lunedì 18 marzo 2024

Drive-Away Dolls

Ethan Coen

Nella deliziosa commedia lesbica a base pseudo-thriller Drive-Away Dolls di Ethan Coen, Jamie (volitiva, promiscua, sboccata, un po’ incosciente) è in viaggio verso Tallahassee, Florida, insieme alla sua amica Marian (seria, severa, lettrice di Henry James, un po’ repressa), per andare a trovare la zia di quest’ultima. Il guaio è che la Dodge che hanno noleggiato è stata data loro per equivoco: era destinata a un trio di gangster che dovevano portare a Tallahassee una valigetta nascosta nella macchina.
Quando la coppia Coen si separa in due entità individuali, la bravura registica rimane, ma sembra perdersi, almeno in parte, quella qualità imperscrutabile che evidentemente nasceva dall’amalgama dei due. Se dovessimo provare a separare le influenze dei fratelli Coen sul loro cinema (agli inizi solo Joel firmava la regia, ma le opere sono sempre state frutto di entrambi) alla luce dei due film che hanno diretto dopo una speriamo provvisoria separazione, verrebbe voglia di pensare che in Joel prevalga l’elemento tragico-filosofico (da solo ha diretto un Macbeth in b/n, buono ma molto debitore a Welles) e in Ethan l’elemento colorato e farsesco. Chiariamoci, sicuramente non c’è una distinzione così netta, ma va detto che nel Macbeth di Joel non c’è la “follia” coeniana mentre nell'adorabile Drive-Away Dolls di Ethan la follia non raggiunge il livello di nichilismo cosmico dei film della coppia.
Perché dietro le opere dei Coen come coppia c’è la consapevolezza di un immenso mondo buio, dominato nella forma tragica dalla violenza e dal fallimento, nella forma comica dalla stupidità. Anche le commedie più esilaranti, come Burn After Reading, hanno un sapore di fondo drammatico e nichilista che rappresenta l’assoluta disperazione razionale sull'universo e sull’uomo. Totus mundus stultus. In questo buio brillano a volte alcune fiammelle, i “giusti”, come la poliziotta incinta di Fargo – che non servono a sollevare la situazione generale ma vi portano la loro piccola luce, equilibrando moralmente la presenza del male. Forse, secondo la leggenda ebraica, sono il motivo per cui Dio lascia esistere il mondo.
Drive-Away Dolls non si può dire che rientri appieno in questo schema. Questo non vuol dire che il film – scritto da Ethan con Trisha Cooke – non sia notevole: è bello ed è estremamente divertente. Aperto da titoli coloratissimi al neon, che sono puro Coen, cui segue una scena di folle crudeltà esilarante (idem), è un road movie a lieto fine. Mentre nel cinema dei Coen coppia il contenuto è l'assurdo e il punto fermo è la morte, qui il contenuto è l’assurdo (il MacGuffin è un dildo) ma il punto fermo è il matrimonio. Fra le due donne, naturalmente.
Bisogna segnalare per prima cosa la bellezza del dialogo: è una screwball comedy dei giorni nostri, lesbica e sboccatissima. I dialoghi fra Jamie e Marian, con la prima che cerca di far uscire la seconda dal suo guscio, sono umoristicamente raddoppiati da quelli fra i gangster Arliss e Flint (che voltano la stessa intenzione di didassi esistenziale in chiave puramente comica). Divertenti i riferimenti a Henry James, a Steinbeck, e non dimentichiamo l’accenno alla steiniana Alice B. Toklas nel nome di una cagnetta. Il montaggio (anche quello firmato da Ethan Coen e Trisha Cooke) è perfetto: non solo nell’interpunzione (grande una tendina trasversale che sembra “crollare” sull'immagine) ma anche e soprattutto per la logica e l’umorismo dei raccordi.
Tutto diventa una corsa in montaggio parallelo verso Tallahassee: le due ragazze, i gangster, più la durissima e rancorosa poliziotta ex fidanzata di Jamie, che vuole sbolognarle la cagnetta. Trattandosi di un road movie, è inevitabile che il racconto si strutturi in episodi, o tappe; ma per evitare che diventi una serie di vignette la sceneggiatura “recupera” i nuclei passati inserendo dei richiami (la ex poliziotta passa all'agenzia dove giace il gerente in precedenza pestato dai gangster, i due gangster interrogano la squadra di calcio femminile con cui le nostre hanno fatto un’orgia, e si fanno imbrogliare).
Il film contiene sequenze flashback/oniriche su due diversi livelli narrativi. Il primo (in realtà abbastanza forzato e inutile) è relativo alla giovinezza drogata del villain in capo, come sapremo alla fine. Il secondo invece è indovinato: è una rievocazione dell’adolescenza di Marian coi suoi trucchi per spiare la vicina nuda al bordo della piscina di là della staccionata. Per inciso, l’immagine della bella donna nuda che, chiamata in casa dal marito panzone, si infila gli stivali ha una misteriosa carica di erotismo fetish, che giustifica l’espressione della giovane Marian in primissimo piano.
Il film, naturalmente, deve moltissimo alle interpretazioni strepitose di Margaret Qualley (Jamie), con la sua sfrenata loquela texana, e Geraldine Viswanathan (Marian), con il suo gioco di occhi. Ma anche di tutti i personaggio secondari, nessuno escluso, anche se per ragioni di spazio vorrei menzionare solo Joey Slotnick (il pedante gangster Arliss). L’eccellente uso degli attori è una delle caratteristiche dello “stile Coen” – e questo né Joel né Ethan l’hanno perso nella separazione.

domenica 17 marzo 2024

La sala professori

Ilker Çatak

Se basta un granello di sabbia per inceppare una macchina perfetta, figuriamoci cosa può succedere in una scuola, che è un delicato esercizio di equilibrio instabile fra amministrazione dell'istituzione, insegnamento della materie e psicologia applicata. Ne fa fede il film tedesco “La sala professori” di Ilker Çatak, ambientato in una scuola dove si verificano vari furti. Una giovane professoressa (Leonie Benesch) scopre che mancano dei soldi dal giubbotto lasciato in sala professori. Ma ha lasciata aperta la sua webcam, e vi appare la camicia (non il volto) di chi frugava. Dal disegno della camicia individua la presunta colpevole e l’accusa, prima in un confronto personale senza esito, poi con la preside. Da ciò procede una serie di avvenimenti concatenati che significano rovina.
Questa storia di caduta su due livelli (l’insegnante in sala professori e l'insegnante in classe) è la parte interessante del film: possiede una logicità e una sorta di suspense del dolore, che brillano per contrasto in una drammaturgia per altri aspetti grezza e meccanica. In effetti bisognerebbe esser grati alla (possibile) ladra per averla messa in moto, giacché prima di questo avvenimento il film è puerile, con un comportamento degli altri insegnanti e della preside completamente irrazionale: un bambino di origine turca viene accusato di furto su basi debolissime. In realtà la sceneggiatura vuol solo dirci che le autorità scolastiche sono senza cuore, tant’è vero che l’istituto proclama di avere una politica di “tolleranza zero”. Ma quando abbandona le banalità “politically correct”, il film è convincente nel descrivere l’odissea della professoressa – che si rispecchia in quella del figlio dell’accusata – e riesce ad abbozzare alla grossa uno sguardo sulla scuola e sul ruolo dell’insegnante.

(Messaggero Veneto)

venerdì 15 marzo 2024

Dune - Parte due

Denis Villeneuve

Costa un po’ di fatica – e d’incertezza – commentare Dune: Part Two come un film a sé stante, perché… come si esprimerebbero i Fremen… è la parte mediana del verme: è il secondo atto in una trilogia che è una monumentale opera compatta. Dune: Part Two è grande spettacolo, indubbiamente entusiasmante; e come rozzamente si suol dire, avercene di film così. Anche al di là del racconto e delle sue psicologie, anche al di là della costruzione del mito e dei suoi problemi, basterebbe a nobilitare questa epopea del deserto il valore “grafico” dell’immagine, ossia l’azione in relazione al paesaggio (i Sardaukar che ascendono in volo sulla roccia, oppure Paul e Chani che si muovono all’unisono sulle dune di sabbia come in un balletto). Inutile menzionare la potenza dei grandi vermi che scorrono nella sabbia. Già lo sappiamo, Denis Villeneuve è un grande paesaggista, e i suoi esterni immaginari sono autentici dipinti.
Peraltro, comparando il presente film col precedente, è difficile sottrarsi all’impressione che la Part One fosse in qualche modo più affascinante. Non è solo questione di una distribuzione imperfetta dei tempi: l’attacco finale, che dovrebbe avere la portata catastrofica di un Götterdämmerung, appare un po’ accelerato rispetto alla tragica ampiezza (minuziosamente preparata dal racconto) dell’attacco degli Harkonnen nel primo film; e il duello finale fra Paul Atreides e Feyd-Rautha è addirittura “tirato via” (nel romanzo di Frank Herbert è più solenne ed emozionante, col cupo silenzio di Paul mentre si batte che destabilizza l'avversario).
Come che sia, la differenza fra i due film non è una questione di realizzazione del plot. I film di Dune sono la cronaca di un conflitto, idea centrale alla quale sono subordinati tutti gli aspetti. Nel primo film, il conflitto è esterno: il gioco di guerra tra le famiglie Atreides e Harkonnen (con la complicità nascosta dell'Imperatore) e la preparazione, non priva d’angoscia, della famiglia Atreides allo scontro. Così il tema base si allarga con violenza, “fugge” da tutte le parti: sul piano paesaggistico si allarga a più pianeti, sul piano interpersonale si allarga a più personaggi, ivi compresi i diversi membri di Casa Atreides. Nel secondo film, il conflitto è interno a una singola persona, è tutto giocato dentro Paul Muad'Dib, che non vuole essere il Mahdi, il messia dei Fremen, e non vuole andare a sud, dove la sua apparizione fra i “fondamentalisti” sarà il segnale della guerra santa che sterminerà miliardi di persone in tutta la galassia. Verso tale destinazione lo spinge la madre, Lady Jessica, contro di essa lo avvertono le sue visioni; ma Paul non può sottrarsi alla logica delle cose. È quindi corretto dire che in Part One la narrazione era centrifuga, mentre in Part Two è centripeta. Tutto tende a precipitare precipita dentro la soggettività di Paul, come in un buco nero: anche l'elemento avventuroso (gli attacchi agli Harkonnen), l’elemento “esotico” (gli Harkonnen, l’Impero), e perfino la storia d’amore con Chani, tutto è attratto e finisce subordinato al suo dramma: la lotta e poi la resa alla profezia.
Il più consistente degli sforzi del film per sfuggire a questa forza centripeta si ha nella grande pagina del mondo sotto il sole nero dove Feyd-Rautha festeggia il suo compleanno (bellissima la trovata dei fuochi artificiali “a macchia d’inchiostro”). Leni Riefenstahl, che nella prima parte era tenuemente nascosta dietro l’ombra di George Lucas, ora emerge in pieno, culminando nella parata sotto il sole nero: ora – in relazione all'esercizio del potere puro per il quale vivono gli Harkonnen – è apertamente esplicitata. Da notare che l’invenzione di questo sole con la sua luce particolare permette un lavoro sull’immagine che ha anche il vantaggio di rendere la CGI meno evidente.
Lo scontro di volontà fra Paul e la madre pone, in prosecuzione e sviluppo della Part One, il grande tema del rapporto fra il piano e il destino. Quella del Mahdi è una profezia che si autoavvera. Paul parla di propaganda delle Bene Gesserit che si è radicata, ma non può fare niente contro di essa, come mostrano le parole di Stilgar quando nega di essere il messia promesso: “Il Mahdi è troppo umile per dire che è il Mahdi”. Nei nostri giorni, in cui purtroppo abbiamo modo di studiare quotidianamente il pensiero paranoico e le teorie del complotto, è un meccanismo psicologico di facile comprensione.
Il peso che grava su Paul non deriva però solo dalla madre, divenuta un'inquietante santona dal viso tatuato, che comunica telepaticamente con la figlia, la futura (almeno in Herbert) Santa Alia del Coltello, nel suo ventre. Breve digressione: il punto in cui il film non solo si diparte di più dal libro ma tende al massimo la plausibilità è il fatto che – mentre in Herbert Alia è bambina al momento della resa dei conti (grande la sua apparizione in David Lynch!) – qui è ancora nel ventre della madre. Ciò restringe assurdamente i tempi della riconquista di Arrakis, a meno di non pensare a una gravidanza innaturalmente protratta.
Tornando a Paul, la rivelazione della sua discendenza dagli Harkonnen per parte di madre non è solo un colpo alla sua personalità, è la scoperta di una identità che scorre nel sangue. “Noi siamo Harkonnen – e sopravvivremo facendo gli Harkonnen”. Una spietata logica delle cose (e la visione dell’unica possibilità di sopravvivenza) lo porta a diventare ciò che non voleva. Così in Dune: Part Two il dramma di Paul si inscrive in una visione pessimistica universale, valida per tutta la saga: l’impossibilità della libera scelta.

mercoledì 13 marzo 2024

Estranei

Andrew Haigh

Film non perfetto ma interessante, “Estranei” di Andrew Haigh presenta Andrew Scott in un'interpretazione troppo contratta nel ruolo di Adam, uno sceneggiatore omosessuale in crisi creativa. Respinge un’educata avance del giovane Harry (Paul Mescal, migliore) che si è accorto dei suoi frequenti sguardi; in seguito però nasce una relazione. I due abitano in un nuovo condominio di cui sembrano essere finora gli unici inquilini.
In contrasto col realismo un po’ piatto dell'inizio, il film agguanta il suo argomento quando Adam suona alla porta di un villino, e la coppia che lo accoglie (Claire Foy e Jamie Bell) sono i suoi genitori; sembrerebbe il classico ritorno a casa dopo una lunga separazione, se non ci fosse il fatto che hanno la sua stessa età o poco più. Questa stranezza si spiega di lì a poco quando apprendiamo (il film procede per rivelazioni) che erano morti in un incidente 30 anni prima, quando Adam era ragazzino. Confidandosi con loro come mai prima, Adam rivela la sua omosessualità.
Estranei” (dal romanzo giapponese omonimo di Yamada Taichi, da cui Obayashi Nobuhiko trasse nel 1988 il film “The Discarnates”) non è una vera storia di fantasmi: è piuttosto un tuffo nel ricordo, un esame del passato fatto da Adam stesso. Infatti il film si tiene sempre sul filo del paradosso: la cruda realtà che i genitori sono morti è lasciata, nel rapporto con loro, nel “non detto” (ciò crea un’atmosfera sognante), venendo esplicitata solo in un commosso dialogo finale. Bisogna aggiungere (senza spoiler!) che “Estranei” non si ferma qui e prosegue con un triplo salto carpiato di sfida alla famosa “sospensione volontaria dell'incredulità”. Ma non è questo barocchismo il difetto del film, bensì una certa vena didattica e telegrafata, che emerge in particolare nella parte iniziale.

(“Messaggero Veneto”)

sabato 2 marzo 2024

La zona d'interesse

Jonathan Glazer

La Shoah ha rappresentato un punto di non ritorno non perché sia stata il primo genocidio nella storia dell’umanità (già Hitler diceva che poteva sterminare gli ebrei perché c’era stato il precedente dei turchi sugli armeni) ma per la sua natura industriale: non la furia cieca della barbarie scatenata come i turchi, ma la fredda e razionale organizzazione “ingegneristica” da parte di una civiltà culturalmente evoluta e tecnicamente all’avanguardia. Esattamente questo è Rudolf Höss (Christian Friedel), comandante del campo di sterminio di Auschwitz, nel doloroso e bellissimo La zona d’interesse di Jonathan Glazer: uno scrupoloso ingegnere del massacro, molto apprezzato dai superiori e sempre più calato nel ruolo. Verso la fine del film lo vediamo partecipare a una festa, guardare gli invitati (tedeschi) da un’alta balconata e calcolare quali sarebbero i problemi tecnici per gasarli tutti.
Sarebbe meno orribile se fosse un Jack lo Squartatore con la bava alla bocca, ma è un affettuoso padre di famiglia: famiglia che abita esattamente di fronte al campo di sterminio, in una villa di cui la moglie Hedwig (Sandra Hüller di Anatomia di una caduta) cura e abbellisce l’amatissimo giardino. L’orrore è l’Altra Parte; è nascosto da un muro che esclude – tanto ai personaggi quanto a noi spettatori – la vista (salvo le alte ciminiere dei forni che eruttano fumo e luce rossastra), ma non il suono: urla e colpi d’arma da fuoco.
Non è, questa, una tragedia dell’ignoranza ovvero del non voler vedere: Hedwig, le sue amiche, sua madre, stanno al termine di questa catena di montaggio del massacro e si spartiscono i beni degli ebrei assassinati, discutendone placidamente come noi faremmo sulle offerte al supermercato – o come fanno i russi sui saccheggi in Ucraina. Quando è irritata per la scomparsa della madre, Hedwig sfoga il suo malumore sulle polacche costrette a servirla, minacciando di parlare al marito per fare spargere in terra le loro ceneri.
Il campo di sterminio nel film è quindi il gigantesco controcampo negato della serena quotidianità borghese di questa famiglia, dove l’unico incidente è un litigio coniugale su un trasferimento del marito (Hedwig si rifiuta di lasciare la casa). Mentre il romanzo di Martin Amis che ha liberamente ispirato il film contiene una storia “forte” (un uomo si innamora della moglie del comandante del campo e questi incarica un membro di un Sonderkommando di ucciderlo), il film di Jonathan Glazer contiene la pura vita quotidiana: i bambini che vanno a scuola, un picnic sul lago, una festa di compleanno, la visita della madre che ammira il guardino, “angolo di Paradiso”. Come per ogni censura e per ogni preterizione, il non detto ha più potenza del detto, il non mostrato evidenzia ciò che evita di mostrare.
Compaiono, ma visibili solo per noi, orripilanti analogie tra il fumo domestico di sigari o sigarette e quello dei forni crematori, il forno in cui brucia la strega della fiaba di Hansel e Gretel (letta da Höss alle sue bambine) e i forni al di là del muro. Similmente, è il dialogo vivo del film con noi spettatori a lasciarci il compito di cogliere alcune piccole incrinature. Penso per esempio al sonnambulismo di una delle bambine (laddove una ricorrente parte “onirica” appare piuttosto inutile), o la misteriosa fuga della madre. Oppure, a rovescio, il nazismo in erba del figlio adolescente; quando fa al fratellino un brutto scherzo chiudendolo nella serra, questa è certamente la stupidità dispettosa degli adolescenti sotto ogni cielo, ma non possiamo non vedere la crudeltà nazista in filigrana.
Ecco il grande problema sia artistico sia morale del cinema: come raccontare la Shoah – come mostrare il non mostrabile – senza cadere nel finto, oppure, peggio, nella pornografia dell’orrore (occorre ricordare la polemica su Pontecorvo?). Un risultato molto alto l’ha ottenuto nel 2015 Laszló Nemes con Il figlio di Saul, dove la macchina da presa rimane ancorata al primissimo piano e il resto è fuori fuoco. In modo diverso, Jonathan Glazer raggiunge un analogo risultato lavorando sul fuori campo.
Solo in un momento il film abbandona – con estrema potenza – questa politica del controcampo negato; ed è alla fine. Rudolf Höss sta scendendo per lo scalone di un palazzo, vuoto d'ogni anima viva (già questo è onirico); due volte si ferma per degli indicativi conati di vomito a vuoto. Nei vasti corridoi deserti e bui, il suo sguardo è attratto da una piccola luce che brilla. Ebbene, quella luce dà su una porta che si apre e siamo nella Auschwitz di oggi, trasformata in museo della Shoah, con delle donne che fanno le pulizie. Vediamo per la prima volta i forni; vediamo i cumuli di valigie, coi nomi scritti sopra che gridano ancora l’inganno, la montagna di scarpe, le grucce accatastate. Dopo un corridoio con fotografie di vittime, l'immagine ritorna a Höss nel corridoio che guarda (dove?), riprende a camminare, esce di scena.

martedì 27 febbraio 2024

Romeo è Giulietta

Giovanni Veronesi

Un tema molto presente nel teatro di Shakespeare è il travestimento – che è più che mai interessante quando investe lo scambio di genere, con una ragazza che si fa passare per giovanotto (La dodicesima notte, Come vi piace, Il mercante di Venezia). Questo, che implica una particolare carica di ambiguità sessuale, era naturalmente facilitato dal fatto che nel teatro elisabettiano le donne erano sempre interpretate da ragazzi en travesti.
Il concetto è stato sfruttato da sempre nel cinema (un importante film del periodo muto, con Asta Nielsen, metteva in scena un Amleto donna che è stato cresciuto ingannevolmente come maschio per ragioni politiche). È senza dubbio tale concetto che ha suggerito una commedia intelligentemente scritta come Romeo è Giulietta di Giovanni Veronesi. Un anziano regista dispotico (Sergio Castellitto) maltratta e respinge la giovane attrice Vittoria (Pilar Fogliati) all’audizione per il ruolo di Giulietta in un suo spettacolo. Lei giura vendetta e, con l’aiuto di una truccatrice licenziata (Geppi Cucciari), grazie a un abile trucco e un naso finto assai realistico, si fa passare per maschio (il nome della protagonista nasconde un'allusione a Victor/Victoria) e si ripresenta per il ruolo di Romeo. È per beffa, ma quando ottiene la parte, non ha più voglia di svelarsi. Si instaura così un gioco degli equivoci, anch’esso di sapore shakespeariano: vedi la complessa vendetta del fidanzato di lei. Inoltre il vecchio regista si innamora di “lui”.
Giovanni Veronesi è un regista che altre volte ha peccato gravemente di verbosità (il terribile Il mio West non è cinema, è radio!); ma stavolta, alle prese con un materiale così promettente, consegna un film piacevole, sebbene non agilissimo. La parte più divertente sono le audizioni di pessime attrici che precedono quella di Vittoria. Una cosa degna di nota è peraltro il fatto che il teatro di Shakespeare non è fatto per i nostri giovani attori: fra la recitazione umoristicamente modesta imposta dal plot e quella “autentica” non è che ci sia tutta quella differenza. In ogni modo, sebbene Pilar Fogliati sia brava e convincente nella doppia parte, si crea nel film una sorta di disfida generazionale fra i giovani e i vecchi – che i secondi (Castellitto, Margherita Buy, Alessandro Haber) vincono alla grande. In particolare Sergio Castellitto si mangia il film nella parte del vecchio regista gay, ritratto memorabile di un uomo arrogante ma tutt'altro che sciocco. Ci sarebbe molto da eccepire sulla sua gentilezza (lo shakespeariano “latte dell’umana bontà” scorre ben scarso in lui) ma, quanto al contenuto, le sue intemerate violente e sarcastiche non sono solo divertenti ma del tutto giustificate.

martedì 20 febbraio 2024

I tre moschettieri - Milady

Martin Bourboulon

Quanti ne abbiamo visti di “Tre Moschettieri”? Da quelli eleganti e piumati di George Sidney del 1948, con Gene Kelly, a quelli scanzonati di Richard Lester del 1973, da quelli “steampunk”, con una macchina volante, del 2011 a quelli parodistici (chi si ricorda del Quartetto Cetra?). Ora Martin Bourboulon, che ci aveva divertiti l’anno scorso con “I tre moschettieri – D’Artagnan”, torna col secondo capitolo (sorpresa: non l’ultimo!), “I tre moschettieri – Milady”. La cattivissima del titolo è una sfavillante Eva Green, il cui busto generosamente esibito fa strabuzzare gli occhi sia al di qua sia al di là dello schermo, tanto ai personaggi quanto agli spettatori.
I moschettieri si trovano impegnati nell'assedio de La Rochelle e D’Artagnan deve ritrovare l'amata Constance, rapita nel film precedente. L’arcinemica Milady è lì per mettere i bastoni fra le ruote. Bourboulon e i suoi sceneggiatori si sono saggiamente attenuti allo spirito, se non alla lettera, del romanzo; i pochi tocchi di modernizzazione (la presenza di un moschettiere nero, peraltro un principe, o un accenno alla bisessualità di Porthos) sono discreti e non offendono. L’ambientazione naturalmente è realistica: un Seicento sporco e fangoso, in cui i duelli diventano risse rotolandosi a terra e i moschettieri – altro che Gene Kelly – vanno in giro con giubbe scure e cappellacci con piume striminzite, mal rasati e poco puliti. Il dialogo è vivace e spiritoso, la regia è convincente. Se Eva Green è brava quanto bella (vedi le scene in cui, ingannevolmente, si confida), Vincent Cassel (Athos) ruba la ribalta con la sua disperazione trattenuta; ma tutti i quattro sono commendevoli. Un filmone di cappa e spada contemporaneo e tradizionale allo stesso tempo. Che potrebbe desiderare di meglio
l'appassionato di Dumas?

(Messaggero Veneto)