou Youchao (che di Zhang ha lavorato come assistente), dal più romantico Peacock di Huo Jianqi a You and Me
di Ma Liwen (ambientato a Pechino ma in una casa tradizionale, e sul rapporto tra diverse generazioni).

Limbo

Soi Cheang

L'inquadratura iniziale di Limbo, capolavoro in b/n di Soi Cheang sulla caccia a un serial killer, pone un mondo doppio, rovesciato, perché riflesso nell'acqua delle pozzanghere. Crea immediatamente un effetto di spiazzamento – e infatti la mdp lo sottolinea alzandosi a inquadrare il mondo reale.
La nettezza della foto in b/n (di Cheng Siu-keung) produce tuttavia un senso di malessere, su due piani. Il primo è la messa a fuoco totale, che produce un effetto fisico sullo spettatore: si potrebbe definire impietosa. Secondo, il quadro è sempre zeppo, follemente sovraccarico, fin dal mare di statuette sacre che vediamo all'inizio. Immagini strapiene sia di oggetti sia (nei campi lunghissimi) di edifici sia di oggetti e di edifici assieme, grazie alla messa a fuoco: tutto questo crea un senso di soffocamento, appesantimento, imprigionamento: a cui si accomuna la reductio ad unum con Cya Liu seminuda e terrorizzata accoccolata nello spazio minimo dell'armadietto dove si nasconde – e la visione “in sezione” dell'armadietto con lei, unica macchia di fotografia in un totale nero che “ci pesa” addosso, rappresenta ancora di più questa situazione soffocante portata al suo estremo limite.
Di tutti gli oggetti che riempiono sullo schermo ciò che ci colpisce di più è la spazzatura (con un effetto di sinestesia, vediamo e ci sembra di odorare); un'invasione della spazzatura che sembra il proliferare di un cancro nella metropoli; e non solo i fetidi sacchi neri ma tutto un bric-à-brac di rifiuti, dai mobili scassati ai pezzi di manichini. Limbo è un'epopea della spazzatura (e anche gli esseri umani, dice nel film un personaggio, al livello più basso della scala sociale lo sono).
Soi Cheang nel suo cinema ha sempre cercato una comprensione per il mostro, ma forse non è mai stato così nero e spietato come in questo film. Il killer è inumano e deforme come quelli di The Texas Chain Saw Massacre di Tobe Hooper. Ha avuto una storia, un'umanità, ma (a differenza per esempio di Horror Hotline... Big Head Monster) di questa storia nel film restano poche tracce frammentarie che non compongono un quadro.
La città in Limbo è un labirinto per topi. Ci sono molte fughe angosciate ma questa fughe impossibili riportano al punto di partenza, cioè l'incontro con l'inseguitore. E' terreno di caccia del serial killer, ma in questo universo di follia assoluta anche i poliziotti sono cattivi poliziotti, sia in senso morale (la vendetta del poliziotto Cham nei confronti della ragazza è di una crudeltà assoluta) sia nel senso dell'incapacità. Siccome uno dei punti centrali del film è la ricerca della redenzione, incarnata in primo luogo dal personaggio di Cya Liu, possiamo dire che questa necessità di redenzione riguarda tutti i personaggi senza eccezione.

Madalena

Emily Chan

A cosa pensiamo quando sentiamo nominare Macao? Probabilmente a Jamers Bond che si reca a uno dei casinò per cui la città è famosa in Skyfall. O magari alle casette colorate di Storia immortale di Orson Welles. Emily Chan vive a Macao e Madalena è il suo terzo lungometraggio sul territorio (dopo Timing e Our Seventeen). Ce ne dà una visione realistica, lontana dalle idee turistiche che possiamo avere: le strade notturne, gli alloggi sovraffollati delle immigrate, nella bella fotografia è di Peace Ao Leong.
Si tratta di un melodramma in cui Lena (Cherissie Chau, molto brava) è un'immigrata irregolare dal continente, che a Macao fa illegalmente un doppio lavoro, come cameriera in un ristorante di lusso e intrattenitrice che convince i clienti a bere in un bar. Cerca di metter su soldi perché ha la madre e una figlia bambina in Cina – ed ha un segreto per cui non vuole avere a che fare con gli uomini. Incontra il tassista Mada, altro immigrato dalla Cina ma regolarizzato, che soffre d'insonnia e si strugge ancora per la moglie infedele che lo ha lasciato. Nasce un timido corteggiamento; ma è nella logica del melodramma che le cose non siano destinate ad andare lisce. Un esile subplot su un'altra storia d'amore, fra un giovane giocatore indebitato e una ragazza cieca, serve da piccolo contraltare al racconto principale.
Bisogna dire che la seconda parte del film rischia di andare sul prevedibile (quando appare quello che nella sceneggiata napoletana viene chiamato 'o malamente
); ma per fortuna il film ha un guizzo che indirizza il finale in altra direzione. Forse per ragioni di censura, il segreto di Lina non quello che uno pensa guardando il film, e ciò rende il “finale” (peraltro molto ben girato) vagamente illogico. Senza fare spoiler, mi limito però ad avvertire che il vero finale si ha, bizzarramente, nel classico riquadro che accompagna i titoli di coda.

The Maid

Lee Thongkham

Bisogna ammettere che The Maid, horror thailandese di Lee Thongkham, mette troppa carne al fuoco della sceneggiatura. Per esempio tutta l'enfasi iniziale sull'orrido pupazzo di scimmia, visualmente efficace, si perde nel prosieguo. Il film va seguito con particolare attenzione perché è molto articolato. Ogni film ha un suo sistema di tempi, che pone il rapporto fra il “racconto primo” e i flashback (e flash-forward); e qui tale rapporto è complesso, ai limiti del barocchismo, nell'intercalare le storie delle due cameriere Joy (l'oggi) e Ploy (il passato). Da segnalare, quando si arriva al “punto di svolta” in cui il film trasmette alla protagonista e allo spettatore le necessarie conoscenze, la soluzione moderna per cui la protagonista di oggi, Joy, appare come se fosse materialmente presente nella storia del passato (Ploy) che si svolge sotto i suoi occhi – e questo, naturalmente, per impulso del fantasma.
Al netto di alcuni sovraccarichi inutili, The Maid si sviluppa in modo lento e avvolgente, ampliando questa storia di fantasmi alla dimensione del melodramma (come segnala anche il romanticismo del commento musicale). In questo, la maid, che in tanto cinema orientale (ma è più legato a rapporti di classe che alla cultura) si introduce nella famiglia e la rovina, qui è piuttosto la vittima. Il film è evocativo nel suo costruire un “tempo fuori dal tempo” – mentre l'apocalisse finale mostra una netta influenza di Parasite. Fra le interpretazioni, è da segnalare in particolare quella molto variegata di Ploy Sornarin nel ruolo di Joy.

Midnight Swan

Uchida Eiji

Nel magnifico melodramma transgender giapponese Midnight Swan di Uchida Eiji, un trans non più giovane, Nagisa, che sta risparmiando per farsi operare, si trova a prendersi cura di una cugina adolescente disturbata e autolesionista, Ichika, allontanata dalla madre che la maltratta. Inizialmente non si sopportano; poi Ichika scopre una passione e una predisposizione per il balletto classico, mentre Nagisa comincia ad amarla e a considerarsi sua madre. Molte cose però si mettono di mezzo.
Il melodramma è il genere dell'amore star-crossed (sotto una cattiva stella), l'amore contrastato o impossibile, il sacrificio, la rinuncia. Comporta un investimento emozionale di grande portata, e per questo viene spesso messo in scena in forma attenuata o mista. Non Midnight Swan, che è melodramma integrale che non si pone limitazioni. Il grande Douglas Sirk lo riconoscerebbe subito. Non per nulla vi ha un ruolo centrale una marca visiva del mélo come il balletto classico. Per tale motivo, l'enfasi non è un difetto in questa sede.
Molto centrata e umana è la descrizione dell'ambiente dei travestiti che ruota attorno a un locale di spettacoli. Circa le interpretazioni, non stupisce che il protagonista Kusanagi Tsuyoshi (Nagisa) abbia vinto il premio come miglior attore ai Japan Academy Awards (mentre Midnight Swan
ha vinto come miglior film); ma è assolutamente apprezzabile anche la co-protagonista Hattori Misaki (Ichika), che è anche nella vita reale una premiata ballerina. 

Money Has Four Legs

Maung Sun

Il nostro cuore sta col popolo birmano oppresso dal colpo di Stato, e questo sentimento coincide con la presenza al FEFF di un film che, come avverte una didascalia all'inizio, celebra i 100 anni del cinema birmano. Money Has Four Legs è una commedia disinvoltamente cinefila, in cui il regista esordiente Maung Sun ha riversato un elemento autobiografico ispirato alla sua vita di cineasta indipendente. Non per nulla il film inizia con il regista protagonista Wai Bhone (Okkar Dat Khe) che ascolta il monologo del dirigente della censura: troppo fumo, troppe parolacce, troppo sesso, i cattivi devono costituirsi o morire alla fine, ci vuole un messaggio pro-polizia – dopo di che il censore ammazza una mosca sbattendoci sopra la Legge sul Cinema del 1996.
Wai Bhone è un giovane regista, figlio di un premiato maestro defunto, alle prese col suo primo lungometraggio dopo dei filmetti straight-to-video. Sta girando il remake di un classico film di gangster birmano del 1940, Bo Aung Din (che fu diretto da Shwe Done Bi Aung, con Khin Maung Yin nel ruolo del protagonista). Wai è pieno di guai personali e professionali: la famiglia non ha un soldo ma la moglie Sleazir (Khin Khin Hsu) vuole mandare la figlioletta Meemi a lezioni private; sul set, in aggiunta ai problemi con la censura (eterno flagello del cinema birmano), gli attori fanno quello che vogliono, mancano i permessi per le location, e Wai è in lite col produttore – amante di un'attrice incapace – che vuole più scene d'amore perché costano meno di quelle d'azione. Peggio ancora, suo cognato Zaw Myint (Ko Thu), un ex galeotto ubriacone preso come comparsa, gli rompe la macchina da presa, e Wai non sa come fare a ripagarla.
Nella disperazione, Wai decide di rapinare assieme a Zaw una banca disonesta che sta per chiudere dopo aver rovinato i correntisti. Inutile raccontare tutto lo svolgimento tragicomico che segue... Il finale coi soldi che volano via ha un sapore alla I soliti ignoti (si sa, i “colpi” dei poveracci non possono riuscire). È molto intelligente l'accostamento di questa scena in montaggio parallelo con il rito buddhista che si svolge in contemporanea per benedire la casa: la preghiera sulla condivisione dei meriti si applica pure a queste banconote disperse per strada e raccolte dalla gente. Molte banconote finiscono anche nell'acqua del fiume: l'inanità del desiderio nella forma gentilmente ironica del film, dove i riferimenti al buddhismo non sono rari.
Michel Hazanavicius (The Artist) è accreditato come consulente alla sceneggiatura. In sintonia con l'ambientazione cinematografica, il racconto si consente un paio di scherzi metanarrativi gustosi. A un certo punto, per esempio, vediamo il “finale”, con tanto di fermo immagine sul protagonista e credits che cominciano a scorrere – ma solo per scomparire subito, perché arriva una telefonata, il film riprende e la storia continua per altri quindici minuti. Con un uso ripetuto di canzoni che fanno da commento alla situazione (ma il più divertente coinvolge l'opera teatrale Ramayana), il film ha qualcosa di cordiale nella sua semplicità; si vede con piacere e se ne apprezzano i dettagli, compreso lo sguardo fugace sui dirimpettai del protagonista. La bella fotografia, non lirica, firmata Thaiddhi restituisce realisticamente una Rangoon povera e affollata.


Catalogo FEFF 23

My Missing Valentine

Chen Yu-hsun

Uno può perdere una chiave, un ciuccio, una lettera, una valentine (cartolina di auguri per San Valentino), ma il Valentine che perde Hsiao-chi nel film è proprio il giorno di San Valentino. In lei si addormenta il sabato sera, felice per un appuntamento il giorno dopo, che è San Valentino, con quello che proprio sembra il Principe Azzurro – e si sveglia di lunedì, con una misteriosa scottatura solare, e con sabbia nelle scarpe. Doverosamente, va alla polizia a denunciare la scomparsa di un giorno, ma non la prendono sul serio. Non è l'unica cosa strana: il tizio strambo che viene sempre a impostare lettere (lei lavora all'ufficio postale) si presenta con la faccia gonfia di botte.
Il taiwanese My Missing Valentine, scritto e diretto da Chen Yu-hsun, è un film delizioso: forse perfino troppo fantasioso (accumula tanti particolari che se cadi in un attimo di distrazione sei perduto) ma che domina bene la sua materia fantastica: inutile spiegare la sfacciata costruzione “teorica” che ci sta dietro, ma alla fine tout se tient
. Molto bella la parte che si svolge in una specie di “mondo congelato” nella durata eterna di un attimo – e (secondario ma assai gustoso) memorabile il sogno col “geco umano”. Gli interpreti sono tutti adeguati ma bisogna segnalare in particolare Patty Lee (Yang Hsiao-chi): un'attrice spiritosissima, non particolarmente bella ma estremamente espressiva, che s'inserisce perfettamente nella concezione del film dando un grande contributo alla sua riuscita.

Seobok

Lee Yong Zoo

Seo Bok è il nome in coreano di Xu Fu, alchimista e mago di corte della dinastia Qin, che secondo gli antichi testi l'imperatore cinese Qin Shi Huang, temendo la morte, inviò in cerca dell'elisir dell'immortalità. Per questo in Seobok di Lee Yong Zoo è stato dato il nome Seobok all'uomo artificiale e immortale del film. Il doppio concetto attorno a cui ruota il film è appunto l'immortalità e la paura di morire – che, come dice il regista, “è semplicemente il nostro destino”.
I due protagonisti si situano, si può dire, al di qua e al di là della barriera della morte. Gi-heon (Gong Yoo) è un ex agente segreto, malato terminale per un tumore al cervello, e tormentato dal senso di colpa per un episodio del passato, relativo a una collega, in cui si è comportato da vigliacco (molto belle le luci irreali, qui tutto blu e arancione, del direttore della fotografia Lee Mo-gae). La consapevolezza di dover morire presto, unita ai dolori che la malattia gli provoca, è la sua maledizione. Seobok (Park Bo-gum) è nato da un esperimento segreto di ingegneria genetica: una creatura artificiale dall’aspetto di ragazzo, creata in laboratorio attraverso la clonazione. È immortale e le sue cellule staminali diverse da quelle umane possono curare qualsiasi malattia. “Attraverso di lui – gongola uno scienziato in laboratorio – l'essere umano può sconfiggere la morte”. Per giunta, Seobok ha poteri telecinetici straordinari.
Dopo che il dottor Anderson, a capo dell'esperimento, è stato ucciso in un attentato, bisogna trasferire Seobok in un luogo più sicuro del mega-laboratorio dove ha trascorso tutta la sua vita. Gi-heon viene incaricato dal suo ex capo di scortare Seobok durante il trasferimento. Dovrebbe essere una missione senza intoppi, ma durante il viaggio il convoglio viene attaccato. Gi-heon e Seobok finiscono in fuga assieme, braccati dai sicari.
Se Gi-heon vuole soltanto concludere in fretta la sua missione, Seobok si aggira incuriosito da tutto. È cresciuto in un'unica grande sala (ne è un'evidente metafora l'uccellino in gabbia che vediamo nello studio di Anderson prima della sua eliminazione), e per lui tutto è una scoperta, in primo luogo quelle bizzarre creature che sono gli esseri umani. Soprattutto una domanda lo assilla: cosa significa morire? Per questa creatura immortale, che non dorme mai, la nostra finitezza è incomprensibile.
Anche se non mancano le scene d'azione (fino ad esplodere, grazie ai poteri di Seobok, in un'apocalisse finale), fondamentalmente Seobok è un esempio di fantascienza umanistica, che non cela intenti filosofico-poetici; agli appassionati della narrativa di science fiction classica ricorderà i nomi di Theodore Sturgeon e Clifford D. Simak. Può essere che appaia a tratti un po' troppo verboso, ma questa pomp and circumstance è il cuore stesso del film; che comunque mantiene sempre un buon livello di tensione, incrociando il film di spionaggio, col suo tipico doppio gioco, l'avventura a base fantascientifica e la riflessione morale.
Al centro del film giganteggia la figura ben delineata di Seobok, nell'eccellente interpretazione di Park Bo-gum: creatura commovente a metà strada fra l'umanità che solo Gi-heon (oltre a una dottoressa) riconosce e la non-umanità che è iscritta nei suoi geni e ribadita dagli altri personaggi. Durante lo svolgimento questi si riferiscono a Seobok con sostantivi disumanizzanti (l'esemplare, il progetto); mentre il pericoloso viaggio di Gi-heon con Seobok fa nascere un riconoscimento reciproco. In fin dei conti, Seobok riporta sullo schermo, in declinazione iper-tecnologica, il mito di Frankenstein col suo viluppo di suggestioni e questioni: l’insanabile alterità dell’uomo artificiale, il tormento della sua esclusione dal consorzio umano, l’incomprensibilità di un fenomeno estraneo alla sua natura qual è la morte. Ora, al fondo sia dell’horror sia di tutti i film di weird science sulla creazione della vita, di frankensteiniana memoria, sta sempre il melodramma; e l'elemento mélo, com'è giusto, entra a gonfie vele nella parte finale di questo film.

Catalogo FEFF 23