venerdì 29 settembre 2023

The Palace

Roman Polanski

In tutto il suo cinema Roman Polanski ci ha detto che la malvagità e l’assurdità sono le componenti fondamentali dell’universo, con l’incubo che si insinua nella nostra realtà e la disgrega. Ora, togliete la malvagità (solo un poco) e mettete al suo posto la stupidità, e avrete The Palace, pazza cronaca del 31 dicembre 1999 e della festa di Capodanno 2000 (sotto l’ombra ingannatrice del Millennium Bug) in un lussuoso Grand Hotel svizzero. Di nuovo dopo Luna di fiele Polanski mostra una festa di Capodanno e la devastazione che lascia. Ma ora il novantenne Polanski e l’ottantacinquenne Jerzy Skolimowski, co-sceneggiatori con Ewa Piaskowska, assumono uno sguardo olimpico, cinico/clinico, sottolineando l’aspetto farsesco della vita. E’ un grottesco senza angoscia; una danza macabra, ma privata dell'elemento tragico del macabro.
Superficialmente The Palace può essere accomunato a Per favore, non mordermi sul collo e a Pirati per la sua dimensione comica; ma sarebbe più giusto richiamare l’assurdità fondamentale di Che? – dove il filo narrativo finiva per restringersi alla persona fisica di Sydne Rome (che appare, quanto invecchiata, anche qui) – se non vogliamo addirittura risalire al surreale clownesco e beckettiano di Due uomini e un armadio. Infatti, a differenza di Per favore, non mordermi sul collo e anche di Pirati (a parte il fallimento artistico di quest’ultimo), The Palace non ha una struttura narrativa forte. Al suo posto, Polanski lavora sull’estensione: è un precipitare di storie interlineate. Gli autori hanno voluto fare un film “a volo d’uccello”, un po’ come quei dipinti fiamminghi in cui vediamo una miriade di figurette e di occupazioni. Invero avrebbero potuto con facilità organizzare il film su una spina dorsale narrativa più solida, sviluppando una di queste storie; non farlo è stata chiaramente una scelta. Si può discutere se sia stata la scelta più oculata, giacché la mancanza di tale spina dorsale narrativa innegabilmente si sente; ma è anche vero che il nostro smarrimento viene trascinato e portato via nel vortice caotico, in cui il grande albergo del titolo (l’ennesima delle dimore centripete polanskiane) provvede una sorta di contenitore, anche nel senso di limite. Infatti, mentre tutto procede verso il caos, solo quella sorta di Mr. Wolf “Risolvo problemi” che è il direttore dell’hotel (Oliver Masucci)… non a caso si chiama Kopf (testa)… insieme al suo staff di martiri lotta contro l’entropia e riesce a tenere in piedi la bislacca piramide danarosa. Che non è neppure il capitalismo bensì i suoi fenomeni collaterali e deteriori: dalla truffa finanziaria (Mr. Crush/Mickey Rourke, una specie di Donald Trump con abbronzatura artificiale e parrucchino), al gangsterismo (i russi chiassosi), allo sperpero (la baronessa/Fanny Ardant con l’orrido cagnolino, il vecchio milionario/John Cleese con una moglie molto più giovane), e così via. Per inciso, John Cleese – senza fare spoiler – sul piano della mimica facciale diventerà il campione del film. Polanski è sempre stato un campione delle fisionomie, e anche qui i visi sono memorabili (ricordiamo anche Milan Peschel, con la perfetta faccia da travet bancario promosso a piccolo dirigente). Quanto alla solidarietà di classe, non basta il fatto che le cameriere cantino l’Internazionale insieme a quella strana forma di proletariato che sono le guardie del corpo dei russi.
Non manca nessuno in questa bolgia, dal pinguino che si aggira per i corridoi agitando le ali all’idraulico polacco che era il fantasma della Brexit. Ognuno ha la sua storia, o magari, come nel caso della famiglia povera di discendenti non riconosciuti da Crush, triste quartetto ceco sbattuto qua e là, la sua backstory – che emerge in modo commovente nella scena finale della telefonata. I tre sceneggiatori non dimenticano di essere polacchi: spunta il dramma di oggi quando vediamo in tv Eltsin che si dimette e un giovane Putin, già con occhi da squalo, che prende il potere. Brindisi dei mafiosi russi al nuovo leader “che si prenderà cura di noi per molti, molti anni”. E’ il trionfo della nascente cleptocrazia moscovita (l’ambasciatore: “Presto o tardi io e i miei colleghi ci divideremo la torta russa”).
La progressione verso la festa di mezzanotte è un accumulo di incidenti tale da ricordare vagamente la disastrosa inaugurazione del ristorante in Playtime di Tati. Ma c’è sempre il signor Kopf a metterci una pezza, con l’unica ricompensa del senso del dovere e di qualche bottiglietta di vodka da frigo bevuta in privato.
All’ultima Mostra di Venezia questo film ha diviso profondamente gli spettatori, fra chi diceva capolavoro e chi diceva porcheria. Chi scrive queste righe si trova nella scomoda situazione di essere in mezzo, e così, inimicus omnium. Porcheria assolutamente non è; d’altro canto, non si può dire sia in prima fila all’interno della sfavillante filmografia polanskiana. Ma invero è piacevole – e dannatamente divertente.

domenica 24 settembre 2023

Assassinio a Venezia

Kenneth Branagh

Così mediocre era Assassinio sul Nilo, il precedente Poirot di Kenneth Branagh, che vien naturale trovare migliore il nuovo episodio. Peraltro è vero: Assassinio a Venezia è un po’ meccanico ma piacevole, atmosferico e abbastanza divertente. Svolgendosi in un palazzo di Venezia che tutti ritengono infestato da spiriti vendicativi, gioca amabilmente con l’horror delle case infestate: un caposaldo, se non del grande schermo, delle serie televisive. Ottimo il lavoro sulla scenografia (se no, che horror sarebbe?). Senza rivelare nulla dello svolgimento, diremo solo che il film si mantiene sul filo di una soddisfacente ambiguità con una soluzione ingegnosa che salva la capra del realismo giallo e i cavoli del fantastico spettrale. La regia enfatica di Branagh, che ricorda gli horror degli anni Venti e Trenta, riempie il film di grandangoli e di inquadrature sghembe, e cupi primissimi piani carichi di angoscia ricorrono nel montaggio effettistico di Lucy Donaldson.
Il film è tratto (in realtà solo nominalmente) dal romanzo di Agatha Christie Poirot e la strage degli innocenti, in originale Halloween Party; anche se il film s’intitola A Haunting in Venice, probabilmente viene di il pesante anacronismo di una festa di Halloween per gli orfani, sotto la sorveglianza delle suore poi!, nella Venezia del 1947.
Fortunatamente Kenneth Branagh qui rinuncia al revisionismo sfacciato con cui ha trattato Poirot nel precedente episodio. Il Poirot di Assassinio a Venezia è stanco e amareggiato ma ciò non va contro il personaggio – al quale manca anche quella vigoria fisica che caratterizzava Assassinio sull’Orient Express. Branagh incarna un Poirot depresso per l’orrore del mondo e, cosa interessante (di cui lui viene accusato nel dialogo), per quella bizzarra caratteristica dei detective dilettanti di essere araldi della morte: dovunque vadano, avviene un delitto.
Fra gli altri interpreti, di livello vario, rivediamo con piacere Michelle Yeoh in veste di medium (visivamente efficace la sua prima apparizione in maschera). Il genietto occhialuto che legge Poe è Jude Hill, il bambino di Belfast. Un po’ maligno ma inevitabile osservare che l’unico attore il cui nome precede Branagh sui manifesti, Kyle Allen, interpreta senza verve un personaggio senza nerbo.
E se l’exploit conclusivo di Poirot ha un sapore più di intuizione che di deduzione, che importa? Dame Agatha Christie, che era una
deliziosa vecchietta imbrogliona, sulla sua nuvoletta sarà l’ultima a dolersene.

sabato 23 settembre 2023

El Conde

Pablo Larraín

Fra i tanti tiranni sudamericani del Novecento, il generale cileno Pinochet è quello che ha incarnato di più come immagine, quasi come forma grafica, la rappresentazione del male. Per questo i voli sopra la città di un Pinochet vampiro (inquadrato di schiena e, come da tradizione, simile a un pipistrello nel suo mantello di generale) forniscono l'immagine generatrice del film di Pablo Larraín El Conde, passato all’ultima Mostra di Venezia e ora su Netflix.
L’idea satirica è bellissima, anche se il film non si può dire pienamente riuscito. Pinochet è in realtà un vampiro di 250 anni, che ha solo messo in scena la sua morte e ora sta in un ritiro nel deserto – nel bellissimo bianco e nero della fotografia fredda e pittorica di Edward Lachman – assieme alla moglie che, ci informa la voce narrante, è “ancora più perversa di lui” (e c’è tutto un macchinoso subplot su di lei che è l’amante del maggiordomo-vampiro ma vorrebbe farsi vampirizzare dal marito). Ancora Pinochet si aggira in volo a caccia di cuori umani, da mettere nel frullatore; ma è stanco, è incerto, forse vuol morire davvero, forse un’ambigua giovane (una suora infiltrata come complice) gli fa cambiare idea… Quel ch’è certo è che intanto i familiari, come avvoltoi, si assiepano in vista dell'eredità. Secondo una metafora che risale addirittura a Voltaire, i succhiasangue esistono ma il sangue lo succhiano sfruttando i poveri. Perché Pinochet, anche se non vuole ammetterlo (“Chiamatemi assassino ma non ladro!”), si è arricchito con la famiglia a spese del Cile, e questa gigantesca corruzione sta al centro dei maneggi familiari e del film stesso.
Il difetto numero uno del film è una certa difficoltà a organizzare il discorso. Basta vedere la pesantissima intromissione di una voce narrante femminile in inglese che dopo averlo introdotto continua a rientrare continuamente sostituendosi in modo “radiofonico” all’azione scenica. Ora: una voce narrante può essere astratta o può appartenere a un personaggio. Dall’inizio, El Conde trasmette la netta impressione che si dia il primo caso; e per questo tale voce narrante è insopportabile. Nell’ultima parte del film arriva la sorpresa: appartiene a un personaggio che entra in scena (e ciò giustifica l’inglese, ma inutile fare spoiler). Tuttavia dal punto di vista artistico questa soluzione è sbilenca, perché si ha la stridula impressione di un cambio di statuto (Larraín avrebbe potuto facilmente risolvere mettendo un'inflessione personale, bastava un “io”, all’inizio).
Non è l’unica pecca. Stranamente Larraín (sceneggiatore con Guillermo Calderón) dà l’impressione di perdersi nelle minuzie; sfiora ma senza incidere i giganteschi problemi che il presupposto consentirebbe, in primo luogo il rapporto fra il potere e la storia, che dovrebbe essere centrale per l’autore di Jackie. In verità la parte finale è dinamica e convincente (per inciso, è bellissimo il primo volo della ragazza vampirizzata); ma per arrivarci Larraín deve passare per una laboriosa preparazione, dove tengono desta l'attenzione soprattutto le belle immagini in b/n, non prive di una valenza citazionistica. In ultima analisi, e certamente contro le intenzioni, El Conde resta un esercizio di stile.


domenica 27 agosto 2023

Oppenheimer

Christopher Nolan

A un certo punto di Oppenheimer, l’ammirevole film scritto e diretto da Christopher Nolan e interpretato da Cillian Murphy, il giovane fisico visita una mostra di pittura cubista. Ciò ha lo scopo di porre l'analogia fra la rivoluzione estetica novecentesca e l’analoga rivoluzione nella fisica: ossia nella concezione del mondo. Ma si potrebbe osservare che c’è di più. Proprio come il cubismo presentava il suo oggetto – che fosse Dora Maar o un semplice serbatoio d'acqua – sotto diversi punti di vista compresenti, Oppenheimer fa lo stesso col tempo narrativo. Contiene vari segmenti della vita del protagonista, o correlati, dal 1926 al 1959: il giovane Oppenheimer, il progetto Manhattan con l'esplosione della bomba atomica, le udienze del 1954 quando l’Atomic Energy Commission gli nega la clearance di sicurezza, le udienze (in b/n) sulla mancata conferma del suo nemico Lewis Strauss come Segretario al commercio nel 1959. Ora, questi segmenti sono così intrecciati, e i passaggi così liberi e sciolti, che lo spettatore ha l’impressione, non di vedere un racconto che fluisce (sia pure permettendosi di tornare indietro in flashback), bensì di vedere la coesistenza contemporanea di varie linee temporali: una sorta di cubismo narrativo. Occorre ricordare qui che la questione del tempo sta al cuore di tutto il cinema di Nolan?
Parallelamente, è sul concetto di realtà percepita che il cinema di Nolan si interroga. Qui viene in taglio la fisica quantistica, che ha messo in forse la nostra stessa concezione della materia (in una bella scena Oppenheimer lo spiega partendo da quello che consideriamo il massimo della concretezza, la sua stessa mano). Così, questo è un film quintessenzialmente nolaniano.
Col suo magnifico montaggio di frammenti minimi che inframmezzano il discorso, e che vanno dal micro dei cerchi nell'acqua sotto la pioggia al macro delle esplosioni, Oppenheimer è un ottimo esempio di film che rende il processo del pensiero con mezzi esclusivamente cinematografici. Ma non bisogna pensare che il suo valore narrativo si esaurisca nel tratto stilistico. Un’affascinante libertà fa capolino nella messa in scena rappresentando un’irruzione della soggettività: penso per esempio alla scena in cui, durante l’audizione all’A.E.C., Oppenheimer è costretto a parlare in presenza della moglie di un suo rapporto sessuale con l’amante Jean Tatlock – e, restando fissa la messa in scena dell’ufficio dell’audizione, come pure i presenti, li vediamo nudi sopra la stessa sedia su cui lui sta testimoniando. E’ una forma di formulazione simbolica-impressionistica del flashback non inedita, ma qui Nolan la porta all’estremo.
Supportato da eccellenti interpretazioni, da Cillian Murphy in giù, Oppenheimer traccia un magnifico ritratto dell’eroe eponimo. Due volte sentiamo, per bocca del protagonista, che legge il sanscrito, il versetto della Bhagavad GitaOra sono diventato morte – il distruttore di mondi”.
Già in Tenet si menzionava Oppenheimer in relazione al rischio teorico che la prima fissione nucleare diventasse inarrestabile, distruggendo il mondo: qui questa ipotesi è attribuita ai calcoli di Edward Teller e Oppeheimer dice che Teller si sbaglia – ma che le probabilità di un simile evento sono non eguali a zero ma “quasi zero”. Come gli eroi shakespeariani, coi quali ha molto in comune, nel ritratto potente e storicamente puntuale di Nolan il “padre della bomba atomica” mantiene un’“ambiguità eroica”, un’irriducibilità a una spiegazione univoca – vale a dire, a una caratterizzazione didattico-morale di quelle che vengono chieste di solito a un biopic. Ha una “zona d’ombra”, che persiste nella visione (perché questo è un film da rivedere), e che attinge direttamente alla nostra natura umana.

sabato 22 luglio 2023

Barbie

Greta Gerwig

Sulle note di Also sprach Zarathustra appare, al posto del monolito, una Barbie gigantesca, nel suo costume zebrato originario, e le bambine, con gli stessi movimenti degli ominidi di Kubrick, rompono le loro vecchie bambole. Il bellissimo inizio di Barbie di Greta Gerwig con la parodia di 2001: Odissea nello spazio rende assai bene come l’apparizione della bambola Barbie della Mattel nel 1959 sia stata una svolta antropologica: il passaggio dalla bambola-bambina alla bambola-adulta (non era la prima, c’era la tedesca Lilli, ma fu Barbie a fare la rivoluzione). Se con le vecchie bambole le bambine anticipavano nel gioco il loro futuro di mamme, che era quello che la società del tempo prevedeva per loro, Barbie aveva una vita, un fidanzato, Ken, e soprattutto mille professioni, dal medico all’astronauta; così l’orizzonte futuro delle bambine non si esauriva nel fare la mamma. Barbie rappresentava un processo di auto-affermazione. Non per nulla nasce e si sviluppa nel periodo fu quello dell’ottimismo americano, un’epoca in cui il futuro pareva a portata di mano ed era roseo (rosa come Barbie?).
Col suo sorriso scintillante e il suo ottimismo americano, Barbie invase tutti i media, anche con decine di cartoon realizzati al computer, a volte “biografici” ma per lo più fantasy: nei quali, anche quando la sceneggiatura non è malaccio (vedi Barbie - La principessa e la povera), l’animazione è di livello francamente modesto, e troppo patente è l’imitazione disneyana (preferibile la sua partecipazione alla serie Toy Story).
Ma poi, “sic transit gloria mundi”, quella che era nata come un’icona di auto-affermazione cominciò ad essere criticata come un’icona di conservazione – anche in correlazione con la crisi dell’ottimismo americano. Barbie riaffermava uno stereotipo, si disse, era un modello irrealistico, si disse, creava false idee anche sul piano fisico, e via
brontolando.
Qui entra questo divertentissimo film, insieme celebrativo e satirico, scritto dalla regista Gerwig (Lady Bird, Piccole donne) assieme al collega Noah Baumbach (Storia di un matrimonio). La Barbie originale (Margot Robbie) vive a Barbieland con tutte le sue varianti, come il Ken originale (Ryan Gosling) con le sue. Come nel Soldatino di Andersen vediamo la vita dei giocattoli, però non segreta, bensì una dimensione parallela alla nostra: quel paradiso sempre sereno, tutto rosa, pop e kitsch, che è il mondo felice di Barbie (siccome gli americani confondono il Paradiso con la California, la vita di Barbie è molto californiana). Il mondo di Barbie mostra rispetto al nostro uno sfasamento non solo ontologico ma anche temporale: per definizione il paradiso è fuori dal tempo: e quello di Barbie è ancorato a un immaginario tardi anni Cinquanta/anni Sessanta. Con la fotografia coloratissima di Rodrigo Prieto, è molto spiritoso questo universo giocattolo a dominante rosa, dove i giorni sono tutti uguali, fatti di sorridenti saluti fra tutte le Barbie, un universo basato sulla finzione delle bambole (per esempio si beve da bicchieri vuoti; quando Barbie cercherà di farlo nel mondo reale, si versa l'acqua addosso)
.
Ma in questo paradiso, un brutto giorno, Barbie (non una Barbie qualunque: la “Barbie stereotipo”) comincia a “umanizzarsi”. Si scopre al mattino l’alito cattivo; le viene da pensare alla morte (superba la gag di reazione collettiva e recupero quando lo dice); spunta perfino (orrore!) la cellulite. IL fatto è che si è aperto un varco tra il mondo di Barbie e quello reale: e lei vi si reca, col non intelligentissimo Ken, a cercare di rimediare
. La Mattel (che è co-produtrice, autoparodiandosi con stile) permettendo.
Visitando il mondo reale, Barbie si aspetta un mondo dove tutti i mestieri, compreso il Presidente, li fanno le donne; scopre che non è così. Delizioso il suo incontro traumatico con gli operai in pausa, che fra l’altro introduce il tema della sessualità (“Io non ho la vagina” – “Non fa niente, ci accontentiamo!”). Nel mondo reale comandano gli uomini; scoperta che a Ken piace assai, tanto che si fa un’idea sua del patriarcato e non vede l’ora di metterla in pratica a Barbieland. Ne nasce una satira vivace e pungente, sorretta da un ottimo dialogo come in tutto il film, che fa amabilmente a pezzi la mentalità “patriarcale” maschile, nonché l’influsso quasi ipnotico
che essa esercita sulle donne.
La cosa peggiore per Barbie è che, invece di essere riconosciuta come simbolo di emancipazione, viene dichiarata “fascista” da Sasha, una cretinetta di adolescente woke – che peraltro crescerà durante il film, recuperando un rapporto con la madre che invece le Barbie, da ragazzina, le amava. In questo senso il film compie un’impresa: contestualizzare sul piano storico la differenza di percezione cui si è accennato sopra. Sembra niente: ma storicizzare è una cosa difficilissima p
er gli americani, e questo film lo fa.
Vivace e paradossale, giocato con vero humour sui due mondi e sul rapporto tra loro, Barbie non è solo divertente ma anche intelligente. Né pro-Barbie anti-Barbie, in realtà il film riflette con arguzia e con dolcezza sull’imperfezione intrinseca alla vita e sul rapporto fra il sogno e la realtà –
ciò che rappresenta una tematica presente nelle opere di entrambi i registi-sceneggiatori.

domenica 16 luglio 2023

Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno

Christopher McQuarrie

D’accordo che Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno è un action, per cui il racconto serve a congiungere una serie di scene “eccessive”: non sono tappe di uno svolgimento, è lo svolgimento che serve ad arrivare a queste. Comunque sono assai piacevoli, anche se un po’ ridondanti (in verità è più bello John Wick 4 di Stahelski, che iscrive questo montaggio dell’azione in una carrellata metacinematografica, rendendo omaggio a Osaka al cinema popolare giapponese e hongkonghese, a Berlino al cinema post-espressionista tedesco stile Dottor Mabuse, a Parigi al realismo fantastico alla Feuillade incrociato con il polar). Tuttavia anche l’action ha un sottotesto culturale.
Dead Reckoning mostra una concezione della contemporaneità digitale come hybris. Parte, consciamente o no, da un vecchio racconto di Fredric Brown in cui un team di scienziati costruisce il supercomputer più potente del mondo; quando lo accende e lo scienziato capo pone la domanda “Dio c’è?”, la risposta è “Adesso sì” – e un fulmine uccide lo scienziato e blocca per sempre il meccanismo di spegnimento. Nel presente film (ma sarebbe più giusto dire: nel presente mezzo film) i soliti russi hanno costruito qualcosa di simile: un'intelligenza artificiale capace di connettersi e controllare i computer di tutto il globo. Quest’intelligenza superpotente si è ribellata riprogrammandosi (“Si è riscritta”), acquisendo una propria personalità. Ora domina l’intera rete digitale. E’ delizioso vedere come i “buoni” siano costretti a ricorrere alle onde corte e alla carta stampata per comunicare. L’ingenua fede nelle “magnifiche sorti e progressive” del passato anche recente è soggetta a ripensamento a Hollywood, e l'approccio di questo film è invero interessante.
Conseguenza di quanto detto, lottare contro l’Entità è come lottare contro Dio. O se preferite, contro una sua parodia maligna e diabolica. Ora, dal punto di vista religioso (inevitabilmente) sotteso, il cinema spionistico alla 007 ha sempre avuto come riferimento implicito il manicheismo: ovvero la lotta cosmica fra due entità divine, una positiva e una negativa, di pari forza. Occidente e URSS in origine, dapprima con battaglie e scaramucce (il comunismo non è caduto perché Bond ha smascherato Le Chiffre in Casino Royale); significativamente, dopo che il bondismo cinematografico ha abbandonato la formula proto-fleminghiana dell’URSS come nemico assoluto e si è rivolto alla Spectre (interessante in questo senso la differenza tra romanzo e film in Dalla Russia con amore), la posta in gioco è diventata sempre più la salvezza del mondo intero: il che ricopre almeno tendenzialmente una dimensione teologica.
Su questo terreno Dead Reckoning si spinge molto avanti, a causa della connotazione di Dio negativo che possiede l’Entità, come viene chiamata significativamente nel film. Non a caso il dominio dell'Entità integra quello che è un attributo basilare della divinità, il possesso della verità (“Quid est veritas?” - “Est vir qui adest”: il leggendario colloquio con anagramma fra Cristo e Pilato). Nel film, sarebbe riduttivo dire che l’Entità mente: essa riscrive i dati del mondo nella nostra conoscenza. Lo vediamo nell’inizio col sottomarino russo sotto la banchisa polare, lo vediamo poi nelle sofferenze di Ethan Hunt quando corre per i vicoli di Venezia diretto dalla voce di Benji nell'auricolare, solo che la voce di Benji non è più la sua, l’Entità se ne è appropriata.
Non a caso due concetti di origine religiosa – fin dall'etimologia – come quelli opposti di sacrificio e tentazione percorrono il film. Il punto più notevole (già lo segnalava Giorgio Argenti in una bella recensione) è che il meccanismo che può disattivare l’Entità, ovvero distruggere la divinità maligna nella futura parte del film, è una croce: una chiave a forma di croce – purché sia la vera chiave (o la Vera Croce). Di tutte le missioni impossibili, questa sembra la più impossibile, ma non è la prima volta nella nostra cultura che l’uomo sfida la divinità. Dalla parte di Ethan Hunt gioca, paradossalmente, lo stesso estremismo che sta alla base del cinema action, che diventa qui inconsciamente prometeico. L’Entità sembra invincibile perché ha una capacità mostruosa di previsione probabilistica. Tuttavia (ombra di Friedrich Nietzsche!) proprio quella dismisura per cui Hunt si mette in gioco contro ogni razionalità (il volo dalla montagna per esempio) fa sì che, come sentiamo nel dialogo, questa divinità abbia paura. Morale: l’unica mission
capace di sconfiggere Dio è quella impossible.

sabato 1 luglio 2023

Indiana Jones e il quadrante del destino

James Mangold

Avverto qui che la presente recensione dà per scontata la visione del film e quindi non rifugge dagli spoiler.

Interpretato da Harrison Ford ottantenne, nei cui occhi brilla un lampo di disperata tenacia che ricorda James Stewart, Indiana Jones e il quadrante del destino di James Mangold presenta l’eroe eponimo a settant’anni (siamo nel 1969, già sappiamo che Indy è nato nel 1899, il calcolo è facile). Inizia tuttavia nel 1944, e quindi la prima apparizione di Indiana Jones, quando i tedeschi levano il cappuccio al prigioniero, ha il volto di un Harrison Ford ringiovanito grazie agli effetti digitali.
E’ ironico che un film imperniato sulla caccia a una macchina per viaggiare nel tempo – l’antikhytera di Archimede – si apra con una prima parte che viaggia nel tempo, trasportandoci nel 1944 con un Indiana Jones giovane in lotta contro i nazisti (già sapevamo che era stato nell’OSS). Steven Spielberg, produttore esecutivo con George Lucas e padre putativo, vuole dirci una cosa molto chiara, che peraltro ha ripetuto in tutto il suo cinema: la vera macchina del tempo è il cinema stesso.
Non per nulla Indiana Jones come personaggio è una raccolta di topoi che fanno rivivere una precisa finestra temporale, gli anni dai Venti ai Cinquanta del cinema d’avventura, dei serial, dei romanzi popolari e dei fumetti di Milton Caniff & C. (questo in particolare nei primi tre film; Il teschio di cristallo e il presente, com’è naturale, guardano come punto di riferimento alla prima trilogia).

Dopo la vittoriosa conclusione della parte iniziale, vero film nel film, lo stacco ai calzini appesi ad asciugare dentro un modesto appartamento – seguito dall’enunciazione shock del vecchio Indy in mutande – è un brutale salto alla triste realtà del 1969. E’ evidente che Indiana Jones non ha fatto i soldi, pur essendo venuto in contatto con tesori indescrivibili in quattro film, a onta di quelli che lo descrivevano come ladro di reperti archeologici. E’ la figura tradizionale (già nel ciclo arturiano: Lancillotto sul carretto) del declino dell’eroe. Indy vive una vita solitaria e ordinaria, anche se questa non implica l’esser diventato docile: quando va a bussare alla porta dei giovani vicini rumorosi, che stanno festeggiando l’“allunaggio”, ha in mano una mazza da baseball.
L’aspetto deprimente della sua vita si vede anche nella lezione all’università. Nel primo film, studentesse innamorate lo guardavano adoranti; nel quarto, uno studente secchione gli chiedeva bibliografia, sebbene nel momento meno adatto; in questo, vegetano sui banchi odiosi ragazzotti annoiati e ignoranti, che confondono la Siracusa di Archimede con Syracuse (Stato di New York). Per inciso, lo sguardo del film sull’America del 1969 è discretamente feroce, con il governo USA che si fa menare per il naso dal nazista Schmidt/Voller, e l’agente nera scema (FBI? CIA?) che segue le istruzioni fino a farsi uccidere. Un’America spaccata in due è mostrata plasticamente nella giustapposizione delle due sfilate, quella in onore degli astronauti e quella di protesta contro la guerra, apparentate dal fatto che in entrambe un inseguimento porta lo scompiglio (al cinema le sfilate servono a questo).

Dunque, la stanchezza dell’eroe – anche declinata sul piano fisico in una tirata memorabile durante un’arrampicata sulle rocce. La stessa stanchezza che gli fa desiderare nel finale la fuga più radicale di tutte le fughe: un auto-esilio nel passato, restando a Siracusa con Archimede, ovvero il desiderio che l'oggetto dei suoi studi si trasformi nella realtà effettuale.
Il dialogo ci dà la backstory e forse la spiegazione del declino di Indiana Jones: un lasciarsi andare: la morte in guerra del figlio (Shia LaBoeuf nel Teschio di cristallo) e la conseguente rovina del matrimonio con Marion (Karen Allen). Invero, questa scomparsa del figlio ricorda le ellissi di Salgari negli intervalli fra un libro e l’altro, in cui lo scrittore veronese si liberava della Marianna di Sandokan e della Ada di Tremal-naik facendole morire; ce n’è un esempio cinematografico analogo di Riccardo Freda tra Aquila Nera e La vendetta di Aquila Nera (a dire la verità ce n’è uno simile anche fra Aliens e Alien³, in questo caso estremamente rozzo e offensivo).
Quel che importa segnalare è che, in un film basato sul concetto di viaggio nel tempo, il desiderio (irrealizzabile e irrealizzato) di Indy di tornare indietro nel tempo per impedire al figlio di arruolarsi apparenta imprevedibilmente Il quadrante del destino a un'altra saga cinematografica: Ritorno al futuro di Robert Zemeckis: il concetto di modificare la storia per “curare” la sfiga presente. E tuttavia, qui il senso è rovesciato rispetto all’ottimismo “ingegneristico” della trilogia di Zemeckis. Come ci mostra il finale, non è il cambiamento delle circostanze che modifica i sentimenti ma il cambiamento dei sentimenti che modifica le circostanze. Il toccante romanticismo dell’amore tra vecchi alla fine de Il quadrante del destino ha un dialogo degno quasi di Robin e Marian: “Ti fa male?” – “Mi fa male tutto” – “So come ci si sente” – un bacio sul gomito: “Lì non mi fa male”.

La figlioccia Helena detta Vombato (Phoebe Waller-Bridge) ha molto di più dell’erede di quanto non l’avesse il ragazzo del Teschio di cristallo. Ha le capacità fisiche, ha una soddisfacente ambiguità morale, che naturalmente viene risolta in senso positivo (ricordiamo l’ambiguità dello stupefacente inizio de I predatori dell’arca perduta), e soprattutto ha cultura. Perché, non dimentichiamocelo, la saga di Indiana Jones è una saga della forza e del cazzotto; è una saga della resistenza e della tenacia; è una saga del saper cogliere l’opportunità (come si vede anche nel presente film, Indiana Jones è il più grande ladro di veicoli della storia del cinema); è una saga dell'autocontrollo (Sean Connery ne L’ultima crociata di fronte all’agitazione del figlio: “Conta fino a dieci – in greco”); ma soprattutto è una saga del cervello e della cultura. Per questo i giovani imbecilli che vediamo nella scena già citata della lezione all’università non sarebbero darwinisticamente adatti a sopravvivere nella più facile delle avventure di Indiana Jones. Lo è, eccome, quella che sembra l’unica studentessa brillante, e invece è Helena, venuta lì con un’agenda tutta sua.
Parlando appunto di cultura, è affascinante la decodifica del messaggio segreto sulla tavoletta, un’anticipazione dell’esibizione di cultura classica della parte finale: su questo terreno la sceneggiatura è addirittura coraggiosa, considerando il livello medio degli adolescenti americani che andranno a vedere il film. La parte finale, con il trasferimento involontario nel tempo e l’incontro con Archimede (Nasser Memarzia) è veramente molto bella, e resterà fra gli highlights della saga di Indiana Jones il concitato dialogo in greco antico fra Archimede, Indy e Helena: geniale l’immissione nel greco antico, in bocca a lei, del termine inglese internazionale “fan”.

Sebbene il ritmo sia a volte un po’ irregolare (ma a dire la verità lo era anche nello spielberghiano Il regno del teschio di cristallo), James Mangold si è calato bene nelle scarpe di Spielberg. Certo, non troviamo ne Il quadrante del destino il grande tema spielberghiano della terribilità della visione (né le sue luci bianche sparate contro l’obiettivo, se non magari un accenno in una breve scena, dove forse le vediamo solo perché ce le aspettiamo). Ma sicuramente c’è nel film quello che sta al cuore del cinema di Spielberg: il concetto di Quest.
Perché nei film di Indiana Jones l’oggetto della ricerca non è un MacGuffin, non è qualcosa che serve unicamente a mettere in moto l’avventura. Nei film di Indiana Jones la ricerca è una Quest, un processo centrato sulla conquista di un oggetto-valore che determina il senso del film (anche se poi magari verrà affidato all’ignorante burocrazia americana e – come ci mostra Spielberg in uno dei momenti più laici del suo cinema, il finale de I predatori dell’arca perduta – finirà sepolto in un deposito, cassa fra altre miriadi di casse).
E’ questo valore sacro della ricerca (c’è sempre in Spielberg un côté mistico) che ritorna, esemplificato da un titolo come L’ultima crociata, nella natura degli oggetti cercati: l’Arca dell'Alleanza, le pietre sacre a Shiva, il sacro Graal, il teschio di cristallo; il presente film poi, con uno scherzo delizioso proprio rispetto a questa ricerca, si apre sulla contesa per la Lancia di Longino – che però si rivela essere una copia moderna; mentre la vera macchina capace di dare il dominio del mondo, l’antikhytera, è lì sotto il naso dei nazisti, che non se ne accorgono (salvo il giovane Voller, Mads Mikkelsen, che diventerà il villain del film).

Nell’ultima inquadratura, il cappellaccio di Indy (oggetto simbolo, metonimico, assieme alla frusta) è appeso a una molletta sul terrazzino – e la mano entra in campo e lo afferra fulmineamente. Si chiudeva in modo simile anche Il regno del teschio di cristallo: ma quella era una orgogliosa riaffermazione di vitalità, ci diceva che Indy non era ancora pronto a passare il testimone e il cappello al figlio, che lo aveva preso. Nel presente film quell'immagine non vuol dire che Indiana Jones tornerà (ma Helena?) in azione. Semplicemente, consegna la figura all’eternità del mito.