giovedì 20 giugno 2019

The Dead Don't Die

Jim Jarmusch


Era un posto importante nelle loro vite”. Per questo gli zombi ritornano in massa all'enorme centro commerciale in Dawn of the Dead (Zombi) di George A. Romero, 1978. Quel film è la più potente illustrazione del concetto di zombie horror come moralità apocalittica – correlabile al gusto tardo-medievale della danza macabra (in effetti l'esatto equivalente pittorico del film, al punto da far sospettare un'ispirazione, è il Trionfo della Morte di Pieter Bruegel del Prado). Molti anni dopo, il cerchio si chiude col bellissimo The Dead Don't Die di Jim Jarmusch, che rifà con purezza, ma in chiave di commedia, la moralità romeriana.
Beninteso, stricto sensu tutti i film di zombi sono un'apocalisse; ma sono questi due ad averne reso il senso in modo semplice e definitivo. Se il film di Jarmusch è stato largamente sottovalutato, contrapponendolo per esempio a quel Dead Don't Die tragico che è il vampiresco Solo gli amanti sopravvivono, credo si debba al partito preso post-aristotelico per cui la commedia è considerata inferiore alla tragedia (col che il sommo Stagirita non c'entra: non è colpa sua se il secondo libro della Poetica non ci è pervenuto). Sul piano filosofico e politico Solo gli amanti sopravvivono realizza una coppia perfetta col presente film – solo che nel film dei vampiri il punto di vista è quello dell'altra specie. Non ci si pensa spesso ma con l'estinzione delle prede i primi a sparire sono i predatori; e gli umani di Solo gli amanti sopravvivono, dal sangue avvelenato, in un mondo che sta per morire di riscaldamento globale, sono già morti senza saperlo: i vampiri li chiamano zombi.
Era un posto importante nelle loro vite”. Come in Romero gli zombi di Jarmusch meccanicamente “ripetono le cose che facevano quand'erano vivi” (questa è una definizione classica dell'inferno). Memorabile l'inquadratura degli zombi che camminano nel buio punteggiato dalle luci spettrali dei loro cellulari. “Invocano quello che amavano”: “giocattoli”, mugolano i bambini morti. Ma “free cable”, biascica uno zombi prima di attaccare il padrone del motel – un esempio dello humour surreale del film. Jarmusch ha sempre avuto un umorismo cool, svagato e indefinibile, da caffè e sigarette, se c'intendiamo; ed è questo che attraversa il presente film (grande il dialogo sul nome Zelda!) opponendolo a qualsiasi altra zombie comedy. E' per questo che Jarmusch può permettersi di non indietreggiare neanche davanti a tocchi di umorismo macabro old times: la gag degli occhi dei due morti che si aprono a turno mentre la misteriosa addetta alle pompe funebri Tilda Swinton li sta (follemente!) truccando non sfigurerebbe in una commedia nera degli anni Quaranta di Red Skelton o Bob Hope o Gianni e Pinotto. Interpretato da numerosi regulars jarmuschiani, The Dead Don't Die è un'apocalisse estremamente divertente, dove possiamo vedere Iggy Pop riemergere come zombi dalla tomba di Samuel Fuller. E i poliziotti Bill Murray e Adam Driver la attraversano con quella sorta di imperforabile impassibilità jarmuschiana, antipsicologica, che è una mescolanza di stile, rassegnazione ed estraneità. La maschera keatoniana di Bill Murray è l'incarnazione perfetta dell'estetica di Jarmusch.
Il film è costellato di gustosi “tormentoni”, il numero uno dei quali è la canzone The Dead Don't Die di Sturgill Simpson (che fa anche una breve apparizione come zombi): spunta fuori di continuo e tutti la conoscono – perché è la theme song, spiega Adam Driver a Bill Murray, in un primo esempio di humour metanarrativo, destinato a esplodere in seguito col suo “Andrà a finire male” ossessivamente ripetuto. E perché lo sa? Perché ha letto il copione. A Bill Murray, invece, sentiamo che “Jim” ha dato solo le pagine con le sue scene... “Dopo tutto quello che ho fatto per lui... Che stronzo”.
L'umorismo metacinematografico ha sempre avuto fortuna nelle commedie, fin da tempi non sospettabili di modernismo. In un vecchio film, cito a memoria, Bob Hope sta precipitando coll'auto nel vuoto, arrivano due uccellacci e lo tirano su, e lui fa: “Andate via, se no il pubblico dice che è inverosimile” (però grandi esempi di umorismo metateatrale ci sono già in Plauto). Ma lo stesso Adam Driver resterà sconcertato da una scena: deve confessare che nel copione non c'era! Si giurerebbe che appartenga a questa categoria un momento in auto in cui Bill Murray dice un po' seccato “Stiamo improvvisando?” e Adam Driver rimedia con qualche imbarazzo.
Come e più che in Romero, la verità nascosta dietro i comportamenti ossessivi degli zombi non è semplicemente che sono morti, è che tutti siamo morti. Un Tom Waits, eremita barbuto e capelluto che sembra una creatura di Tolkien (citato nel film), appare come il portatore di un'innocenza “naturale” dimenticata – assieme ai tre ragazzini che vediamo sparire di corsa diretti a “un rifugio sicuro”. Occorre ricordare che tutto il cinema di Jarmusch è una riflessione sull'estraneità? Ed è la voce over di Tom Waits, mentre dal bosco guarda il disastro al binocolo nel finale, a trarre la lezione morale con sfacciata nettezza: i morti che circondano gli ultimi guerrieri erano già morti prima di morire, fantasmi che si erano venduti la loro anima dannata per la loro inesauribile fame di “roba” (stuff, shit).
Probabilmente, come la vede Jarmusch, noi umani siamo diventati una zavorra del mondo: una via di mezzo, destinata a sparire, tra il livello inferiore alla presente civilizzazione, quello veramente terrestre – l'uomo della foresta Tom Waits – e quello superiore, extraterrestre – la grande Tilda Swinton, che è qui per studiarci (“Sto raccogliendo informazioni sulle cose di qui”) e alla fine sparisce su un disco volante. Cosa fra l'altro che chiarisce la sua bizzarra battuta quando dice ad Adam Driver ammirando il suo portachiavi: “Oh, Stars Wars! Excellent fiction”. Non per caso, il libro che Tom Waits recupera fra i rifiuti è il Moby Dick di Melville, altro testo apocalittico, che così termina: “Una vela si avvicinò, sempre più, e alla fine mi raccolse. Era l'errante Rachel, che mentre tornava indietro nella ricerca dei suoi figli perduti, trovò solo un altro orfano”. Stante che Jarmusch nel suo cinema ama sempre riferirsi a “testi altri” che assumono un valore gnomico, Melville è un nume tutelare minore nella raffinata texture di riferimenti del film: che consta per la maggior parte di rimandi alla cultura pop, specie al cinema fantastico e horror classico – compreso Romero, esplicitamente richiamato a proposito dell'auto degli “hipster di Cleveland”.
Non è la prima volta che Jarmusch trasferisce il suo minimalismo esistenziale in panorami contestuali massimalisti – qui è addirittura la fine del mondo – ma senza mutarne la natura e le coordinate. Mentre la città, dal nome significativo di Centerville, si popola di morti che camminano, sotto una luna velenosa e lebbrosa, prima i due poliziotti e poi Tilda Swinton con la sua katana si aggirano in auto (Jarmusch è il vero poeta dell'automobile!); e le strade della città invase dagli zombi, pur viste mille volte al cinema, tuttavia offrono – tra la fotografia di Frederick Elmes e la coreografia di Jarmusch – immagini di una tetra bellezza.
Ha scritto William Carlos William di Paterson e di Paterson: “Sollevate il lembo della gonna, Signore: stiamo andando all'inferno”.