sabato 27 maggio 2023

Ritorno a Seoul

Davy Chou

Anche se Davy Chou è un regista franco-cambogiano, vien da pensare che l’attuale Korean vogue, ossia il successo della Corea del Sud nel cinema e nelle serie tv, c’entri con l'interesse del pubblico per il suo film Ritorno a Seoul; che però è piuttosto un film francese, nonostante l'ambientazione.
Nata in Corea, Freddie/yeon-hee (Park Ji-min) è stata adottata piccolissima da una coppia francese. Da grande, vuol conoscere i suoi veri genitori, ed ha un rancore verso di loro; più verso il padre, che si è fatto ritrovare, che verso la madre che continua a sfuggirle. Parlando per metafora, questo film è dal punto di vista narrativo un grande campo/controcampo che ha da un lato Freddie, dall’altro la Corea, in primis i suoi familiari coreani ritrovati (pentiti di averla data in adozione). Fra di essi il padre (Oh Kwang-rok) è il miglior attore del film. Sta di fatto che il “controcampo” è più interessante e ricco di realtà umana che il lato della protagonista. Dispiace quindi che il film sia focalizzato fortemente su di lei.
Altera e distaccata (o si potrebbe dire, malmostosa) Freddie attraversa il film – che si svolge nell’arco di otto anni – con un atteggiamento ostile verso tutto, con punte di decadentismo un po’ ingenuo (l’assenzio: ombra di Des Esseintes!). Una cosa certa è che non è portata per le lingue: in sette anni e molti viaggi non impara il coreano. Dura anche con i genitori adottivi, questa figura umbratile è più trascinata dalla sceneggiatura che motore di essa: la sua rabbia si traduce in comportamenti improvvisi, ingiustificati e bizzarri, che hanno un che di intellettualistico e programmatico – ove cioè il film ricerca troppo consciamente l'effetto artistico – e ricordano l'immortale Mi fanno male i capelli” di Monica Vitti degli anni Sessanta.
La narrazione ellittica è poco equilibrata, con personaggi che spariscono in un soffio. Ci sono anche cose belle nel film; la scena dell'incontro con la vera madre, poco prima del finale, è molto ben realizzata. Ben pensata la differenza, che si legge nelle didascalie, fra quello che dice la malmostosa in francese e la forma attenuata, per cortesia orientale ma non solo, dell'amica che traduce in coreano. Una bella fotografia (di Thomas Favel) rende bene le strade di Seoul. Tuttavia, Ritorno a Seoul non si libera da un’impressione di concettoso e gonfiato.
Se i distributori avessero fatto uscire più film coreani nel corso degli anni, invece che lasciarli nella gabbia dorata dei festival, il pubblico avrebbe potuto abbeverarsi alla vera tradizione, dura, dolente, rabbiosa e sfrontata, dei grandi mélo coreani (da A College Woman’s Confession di Shin Sang-ok, 1958, a The Apartment with Two Women di Kim Se-in, 2021), senza bisogno di rivolgersi a questa mezza Corea infranciosata.

domenica 21 maggio 2023

Peter von Kant

François Ozon

Appena uscito dai nostri schermi il delizioso Mon crime, di François Ozon, è arrivato Peter von Kant (per la verità sono stati girati in ordine inverso). Il titolo fa risonare una campanella nella memoria? È giusto: Ozon riprende Le lacrime amare di Petra von Kant di Rainer Werner Fassbinder (1972, tratto da un suo testo teatrale), cambiando il sesso dei protagonisti (Fassbinder parlava di un amore omosessuale femminile – pur avendo il film contenuti autobiografici – e Ozon lo porta al maschile). Il film – i cui titoli si aprono su una foto di Fassbinder – rende omaggio alla filiazione anche riportando Hanna Schygulla, che in Fassbinder era Karin, mentre qui è la madre.
Colonia 1972. Peter von Kant (Denis Ménochet) è un regista cinematografico; l’amica e star Sidonie (Isabelle Adjani) gli presenta un proprio giovane protetto (Khalil Garbia); Peter si innamora a prima vista, lo porta a vivere con sé, ma quest’amore forse è unilaterale, di certo diverso e opposto dalle due parti. Amir è un profittatore, e infine lo abbandona. Forse espressa meglio in Fassbinder, è anche una questione di classe (la proletaria Karin e la sua amante ricca). Il vecchio film e il nuovo tracciano una riflessione sulla dialettica servo/padrone (e amante/amato e artista/modello). A tutto questo assiste, muto e maltrattato (“Karl! Champagne!”), il factotum e collaboratore Karl (Stefan Crépon), la Marlene di Fassbinder, pure lui parte in causa in questa amara spirale. Sublimi le sue occhiate – è il più espressivo dei personaggi pur non pronunciando una parola per tutto il film.
Ora, Peter è un regista, mentre la Petra di Fassbinder era una disegnatrice di moda; ciò permette a Ozon una conclusione (forse) leggermente meno disperata. Perché la moda è transeunte, un abito vive lo spazio di una stagione; il cinema, benché immateriale, rimane: a Peter resta non solo il ricordo di Amir ma la sua immagine fissata su pellicola in bianco e nero. Ma all’immagine tende la mano invano. E’ davvero un miglioramento possedere l’icona, come sembra pensare Ozon? A pelle, si risponderebbe di sì; anche se in verità è un replicare il dolore. Ma questa è la contraddizione dell'amore, un cerchio che torna sempre su se stesso.
Ancora a proposito del suo mestiere di regista: nell’intervista/provino ad Amir, Peter è preda di una frenesia registica (“Coupez!”) che mostra la bulimia vitale, l’identificazione dell’occhio con quello della cinecamera, in ultima analisi della vita con l’opera. Di qui il suo pigmalionismo interessato (ma non lo era anche il Pigmalione originario?) e destinato alla sconfitta. Questa identificazione verrà messa in crisi e distrutta alla fine del film.
Fassbinder aveva fatto del suo film un Kammerspiel, dichiaratamente teatrale, entro un arredamento sovranamente camp. Lo stesso fa Ozon, in una replica peraltro originale (ivi compreso un ritmo volutamente più veloce). Nella bellissima regia, con grandi giochi di sguardi nei campi/controcampi, e un grande uso delle inquadrature frontali, e degli specchi, da notare lo splendido l’uso del colore, che fa coesistere – memorabile l’arrivo di Amir da solo – i toni rossi e caldi connessi a Peter e quelli grigiazzurri e freddi connessi ad Amir, nonché al suo ricordo (quando Peter balla da solo nella luce blu), ma anche al b/n della pellicola.
Uno dei punti di forza di Ozon, questo eccellente regista francese, è l’ottima direzione degli attori; e qui i pochi interpreti sono tutti di una bravura da mozzare il fiato, a partire da Denis Ménochet e Stefan Crépon
. Chissà se sarebbe piaciuto a Fassbinder quest’omaggio? A noi certo sì.

giovedì 18 maggio 2023

Il sol dell'avvenire

Nanni Moretti

Contrariamente alle apparenze, Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti è più nella linea de La messa è finita o de La stanza del figlio che in quella di Bianca o Palombella rossa. E’ lo stesso che dire che si situa nella linea dei migliori film di Moretti.
Come mai questo? Moretti in ogni suo film inserisce una serie di topoi, di tratti, Sterne direbbe hobby horses, che non servono tanto a caratterizzare il personaggio/protagonista – è cosa ovvia che Moretti fa un cinema auto-centrico – ma come marche di riconoscimento, che costruiscono un universo morettiano immediatamente riconoscibile dagli spettatori e immediatamente in contatto affettivo con gli appassionati. Non voglio dire con questo che sia insincero: il contrario: per esempio, il fatto di usare in tal senso la Nutella (non in questo film) non si oppone al fatto che sul piano personale la Nutella gli piaccia molto, anzi, ne procede. E’ una costruzione a metà fra l’autoritratto e l’autocaricatura (perché per forza deve esagerare questi tratti) – che fra l’altro dà ai suoi film una invidiabile continuità.
Ora, Il sol dell’avvenire si accomuna, come detto, ai suoi film migliori perché, come quelli, cala l’autoritratto in una struttura narrativa forte, che lo assorbe e così facendo paradossalmente lo esalta. Non c’è nulla di forzato o di sovrimposto in questo film. C’è un insieme di aree narrative, immaginiamole come cerchi, che si intersecano: la crisi del matrimonio fra Moretti e Margherita Buy; il film con Silvio Orlando sul circo ungherese e il PCI del 1956 all’epoca dell’invasione dei maledetti russi, film che il regista Giovanni (Moretti) non riesce a completare per ragioni produttive e organizzative, ma inconsciamente prima di tutto artistiche; il racconto interno al film-nel-film, che indicativamente (addirittura Giovanni non se ne accorge e glielo insegna l'attrice Barbora Bobulova) è anch’esso la crisi di un rapporto. L’intersecarsi e il ruotare di questi cerchi narrativi offrono a Nanni Moretti l’occasione per toccare ora un punto ora un altro della sua personalità senza bisogno di spingerle in primo piano. Inutile osservare che fra questi temi c’è anche il terrore del blocco creativo (per un solo esempio, Aprile), un aspetto della grande paura dell’afasia che attraversa il suo cinema.
Prendiamo in esame una delle scene meglio inventate del film: Moretti/Giovanni dice “Devo caricarmi”, comincia a cantare in auto una canzone, quella canzone si allarga in montaggio a tutta la troupe del film-nel-film, che canta, con Moretti al centro, come modo di “caricarsi” – ma l'inquadratura frontale, da palcoscenico, e poi dall’alto angolata, dice qualcosa di più: dice che anche se il film-nel-film non è un musical qui si realizza almeno per un momento quel musical di cui Moretti in maniera semiseria parla sempre, quello con Silvio Orlando pasticciere trockista, che è un po’ il suo ironico Mastorna.
C’è dunque un’autentica felicità nel modo in cui il “morettismo” viene riproposto nel film (non sempre: per esempio la sequenza della contestazione del film violento, pur avendo senso in quanto esposizione delle preoccupazioni etiche di Moretti, è un po’ troppo lunga). Di tutto questo fa parte, ed esplode nel presente film più che mai, il concetto di utopia.
Perché l’improvviso rovesciamento, la torsione, impressa al film-nel-film va al di là del what if, le svolte storiche immaginarie alla Tarantino. Quelle di Tarantino hanno una giustificazione logica nel caso (C'era una volta a... Hollywood) o nell’azione umana entro il contesto (Bastardi senza gloria). Qui invece il finale del film-nel-film non è storia alternativa, non è controfattuale (Moretti non è così ingenuo: se il PCI all’epoca avesse condannato l’attacco sovietico all’Ungheria, cosa di per sé impossibile essendoci Togliatti e il gruppo dirigente togliattiano, lo avrebbe fatto in forme ben più caute, e certo non sulla spinta di una petizione e una dimostrazione). Moretti dice un’altra cosa: il suo finale è l’esplosione di un desiderio che prende forma svincolandosi in toto dalla realtà storica. Tant’è vero che nella manifestazione campeggia la gigantografia di Trockij (il Trockij della vecchiaia antistalinista) – e qui per inciso rispunta il Mastorna del pasticciere trockista. Un richiamo all’utopia – antistorico, certo, come è antistorico il gesto di Moretti che straccia il manifesto separando Lenin da Stalin, ma questa osservazione non ci conduce assolutamente a nulla. Non è la storicità che qui viene messa in scena, è il desiderio, e Trockij appare come puro segno del desiderio. Utopia – ed ha senso che si realizzi attraverso il cinema, in un film peraltro ricchissimo di riferimenti e citazioni, da Fellini a Démy.
E’ per questo, per questa ventata di irrealtà, che la conclusione può uscire dalla cornice diegetica unificando nel finale il film e il film-nel-film, per cui nel corteo possono apparire insieme gli interpreti e le interpreti dei precedenti film di Moretti (ed è Fellini, naturalmente, il suo manifesto metacinematografico di Otto e mezzo), e Moretti stesso può salutare sorridendo in macchina.

sabato 13 maggio 2023

Plan 75

Hayakawa Chie

E’ una tragica tradizione dell’antico Giappone, leggendaria ma non del tutto, l’ubasute: l’usanza di abbandonare i vecchi a morire volontariamente in zone isolate, in tempi di fame, perché non pesino sulla famiglia. Ne parla il famoso romanzo Narayama bushiko di Fukazawa Shichiro, portato sullo schermo prima da Kinoshita Keisuke in forme reminiscenti dell’astrazione del Kabuki e più tardi da Imamura Shohei in forma realistica.
Oggi il Giappone non conosce più carestie o guerre intestine, ma paradossalmente soffre di nuovo il problema della vecchiaia e del suo peso sulla popolazione. E’ uno dei paesi col maggior tasso di pensionati al mondo, il che rappresenta un grave peso sull'economia, con proteste dei contribuenti attivi (i quali presumibilmente sono convinti di godere dell’eterna giovinezza).
Plan 75 di Hayakawa Chie prende le mosse da questo problema sociale. La regista-sceneggiatrice ha sviluppato un suo episodio nell’antologico Ten Years Japan del 2018 per girare il presente film, distribuito in Italia dalla Tucker Film, ambientato in un Giappone distopico del prossimo futuro. Il governo ha lanciato il Plan 75, un programma di eutanasia volontaria per gli over 75 (e già si pensa di abbassare il limite a 65). Gli anziani che accettano il suicidio assistito ricevono consulenza e aiuto psicologico con una serie di conversazioni telefoniche, nonché una piccola “buonuscita” da spendere come vogliono. Il film è acutamente satirico sul modo in cui il governo “vende” il piano, con manifesti sorridenti e colorati, spot tv con una testimonial anziana, offerte come il “pacchetto di gruppo” per cremazione e sepoltura. C’è una vera accuratezza nella descrizione in ogni dettaglio dell’organizzazione del Plan 75, che fa venire in mente un grande autore di fantascienza satirica oggi dimenticato quale Robert Sheckley.
Il film non è però una satira in senso stretto; sceglie la via del realismo psicologico, seguendo con adesione le vicende incrociate di alcune persone: Michi, una donna di 78 anni che decide di aderire al programma (interpretata dalla grande attrice Baisho Chieko, che ha appena ricevuto il premio alla carriera al Far East Film Festival 2023); un giovane che si occupa della procedura di suicidio di un anziano e scopre che è un suo zio allontanatosi dalla famiglia; un’immigrata filippina che lavora allo smistamento degli oggetti trovati addosso ai morti – ove è chiaro il paragone implicito con il nazismo.
Il film parte da un dato di fatto molto attuale e presente, che è la perdita di senso dell'anziano nella società contemporanea. Da un lato viene a mancare il rispetto tradizionale che lo circondava (la cortesia con cui è trattata Michi nell’ambito del Plan 75 ha piuttosto qualcosa di commerciale); dall’altro l’anziano stesso non trova posto nella grande macchina, come mostrano alcune scene di Baisho Chieko. In questo senso, l’“essere fuori posto” della vecchia Michi è ancora più impressionante dell’invenzione del Plan 75: l’arco inventivo si tende dalla speculazione futuristica a sfondo satirico fino ad incontrare la pura descrizione della realtà concreta.
La regia di Hayakawa Chie, al suo primo lungometraggio, non ha grandi guizzi, appare perfino un po’ scolastica, ma ciò può essere attribuito a una scelta di ritegno adeguato all’argomento; e infatti ha un innalzamento emotivo nel bel finale aperto. La fotografia di Urata Hideho crea un mondo grigio e crepuscolare che pesa anche sui momenti di allegria di un gruppo di anziani destinato a disperdersi. In conclusione, il film sa contemperare assai bene l’aspetto speculativo su un cupo futuro e quello sull’interiorità dei personaggi, in particolare della protagonista, raggiungendo un effetto non solo di drammaticità ma anche di veridicità.

venerdì 12 maggio 2023

Far East Film Festival 2023: Thailandia, Filippine e altri


Sul piano della realizzazione You & Me & Me (Thailandia) di Wanweaw e Weawwan Hongvivatana è un gioco di specchi. Due registe gemelle, dai nomi propri a chiasmo, scrivono e dirigono un film su due gemelle, interpretate da una sola attrice in doppia parte, la brava esordiente Thitiya Jirapornsilp. You e Me sono due gemelle identiche (si accenna all’elemento della telepatia emotiva dei gemelli), praticamente due anime in un (doppio) corpo. Sono abituate a scambiarsi l’una con l’altra a scuola, quando serve per gli esami, e non solo. In una distesa vacanza dalla nonna in campagna – è il 1999 – giocano a confondersi anche con il ragazzo che piace a entrambe, e questo rischia di avere conseguenze gravi. 
Anche sul piano del racconto il film è un gioco di specchi, basato su una costellazione di aspetti correlati del passaggio del tempo e sul concetto di fine. C’è l’anno 2000 che sta per arrivare e terminare il millennio; c’è il Millennium Bug (ricordate?) con la paura sul mass media di una “fine del mondo” digitale, che nella fantasia delle gemelle diventa la fine del mondo e basta; c’è una fine del loro mondo perché la famiglia si sta spaccando e se così sarà You e Me dovranno dividersi andando a stare una col padre e una con la madre; c’è, più insidiosa e profonda, la fine della preadolescenza, col primo amore, che significa la scissione di quella unità gemellare per cui erano sempre insieme e condividevano tutto.
Siamo nate insieme… ma alla fine si muore da soli”, sentiamo nel film; e anche se la situazione non diventa tragica (intanto una trasmissione tv dà notizia del suicidio di massa di una setta), devono ammettere malinconicamente l’esistenza di una differenza di personalità tra loro, e accettare fraternamente di essere due persone separata. L’uno è diventato due. Così la divisione viene ricomposta nell’accettazione della crescita, e una nuova unità si forma a livello superiore, in un sentimento agrodolce di speranza per il futuro e rimpianto per un passato che non tornerà più. E’ il significato del conto alla rovescia per l’anno 2000 nella scena poetica dell’attesa insieme – "Pensi che il mondo finirà?"- "Non so... ma non ho più paura" 
  allo scoccare del 2000 non finisce il mondo ma finisce il film. 

Meno interessante The Sales Girl, una rara entrée della Mongolia (solo la seconda nei 25 anni del festival) diretta da Janchivdorj Sengedorj, una commedia di coming of age (una ragazza si trova a lavorare in un pornoshop per sostituire temporaneamente un’amica, e l’anticonformista padrona del negozio la guida sulla vita della maturità): piuttosto verbosa ma non priva di momenti di verve, fra cui uno senz’altro divertente alla Tutti pazzi per Mary. Mi spiace di avere perso il film d’inaugurazione, il singaporese/coreano Ajoomma (è l’equivalente dell’inglese Auntie: una formula amichevolmente rispettosa verso le donne di mezza età). Ma spostiamoci alle Filippine.

Nell’intelligente commedia Where Is the Lie? di Quark Henares, Janzen (Ed Jallorina) è un trans, di aspetto femminile ma non ancora operato. Come tutti/tutte noi, ha i suoi problemi amorosi, e se ne lamenta sui social. Beanie (Maris Racal) è una regista pubblicitaria che odia i trans e fa a Janzen, che non conosce di persona, uno scherzo crudelissimo di catfishing (costruzione di un’identità immaginaria online): finge di essere un giovane, di nome Theo, innamorato di lui. Questo gioco malvagio la prende sempre di più; insieme alla sua aiutante Dina (sono una coppia in confronto alla quale Crudelia De Mon sembra il Dalai Lama) dà una realtà fisica a Theo nel corpo di un muscoloso aspirante attore stupidotto (Royce Cabrera) e lo fa incontrare con Janzen. Si crea così il classico gioco della menzogna che si sviluppa “a valanga”, in questo caso manovrato dalla malvagità di Beanie, e lo svolgimento è perfidamente spiritoso. Bravi tutti gli interpreti, ma eccellente Maris Racal, che dà un’interpretazione variegatissima sul piano psicologico, al punto che durante il film non capiremo mai Beanie fino in fondo (ha momenti di pietà che si rovesciano in malvagità ulteriori). Basta questo accenno per capire che, come tutte le buone commedie, questo film filippino sotto la risata parla del dolore umano.

A molti spettatori non è piaciuto; ma In My Mother’s Skin di Kenneth Dagatan è un eccellente horror, che mette in scena con intelligenza un dramma “chiuso” con pochi personaggi. Una famiglia filippina, padre, madre e due figli, vive in una casa nella giungla, alla fine della seconda guerra mondiale, quando i giapponesi sono in ritirata. Il padre (un tipo alquanto losco) lascia gli altri, promettendo di tornare. La madre è malata e non hanno quasi niente da mangiare. Nella disperazione, la figlia maggiore, la preadolescente Tala, si avventura nella foresta. In una capanna dove c’è un cadavere coperto di insetti, trova su un piatto una caramella; fa l’errore di mangiarla…
Suona fiabesco? In effetti il film è una versione ultranera delle fiabe. Infatti, in una capanna che è anche una specie di cappella blasfema, Tala incontra una fata, anche lei a metà fra una divinità della giungla e una Madonna cristiana, con un volto giovane e fresco ma non privo di ambiguità. Da lei implora e riceve aiuto. Ecco qui un aspetto interessante del film: le sue connotazioni sinistre passano al di sopra della comprensione della bambina disperata, e questo doppio livello dà alla storia un elemento tragico. Il film diventa via via più crudele man mano che l’aiuto di questa “fata” – connessa agli insetti – si rivela un patto faustiano. La fotografia di Russell Morton è abile nel bilanciare attentamente la natura della luce in relazione alle apparizione della “fata” (mentre il montaggio, specie nella prima parte del film, si diletta un po’ troppo di stacchi ellittici). Senza fare spoiler sul finale, basta dire che ha nettezza e logicità di soluzione.
E’ anche interessante, per la cultura filippina che è molto cattolica, la mancanza di qualsiasi contraltare cristiano alle forze del male. Si prega molto ma inutilmente; e l’altare di famiglia risulta utile solo come nascondiglio.

Altro horror, ma stavolta non riuscito, del solitamente migliore Mikhail Red, Deleter unisce due due idee, la prima delle quali è interessante, ma con uno svolgimento letargico e banale. L’idea interessante è quella di usare per il ruolo della protagonista Lyra una deleter, impiegata in una ditta col compito di cancellare (delete) dalla rete video violenti, sessuali eccetera, prima che possano diffondersi sui social. Ne vediamo diversi (fra cui c’è un cretino che mangia vermi, ma di solito sono crudeli), e all’inizio ci si può chiedere per un attimo se alcuni non possano essere reali, ma probabilmente no. Il lavoro che svolgono questi impiegati – al servizio del viscido Sir Simon – naturalmente pesa sulla loro psiche, e infatti una collega di Lyra, Eileen, si suicida. Qui entra il secondo tema: il fantasma di Eileen infesta l’edificio e perseguita Lyra. Una sorpresa finale mostra che c’è dietro anche di più del peso del lavoro.
Il lato “lavoro del deleter” non è male come idea, come già detto, ma la sceneggiatura è strascicata (fra l’altro la recitazione della protagonista non è un gran che), mentre l’aspetto horror spettrale non solo si sviluppa tardi ma è la più piatta e noiosa imitazione del J-Horror che si possa immaginare.

Andiamo in Indonesia, dove ritroviamo una regista che è quasi una regular del festival, la brava Upi. Sri Asih è un altro tassello (dopo Gundala di Joko Anwar, già passato al FEFF) nella costruzione di un universo cine-fumettistico indonesiano che fa concorrenza locale al MCU, ed è già più piacevole e divertente. Il film è una piacevole versione cinematografica del fumetto di R.A. Kosasih su una supereroina, incarnazione della dea Asih, apparso negli anni Cinquanta. Siccome sono passati tanti anni, la sceneggiatura (di Upi e Joko Anwar) ha l’intelligente trovata di non fare un reboot ma inserire la storia della prima Sri Asih, che aveva un altro nome, nella narrazione, come precedente incarnazione (anche con citazione cinematografica). Alla fine si realizza anche l’incontro di Sri Asih con Gundala, già visto nel film omonimo.
Alana, nata da genitori morti nell’eruzione di un vulcano (che imprigiona la malvagia Fire Goddess), ha una carriera di lottatrice professionista sotto la guida della madre adottiva che ha una palestra. Si scontra con il giovane Mateo (un esempio di jerk se mai ne ho visto uno) e con suo padre, uno degli uomini più potenti del paese. Da notare il sottotesto politico con la polizia totalmente corrotta e asservita ai ricchi.
Questo potrebbe essere il difetto del film: Alana è una super-picchiatrice sul ring, ma l’elemento supereroico e soprannaturale in pratica viene fuori dopo cinquanta minuti. Va detto però che la regia di Upi ha un’energia per cui il film non è mai noioso. Un paio di ellissi sfacciate servono a tenere in ombra certi sviluppi per tenerli come sorpresa (una si prolunga anche fino al prossimo film!, sebbene non sia troppo difficile indovinare il mistero nascosto). Dopo la rivelazione soprannaturale il film fila liscio, con una mitologia (creature maligne contro la dea Asih) bastante per una serie di film, e un’avventura vivace e piacevole, dove Alana/Sri Asih ha dei superpoteri che le permettono di stendere qualsiasi figlio di puttana le si faccia incontro – finché non deve battersi con un demone capace di dissolversi in fumo nel finale. Molto bella la scena dell’iniziazione di Alana come Sri Asih, un misto di rito religioso e di danza da parte della protagonista Pevita Pearce.

Anni fa il FEFF ha presentato l’ottimo (e molto inquietante) horror Satan’s Slaves di Joko Anwar. Satan’s Slaves: Communion è il sequel, ed è il secondo di una trilogia. Dico subito che Joko Anwar (anche sceneggiatore) ha un’ottima capacità sul piano visuale, e il film qui ha buone carte da giocare. Però, mentre nel primo film le immagini horror si inserivano in un continuum (indimenticabile quella casa col ritratto che guarda dall’alto!), qui alcune immagini memorabili emergono dal flusso come scogli isolati: Satan’s Slaves: Communion colpisce più per le sue parti – ottimo ad esempio l’incidente dell’ascensore – che per l’intero. Sul piano narrativo infatti il film è alquanto faticoso, e dopo un ottimo prologo perde spinta. Forse c’entra anche la moltiplicazione dei personaggi attivi (qui un gruppo di giovani e un trio di bambini). Ritornano i personaggi del primo Satan’s Slaves, e il problema del presente film è che riposa pesantemente sul primo – ovvero sulla conoscenza di esso da parte dello spettatore. 
Alla villetta isolata del primo film, questo oppone un enorme palazzone di alloggi popolari, dai tetri corridoi, che ricorda molto il J-Horror. Vero che esso consente a Joko Anwar un'inquadratura assai bella nel finale, con la zattera che si allontana nella pianura allagata e il palazzone sul fondo che si staglia contro il cielo tempestoso. L’aspetto più interessante sul piano horror sono i morti nelle case: ce ne sono molti in seguito all’incidente dell’ascensore. Naturalmente, da un lato l’horror capitalizza sempre sulla paura del cadavere, dall’altro questa paura per noi occidentali è aumentata da modalità che per i musulmani sono normali (lasciare i morti in casa col viso scoperto e cotone nelle narici prima del funerale), e quindi deriva dall’esotismo più che dal fatto intrinseco. Beninteso, il film li usa comunque in chiave horror. Senza sorpresa, questi morti risorgeranno come pocong (morti viventi nei loro sudari) – ma in modo stranamente moderato sul piano visivo: insomma, fanno più paura da morti che da morti-vivi.

Il film malaysiano Abang Adik ha vinto il Premio del Pubblico, nonché altri due premi, ed ha entusiasmato gli spettatori. Opinione personalissima, e magari errata, di uno dei pochi che non è rimasto conquistato dal film: esordio registico di Jin Ong (già noto come produttore: Miss Andy e altri film), da lui scritto e diretto, questo film mi è sembrato una strana mescolanza di pregi e difetti.
Abang e Adik significano fratello maggiore e fratello minore. Questi due fratelli (non di sangue) vivono nella società povera di Kuala Lumpur senza casta d’identità. Sono malaysiani di origini cinesi – una comunità malaysiana inferiore sul piano politico a quella malese (Malay). Il minore, Adik, è uno stronzetto che vive di espedienti; il maggiore, Abang, che lo protegge, è sordomuto. Un’assistente sociale cerca di proteggerli – e per tutto ringraziamento viene uccisa (sia pure in modo preterintenzionale durante un’esplosione di violenza) da Adik, il quale dà di matto quando sente parlare di suo padre che lo ha abbandonato.
Questa svolta avviene circa a metà del film, ed è un peccato perché è da qui che Abang Adik assume un suo interesse. Abang fugge col fratello e poi si autoaccusa dell’omicidio. In prigione cerca di lasciarsi morire di fame ma poi accetta il suo destino (la condanna a morte). Adik mette la testa a posto e nell’ultima inquadratura va a incontrare suo padre. Il film è melodrammatico (non nel senso più alto del mélo), con un paio di trovate forse troppo “poetiche” (Abang che “vede” in cella suo fratello piccolo). In ogni modo, c’è un elemento decisamente intenso nella recitazione muta di Kang Ren Wu (Abang) e il suo discorso finale è potente. E’ interessante notare come negli ultimi anni la lingua dei segni usata dai sordomuti, che per forza di cose deve affidarsi all’aspetto gestuale, per il potere della sua evidenza fisica ritorna sempre più spesso nel cinema orientale (Drive My Car di Hamaguchi Ruysuke, Love Life di Fukada Koji). La bella fotografia è di Kartic Vijay (The Soul).

E’ puro divertimento, ma è vero divertimento, il malaysiano Coast Guard: Ops Helang (Operazione Aquila). I membri della Guardia Costiera contro pirati crudelissimi, che sono anche riusciti a infiltrare le loro fila. Gli eroi sono un uomo, il tenente Hafiz, e una donna, il tenente Melati – che nel bel mezzo dell’assalto finale depongono le armi da fuoco per fare a pugni o a coltellate con i rispettivi nemici personali (un po’ troppo cavalleresco a mio parere). Dapprima i pirati, per vendicare un vecchio conto, prendono prigionieri Hafiz e un gruppo di invitati alla sua festa di fidanzamento, massacrando gli altri. Poi succede molto altro, ma mi fermo per non fare spoiler.
La realizzazione tecnica è molto buona (il film è uno spottone per la Coast Guard, che ha evidentemente collaborato coi suoi mezzi); si nota una vera professionalità di regia, montaggio e fotografia, con un buon uso del drone fin dalla prima immagine. Com’è prevedibile in un film volutamente iper-popolare, si pigia sul pedale dell’esagerazione, con i nemici che sono sadici e ghignanti, e il loro vice-capo (Adlin Aman Ramlee) che cerca di stabilire un record di overacting: ma visto il clima generale ci sta. Devo dire che l’infiltrato dei pirati a bordo della nave della Coast Guard si indovina subito, ma non importa: il film, veloce come ritmo, è comunque uno spasso. Mi spiace aggiungere che il regista Pitt Hanif è morto in un incidente dopo la fine delle riprese.

Come mi è già capitato di scrivere in questi resoconti, quest’anno il FEFF ha superato se stesso sul piano delle retrospettive, con quattro tributes (Baisho Chieko, Johnnie To, Po-Chih Leong e Jang Sun-woo), un classico del 1982 restaurato in “prima” internazionale (Nomad di Patrick Tam) e una mega-retrospettiva su grandi film degli Ottanta e Novanta, in pratica “il FEFF prima del FEFF”. E non ho parlato degli interessantissimi documentari… Mai come quest’anno uno ha desiderato di possedere il dono dell'ubiquità.


martedì 9 maggio 2023

Far East Film Festival 2023: Giappone


Si può immaginare che una sanguinosa vicenda storica venga raccontata come una storia d'amore? Si può – ma il rischio è di romanticizzare l’epoca e indebolirne la plausibilità. Non è questo il caso dell'ottimo The Legend & Butterfly di Otomo Keishi (del resto, il regista della saga Rurouni Kenshin non è l’ultimo venuto nel cinema in costume). In un’epopea di quasi tre ore il film, psicologicamente acuto e di sorprendente freschezza, immagina l’amore tra due personaggi storici, il terribile signore della guerra Oda Nobunaga e sua moglie, Lady No, nell'arco di trent’anni nel Giappone del XVI secolo. Non un amore a prima vista: è un matrimonio politico, al quale la sposa arriva con pessime intenzioni; ma prima nasce l’ammirazione di Nobunaga per i suoi consigli e le sue capacità strategiche, poi la simpatia, poi l’amore reciproco. Non manca, chiaramente, la messa in scena sontuosa sia delle cerimonie sia delle battaglie, che è un caposaldo dei film in costume; e c’è un’eco di Kurosawa nel potente finale: non parlo della battaglia ma del dopo, con il protagonista intrappolato da solo nel tempio. In seguito, il desiderio di vivere esplode in una fantasia ingannevolmente narrata come diegesi, ciò che ricorda molto Un avvenimento sul ponte di Owl Creek di Ambrose Bierce (un racconto che ha influenzato davvero profondamente il cinema). In primo luogo nel film emerge, con due eccellenti attori e un dialogo spiritoso, un rapporto vivace e commovente, che trasforma due figure dei libri di storia e dei dipinti su seta rendendole umane e concrete. 

Due film già passati al FEFF, Thermae Romae (nella sua parte giapponese) e Melancholic, hanno popolarizzato quella peculiare istituzione che è il sento, il bagno pubblico (mentre invece onsen sono le sorgenti calde). Al sento rende un caldo omaggio Yudo: The Way of the Bath di Suzuki Masayuki.
Dopo la morte del padre, gestore di un sento in una cittadina, il maggiore di due fratelli estraniati – un architetto non più di successo a Tokyo – torna allo stabilimento, ora gestito dal minore, con il piano segreto di demolire l’edificio e vendere il terreno.
E’ un'illustrazione completa dell’organizzazione dei bagni e del modo di pensare che vi è connesso (“Ti bastano poche centinaia di yen per ottenere un completo reset”). Non scherzo se parlo di un film laudatorio! Alcune scene mostrano un Maestro e i suoi discepoli che intendono la Via del Bagno in senso filosofico-mistico, come la Via dell’Arco della tradizione zen. Questo è ironico, certo (in punto di morte, poi, il Maestro dice “E’ solo un bagno. Perché riverirlo come una filosofia?”), ma al fondo del film c’è effettivamente un concetto generale: la centralità della natura nel modo di pensare giapponese.
Attorno al racconto base si disegna tutta una serie di vignette sui clienti del bagno – o non clienti, come un pomposo critico dei bagni. Queste figurette, provviste di una backstory agilmente schizzata, sono molto piacevolmente delineate, e creano un delizioso contraltare alla storia dei due fratelli. Come non adorare la coppia del ristorante vicino al sento, con dispute sulla birra che lui non deve bere, o il gaijin (straniero) per conquistare il severissimo suocero diventa più giapponese dei giapponesi?
Andando avanti, questo film un po’ lungo diventa quasi travolgente. Si esce dalla visione chiedendo (inutilmente perché siamo a Udine): “Dov’è il sento più vicino?”

Avete mai pensato ai kombini, o convenience stores, i minimarket diffusi dappertutto in Giappone, come a luoghi liminali? Se sì, siete in sintonia con Mark Schilling e Miki Satoshi. Il primo, critico cinematografico del Japan Times di Tokyo e consulente del FEFF per il Giappone, ha scritto un soggetto intitolato The Convenience Store; il secondo lo ha sceneggiato, assai liberamente, e portato sullo schermo come Convenience Story. Il testo di Schilling è stato pubblicato ed era in vendita al Festival, per cui possiamo farci un’idea dei cambiamenti intervenuti tra E ed Y.
Devo dire sinceramente che il soggetto di Schilling è migliore della sceneggiatura di Miki. Eterno problema di questo regista interessante e a tratti geniale: non è che non abbia idee, è che ne ha troppe. Ha una sorta di generosità che lo porta ad affastellarle dentro il film, a valanga, col risultato di costellarlo di momenti/figure memorabili, ma spesso a scapito della composizione nel suo complesso. E’ il caso del presente film, che si fa apprezzare più come collezione di scene che come intero. Ha dei momenti assolutamente affascinanti, disposti su una linea narrativa volutamente ambigua e contraddittoria, in ultima analisi un po’ umbratile (come il suo protagonista), relativa a un grumo tematico che comprende il desiderio, la scrittura (è la storia di uno sceneggiatore) e in primo luogo la morte.
Non è solo il minimarket a porsi come luogo, o figura, liminale. Dopo aver abbandonato il cane Cerberus, il protagonista Kato col suo camioncino urta e rompe una statuetta di Jizo (non per nulla gli chiede di non maledirlo): una divinità del transito fra il mondo e l’aldilà. Abbiamo già sentito il nome Cerbero, ma di riferimenti all’aldilà è piena la dimensione ultraterrena in cui finisce Kato (con al centro un convenience store): dalla Cavalcata delle Valchirie all’avvertimento di Euridice a Orfeo (“Qualunque cosa succeda, non voltarti”); soprattutto, nella luce rossa e verde che bagna i personaggi in certe scene, non è difficile riconoscere la luce d’oltretomba di Tokaido Yotsuya Kaidan di Nakagawa Nobuo. Non per nulla questa luce trionfa nella bella sequenza dello stabilimento termale, dal quale i morti partono con maschere di volpe per raggiungere l’aldilà. Il finale semi-circolare con il fiore nel vasetto concretizza l’idea che Kato sia morto nell’incidente che vediamo a inizio film.
Tutto questo che s’è cercato confusamente di esporre riguarda solo una parte di Convenience Story (l’abbiamo detto, Miki non è un regista del restraint!). Questo film non è un’opera perfetta in termini di composizione aristotelica – o del suo equivalente giapponese. Ma certamente, come gli altri film dell’autore, offre un'esperienza che resta nella memoria. 

Il bellissimo You’ve Got a Friend ha tutte le caratteristiche delle migliori opere di Hiroki Ryuichi: narrazione meditabonda e dai tempi lenti, autenticità e intensità psicologica dei personaggi, eccellenti interpretazioni, bizzarro umorismo. Qui – lavorando su una sceneggiatura di Kurosawa Hisako da un manga – Hiroki attinge ai ricordi della sua carriera nel cinema pink per portarci nel mondo del sadomasochismo a pagamento, e sottolinea abilmente la sua doppia natura di rito e di finzione. C’è uno splendido episodio proprio all’inizio, quando la “dominatrix” Miho (un’ottima interpretazione di Nahana) sottopone il cliente Yoshida (Murakami Jun) a una tortura impressionante, lui perde conoscenza per un attimo – e lei cambia immediatamente atteggiamento, passando dal rapporto finzionale “padrona/schiavo” a quello reale “fornitrice di servizi/cliente”: “Yoshida-san? Sta bene? Mio Dio, mi ha spaventata”. 
Se Miho è una volonterosa donna d’affari di buon cuore, il protagonista Yoshida Yoshio (l'allitterazione gli dà qualcosa di comune e di ridicolo allo stesso tempo) è lo schiavo perfetto, fino al sacrificio ultimo. Tuttavia, mentre noi saremmo istintivamente portati a ritenere ridicolo (o tragico) uno che paga per farsi colare cera bollente sul petto e sulla lingua, invece Yoshida emerge dal film come un personaggio a tutto tondo, che ottiene una comprensione simpatetica. I tocchi di comedy (grande quando al ristorante Miho, in un momento di distrazione, gli versa la birra in testa tornando automaticamente ai rituali di umiliazione – oppure quando fantasizzano su una nazionale olimpica di masochismo alle Olimpiadi) non sono concepiti per abbassare il personaggio ai nostri occhi ma per accompagnarlo con un sorriso complice. Lo stesso vale per l’episodio di una ragazza innamorata che gli si offre prima come schiava (non ha capito) poi, dopo una spiegazione, come “domina” ma all’idea di urinare sull’amante non ce la fa e scappa. I guai sorgono quando riappare la “dominatrix” precedente,  Yukiko (Azumi), di cui Yoshida è rimasto innamorato.
E’ un film pieno di ironia e di scherzi nascosti – ambientato in una società che, ironizza Hiroki, vuole decidere quali vizi siano da tollerare e quali no (es. il fumo), ma le pratiche sadomaso si situano nella zona in mezzo. Nella città immaginaria dove si svolge la storia siamo in campagna elettorale fra due candidati (uno corrotto e uno ipocrita) e la sopravvivenza del club dove Miho pratica è incerta. Comunque lo sviluppo, buffo e insieme logico, del film risolverà da sé la questione. La conclusione è un happy ending artificioso, quasi una presa in giro, ma anch’esso rientra in quell’ironia sottile che innerva il film. 

Anche nell’antologico She Is Me, I Am Her di Nakamura Mayu sono in mostra le grandi capacità attoriali di Nahana. Il film la presenta in quattro episodi indipendenti, legati in modo più o meno stretto al Covid e all’isolamento che ha portato. Sono quattro versioni della solitudine, in cui Nahana è eccezionale; confermano la versatilità di quest’attrice che il pubblico del FEFF ha visto anche l’anno scorso in Noise, e precedentemente nello splendido River di Hiroki Ryuichi. She Is Me, I Am Her è un film indubbiamente riuscito, che giunge a segno e colpisce e commuove. C’è solo un aspetto che lascia perplessi (o almeno apre un problema): il film è estremamente dipendente dalle opere di Hamaguchi Ryusuke, non dico per la presenza della sua attrice Urabe Fusako ma per un’analogia di tono e atmosfera – evidentissima nel primo episodio – che arriva fino a inserire dettagli come la musica di Schumann o il riferimento al teatro di Čechov. Potremmo vederlo come un sentito omaggio al maestro.

Di Plan 75 di Hayakawa Chie – appena interpretato da Baisho Chieko (nata nel 1941), che ha ricevuto il Gelso d’Oro alla carriera a 84 anni – vorrei scrivere fra poco, quando il film uscirà in Italia, distribuito dalla Tucker Film. Ho perso, e conto di recuperare, altri film della selezione giapponese. Ma certamente non ho perso altri due film interpretati da Baisho Chieko e scelti proprio da lei per un piccolo omaggio retrospettivo. Entrambi diretti da Yamada Yoji, un regista assolutamente da studiare, presentano questa eccellente attrice e cantante ai tempi della gioventù. Tora-san, Our Lovable Tramp (1969) è il primo film della serie cinematografica su Tora-san, interpretato da Atsumi Kiyoshi, che consta di ben 48 episodi nell'arco di trent’anni – salvo errore, la serie di film più longeva del mondo. Tora-san, venditore ambulante grezzo ma di buon cuore, gira per il Giappone, invariabilmente si innamora, invariabilmente gli va male; ma, come Chaplin, ricaccia le lacrime e riprende la sua strada. Nel suo sobborgo di Tokyo, lo attende la gentile sorellastra (Baisho) sempre preoccupata per lui. Per inciso, un’altra figura fissa della serie è l’“ozuiano” Ryu Chishu.
Il capolavoro Where Spring Comes Late, visto al FEFF in una bella copia su pellicola, uscì nel 1970 dopo il primo Tora-san, col quale non ha rapporto se non a livello di cast (con Baisho c’è anche Ryu Chishu, e in una parte minore Atsumi). Racconta il viaggio di una famiglia povera dal sud del Giappone fino a Hokkaido, nel nord, dove il capofamiglia vuole trasferirsi. Protagonista non è il marito, autoritario fuori e debole dentro; è la moglie Tamiko, cui dà corpo Baisho Chieko in una delle interpretazioni più belle che si possano immaginare, degna di Hara Setsuko o Tanaka Kinuyo. In questo viaggio con aspetti semi-documentari, raccontato con commovente partecipazione umana, la famiglia passa per gravi drammi e fratture: ma che si sanano nella tarda primavera di Hokkaido in una nuova speranza. 


domenica 7 maggio 2023

FEFF 2023: Watanabe a colori


Watanabe Hirobumi si è letteralmente innamorato di Udine e dell’Italia – ma anche la Udine del FEFF 2020 si era innamorata di lui, con la bellissima personale che il FEFF gli ha dedicato, purtroppo online. Adesso però i Watanabe Bros., Hirobumi e Yoji, sono potuti venire, e al FEFF hanno fatto collezione di applausi. Naturalmente l’occasione è stata la presentazione degli ultimi film di Watanabe, uno come interprete e due come regista (e interprete, con Yuji). Ecco qualche riga sui tre film, dove salta subito all’occhio una grande novità nel cinema watanabiano: l’irruzione del colore.

Xavier De Maistre, confinato per punizione per un duello, scrisse il Viaggio intorno alla mia camera. Way of Life è un video-diario dei tempi del Covid, in cui Watanabe ci mostra se stesso confinato in camera durante il lockdown. Sono addirittura ossessive queste immagini ricorrenti in b/n che riprendono la camera sempre dallo stesso punto di vista – con una fotografia che non ha l’eleganza di Bang Woohyun, il suo storico direttore della fotografia, anzi non si preoccupa neppure del controluce. E’ vero che i giapponesi hanno un’altra concezione dello spazio rispetto a noi occidentali, ma ci sentiamo terribilmente costretti in questa stanza con inquadratura unica.
Per passare il tempo Watanabe fa lunghe telefonate con Bang in Corea (dice che muore se non gira, ma non si può girare; cerca di arruolarlo per futuri lavori ma Bang esita perché ha bisogno di guadagnare nel lavoro; prendono in giro i governi giapponese e coreano). Racconta che avrebbe dovuto venire a Udine per la personale del 2020, poi fatta online; e gli dispiace, perché gli hanno detto che è un bel posto.
Soprattutto, impossibilitato a dirigere, Watanabe disegnando tutto il giorno. E i suoi disegni, che appende in camera come poster, sono bellissimi! E’ tanto un inventare quanto un rifare motivi (riconosci Van Gogh, il Doganiere Rousseau, Picasso, i disegni infantili, i fumetti americani, e naturalmente Basquiat) con una verve e una bellezza che hanno del prodigioso. Su questi disegni esplode, come una liberazione, il colore. In pratica, con Way of Life l’autore organizza la propria personale pittorica.
Se Dio vuole, tutto finisce, e si torna a uscire. C’è una visita in cimitero, con Watanabe e i suoi genitori, alla tomba della bisnonna. La parte finale ci mostra Watanabe che gira con Yuji e gli altri interpreti Techno Brothers.

Come si può non amare un film che spudoratamente si apre sulle note di Also Sprach Zarathustra? e con lo stesso senso di gloriosa ascesa? Con l’adorabile Techno Brothers Watanabe Hirobumi sviluppa quell'elemento narrativo che emergeva in particolare in I’m Really Good. Vale a dire che, pur continuando sulla linea del suo cinema, si apre a nuovi tentativi e nuove esperienze – fra le quali c’è il colore. A questo proposito è da segnalare, nella fotografia di Watanabe Yuichiro, l’amore per il rosso, che spicca a macchie, tanto da far pensare a Ozu.
Il primo riferimento del film è ovviamente ai Blues Brothers, di cui i Techno Brothers sono il rovesciamento parodistico: quelli in completo nero, questi con camicia rossa e cravatta scura, ma allo stesso modo impassibili e con occhiali neri (è un omaggio al gruppo tedesco  Kraftwerk); e naturalmente la score di Watanabe Yuji mette al posto del blues la musica techno. Sono, i Techno Brothers, Watanabe Hirobumi e Watanabe Yuji – poi c’è un terzo, Kurosaki Takanori, ma muore di fame durante il film. Il secondo grande riferimento è a uno dei registi del sancta sanctorum di Watanabe, Aki Kaurismäki. Incrociando la classica impassibilità tanto watanabiana quanto kaurismäkiana, Techno Brothers è l’ironica cronaca del “viaggio della speranza” verso Tokyo di un trio (poi duo) di sfigati suonatori di strada, muti, maltrattati, impassibili, sotto la ferula di una durissima manager, una simil-Anna Wintour, che li reclamizza come musicisti al livello di Bach e dei Beatles, ma li tratta come Matti Pellonpää trattava i Leningrad Cowboys in Leningrad Cowboys Go America. Superba la gag ricorrente di loro al ristorante, con lei che ordina da mangiare a quattro palmenti per sé, e per gli altri solo un bicchier d’acqua. Compare anche Riko, presenza fissa del regista, nel ruolo di un misterioso mogul della musica, Boss Riko, che li disprezza; e Watanabe Hirobumi si diletta di interpretare vari personaggi differenti.
Il plot, senza sorpresa, è anti-narrativo: si basa largamente sulla frustrazione delle attese (come nel caso dell’amuleto su carta, che in un film tradizionale rappresenterebbe un punto di svolta, e qui si risolve in gag). Anche l’unico vero sviluppo (la fuga dei due) viene presto recuperato. C’è molto di sospeso e di non detto, e infatti il film si chiude con la promessa di un sequel. Inutile aggiungere che il finale è un omaggio a Otawara! 

Your Lovely Smile di Lim Kah Wai presenta il “nostro” Watanabe Hirobumi nella parte di se stesso – o meglio, di un suo alter ego sottilmente ironico, regista indipendente e produttore con la Foolish Piggies, alla ricerca del successo: “La parte più difficile è il finanziamento”, dice speranzoso a un possibile contributore, che non risponde. Il fratello Yuji, all’inizio del film, a casa loro a Otawara, gli dice, in sintesi, “Solo io porto soldi a casa, con le lezioni di piano” (e la bambina con la mascherina che vediamo suonare il piano è la piccola Riko). Sono allo stesso tempo buffe e commoventi le vanterie di “Watanabe” su Amazon e Netflix, o l’episodio in cui va a lavorare in una serra (la stessa che vediamo in Techno Brothers), arrivano i suoi genitori, e lui fa finta di essere lì per documentazione.
Un'opportunità di realizzare un film, poi comicamente fallita, lo porta in giro per il Giappone da sud a nord, cercando di far proiettare i suoi film in tutta una serie di cinema d’essai. Gli incontri con i gestori sono tipicamente watanabiani – ma qui, ecco che Your Lovely Smile cambia registro e diventa una sorta di di “fiction documentaristica”, perché quei cinema e quei gestori sono autentici, e questi incontri (culminanti in interviste durante i titoli di coda) compongono un quadro desolato dello stato disastroso dei cinema d’essai in Giappone, fra il declino delle sale e la mazzata della pandemia. Un’alta dichiarazione d’amore, sul piano artistico e su quello emotivo, per il cinema indipendente e i cinema d’essai – dove, se posso permettermi un accenno personale, noi del gruppo del Visionario ci riconosciamo come in uno specchio.