sabato 17 maggio 2025

Il quadro rubato

Pascal Bonitzer

Ha sempre il suo fascino un film sul ritrovamento di un dipinto, specie se ispirato a una storia vera, come il francese Il quadro rubato di Pascal Bonitzer, importante critico (Cahiers du cinéma) passato da diversi anni alla sceneggiatura e alla regia. Inizia con un quadretto fulminante. Una vecchia cattivissima signora cieca (è l’ultranovantenne Marisa Borini, la madre di Valeria Bruni Tedeschi) vende il suo dipinto più prezioso perché non vuole che lo erediti sua figlia che ha troppi amici neri. Quello che non vede è che la sua governante è nera anche lei.
Questo ci introduce nel mondo del commercio delle opere d’arte. Una modesta famiglia operaia scopre di possedere un tesoro: un famoso dipinto di Egon Schiele che si credeva perduto. I nazisti, che sequestravano gli esempi di “arte degenerata”, lo avevano regalato a un loro collaborazionista, ora morto, dal quale la famiglia ha acquistato (con dentro molte cianfrusaglie) la casa in cui abita.
Non ci si aspetti però una riflessione sul vero e il falso: l’autenticità del dipinto è fuori discussione. Intorno a questo gigantesco affare, ruotano le vite di due antieroi che inizialmente sono ben poco simpatici: André (Alex Lutz), alto dirigente di una casa d’aste, un solitario arrogante che non pensa che al lavoro, in guerra fredda con la sua stagista Aurore (Louise Chevillotte), una bugiarda compulsiva con traumi familiari insuperati (questa a dire la verità resta antipatica per tutto il film, ma è un parere personale). A comporre il trio protagonista, l’unica normale è Bertina, ex moglie di André e tuttora suo deus ex machina in servizio permanente. La interpreta Léa Drucker, la migliore in campo.
Il cinema francese ha una lunga tradizione, ereditata dal teatro, di messa in scena sicura e di elegante svolgimento della vicenda. Anche qui, i dialoghi e i battibecchi, la buona scansione delle entrate e delle uscite, il montaggio competente assicurano uno spettacolo piacevole. Stranamente, il limite sta nella sceneggiatura scritta dagli sperimentati Bonitzer e Iliana Lolic: alcune ingenuità, come una tentata truffa in cui André casca troppo facilmente (infatti poi dice “Avrei dovuto capirlo”, mostrando un accenno di coda di paglia dello sceneggiatore), o forzature, come la scena della rissa dei due giovani operai davanti al quadro, che è il punto peggiore del film. Ma la descrizione del vortice economico che gira intorno ai capolavori avvince, e l’asta finale ha lo stesso slancio di quando, nei film western, “arrivano i nostri”.

sabato 10 maggio 2025

Far East Film Festival 2025 - Filippine, Thailandia, Vietnam, Sudest asiatico


Diamonds in the Sand

La regista filippina di Diamonds in the Sand, Janus Victoria, è stata l’autrice di un documentario sul kodokushi in Giappone: le “morti solitarie” di chi vive recluso, delle quali nessuno si accorge subito. In questo notevole esordio nel lungometraggio, sospeso fra il Giappone e le Filippine (che ha vinto il Gelso per la miglior opera prima), una di queste morti compare sullo sfondo. Il film è focalizzato sul protagonista, ma attraverso la sua esperienza esistenziale mette a contrasto due mondi e due modi di essere, ma nel senso del loro riflesso entro un’anima. Nel ruolo del protagonista è grandioso Lily Franky, eccellente attore giapponese che vediamo più spesso in parti secondarie, per esempio nei film di Kore-eda.
Kimura Yoji, impiegato divorziato di mezza età, è l’incarnazione stessa della solitudine. Il film dà una visione raggelata della vita giapponese, neanche più la lonely crowd di sociologica memoria ma la solitudine individuale assoluta, ognuno nella sua bolla (gustoso l’episodio del film porno sul computer all’inizio). Per paradossale conseguenza, i giapponesi quando sono ubriachi perdono il ritegno, vediamo uno che trascina Yoji al karaoke senza ritegno, è tutto un bere e scocciare.
Di questa solitudine fa parte ed è simbolo, per l’appunto, la morte solitaria di un vicino di casa di Yoji, sulla quale (non sulla morte: sull’accurata pulizia della casa in seguito, a opera di appositi addetti) il film insiste in immagini memorabili per senso drammatico: perché sono significanti, non solo visuali. Poiché il film è altresì una tessitura di immagini ritornanti, queste tracce della morte vengono richiamate con abilità agli occhi di Yoji altre due volte: la prima quando osserva le tracce di sangue dell’amico Toto ucciso dagli usurai (Yoji non aveva voluto prestargli soldi che lo avrebbero salvato) e la seconda, simbolica, quando pulisce distrattamente tracce di sporcizia da un portacenere in una svendita.
La madre anziana di Yoji – quelli tra lei e il figlio sono probabilmente i momenti di maggior risonanza psicologica – si rende conto del dolore silenzioso di lui: “Yoji… sei mai stato felice?” Gli fa promettere di cercare la felicità a ogni costo, dopo la sua morte. Dopo la morte della madre Kimura, che ha fatto amicizia con la badante-amica di lei nella casa di riposo, la filippina Minerva (Maria Isobel Lopez), va a trovarla a Manila. Si immerge così in una realtà totalmente “altra”, dove si svolge la seconda parte del film; alla solitudine giapponese si oppone una chiassosa vitalità collettiva che lo sbalestra non poco; e sì, nasce una relazione con Minerva – ma le cose non sono facili come ci aspetteremmo in un film commerciale.
La regia di Janus Victoria è molto efficace nel replicare sul livello strettamente visuale l’opposizione dei due mondi a livello narrativo: le inquadrature piene, strette, brulicanti di gente e di cose di Manila contro le inquadrature vuote, austere, implicitamente desolate di Tokyo (non per nulla parte del film presenta la distanziazione ai tempi del Covid). In generale il film è memorabile nelle inquadrature. Un dialogo drammatico di separazione fra Yoji e Minerva verso la fine è reso in campo/controcampo con un utilizzo del framingdividendo l’immagine in spazi, “territori”, ostacoli – che è veramente da manuale. È un film di quieta comprensione, che nasce da un’intensità dell’esperienza umana.

Sunshine

Le Filippine sono un paese fortemente cattolico e l’aborto è proibito – il che non vuol dire che non lo si faccia, solo che è segreto e pericoloso. Paradossalmente i “rimedi” abortivi si vendono illegalmente vicino a una delle chiese più famose di Manila.
Sunshine (Maris Racal), protagonista del film di Antoinette Jadaone, è una giovanissima atleta (ginnastica artistica) molto promettente che si allena per i Giochi asiatici e in prospettiva le Olimpiadi. È di famiglia povera e il mondo le crolla addosso quando scopre di essere rimasta incinta. Cerca goffamente (su Internet) istruzioni su cosa fare; vede tutto il suo sogno sportivo, costato dedizione e lunghi allenamenti, a rischio di andare in frantumi, mentre il suo ragazzo, figlio di un pastore protestante, si defila come un vigliacco. Maris Racal fornisce un’interpretazione assai capace e sensibile nei panni di Sunshine – e ha anche dovuto imparare la ginnastica artistica per la parte.
Il film consiste nelle disperate peregrinazioni di Sunshine, che compra un “medicinale” per abortire da una venditrice (notare il dettaglio dei soldi con cui quest’ultima tocca la statuetta sacra, come a purificarli), lo prende in un sudicio albergo e finisce in ospedale con un’emorragia. Scoppiato lo scandalo in famiglia, il ragazzo si presenta accompagnato dal padre che con aria santimoniosa promette a Sunshine che sosterrà economicamente il bambino – ma Sunshine, spalleggiata dalla sorella, manda al diavolo i due. La conclusione positiva è parzialmente aperta, o meglio implicita.
Un aspetto molto originale del film è la capacità di tenere in compresenza due aspetti: da un lato un realismo pressoché naturalistico (il mercato delle pratiche abortive, il losco albergo a ore, l’ospedale sovrappopolato, i bassifondi miserabili), dall’altro un elemento fantastico e allucinatorio, rappresentato da una terribile bambina verbalmente aggressiva e sboccata che appare da tutte le parti per rimproverare Sunshine e ha una conoscenza preternaturale di tutto. Di solito un simile doppio registro sarebbe stridente, ma Antoinette Jadaone lo domina con indubbia abilità.

Death Whisperer 2

Il thailandese Death Whisperer (2023) di Taweewat Wantha parlava di una famiglia con sei figli perseguitata da uno spirito maligno potentissimo che vuole possedere la sorella di mezzo, Yam. Il film descriveva bene la progressiva disintegrazione della tranquillità familiare, anche mettendo in evidenza le tensioni latenti in famiglia (lo stupido padre autoritario, il fratello di mezzo ostile al primo, che è un soldato di ritorno a casa). Yak, l’ex soldato, sconfiggeva questo spirito femminile vestito di nero, ma non salvava la sorella.
La storia continua in Death Whisperer 2, dello stesso regista. Bisogna stare attenti ai sequel, spesso non fanno che nuocere al film originale, ma questo è buono come il primo. La prosecuzione della storia ha una sua consistenza logica e il film non ripete pedissequamente il primo film, tutt’altro (ha anche cura di ambientare il climax fuori dall’area del primo film, giusto per cambiare la cornice).
Concetto base: Yak non ha perdonato la morte della sorella Yam uccisa dal ghost femmina del primo film, e le dà la faccia da tre anni. Come atteggiamento vendicativo ricorda l’Ash della trilogia Evil Dead di Sam Raimi; da notare che in generale Raimi influenza fortemente i due Death Whisperer, anche in alcuni tocchi di horror/humour (e anzi, di viso l’attore Nadech Kugimiya assomiglia vagamente a Bruce Campbell).
Una traccia fornita da un indemoniato (qui la ricerca soprannaturale si incrocia col noir!) porta Yak in una foresta ultra-infestata, assieme a un gruppo di compagni. In questo secondo atto assistiamo a una vera spedizione che mischia l’horror e il film d’avventura (anche questo è raimiano). Nel terzo atto, il ghost, ritornato alla potenza originaria, attacca la famiglia in un hotel dove si dovrebbero celebrare le nozze della sorella Yad. Non manca il consueto e crudele attacco del mostro alla bambina terrorizzata, Yee (la piccola Nina Jessica Padoan). In questa parte, va detto, il film si permette un tocco kubrickiano un po’ eccessivo (la madre posseduta col piccone).
Il film è diretto con mano sicura ed è decisamente piacevole. Ottima la parte nella foresta e anche la realizzazione del mostro. Anche se è utile aver visto il primo film, i riferimenti interni sono più che sufficienti per seguire, e la ricomparsa finale della vittima del primo film, Yam, è un tocco indovinato.

The Stone

Il cinema thailandese è, spesso se non sempre, un cinema dell’eccesso, che si butta a capofitto nelle sue storie – nel bene e nel male. È nel bene con il piacevole The Stone, opera prima di due registi esordienti, Arak Amornsupasiri, attore e musicista, e Vuthipong Sukhanindr, graphic designer e autore di spot. Appunto, The Stone non si pone limiti, con una narrazione frenetica, non priva di assurdità deliranti, piena di rovesciamenti e sorprese al di là della normale amministrazione della narrativa thriller.
Il film ci porta dentro una specialità thailandese che è il commercio degli amuleti (avviene nelle stesse forme e con la stessa cupidigia che, da noi, quello delle monete o dei francobolli, con mercanti in concorrenza e gigantesche fiere), alla quale introduce con intelligenza lo spettatore tramite tocchi veloci, didattico senza sembrarlo. Con una maglietta che profeticamente porta la scritta Son of Danger, il giovane Ake si aggira spaesato in questo mondo nuovo per lui. Deve vendere un amuleto appartenuto al padre che è molto prezioso, posto che non sia un falso. Come il protagonista cinese di Green Wave con la sua ciotola, ma le analogie finiscono qui. Il mercato degli amuleti è un mondo di lupi, dove la pistola ha diritto di cittadinanza al pari del monocolo da orologiaio; ed è una fortuna per Ake incontrare la giovane e simpatica esperta Muay.
Da notare la lunghissima parte finale che si svolge tutta in uno stesso locale in termo reale, ed è appassionante. Qui si ha il più beffardo rovesciamento delle attese. Mi spiego, ma – sia avvertito chi legge! – è uno spoiler radicale. Mentre è ordinario nei film lo schema dialettico “ragazzo smarrito incontra ragazza che lo aiuta – lo sviluppo fa sì che lui dubiti di lei e la respinga – lei alla fine si rivela una vera alleata”, qui il terzo stadio si rivela un wishful thinking, non del protagonista ma dello spettatore – il film gabba anche noi.

Betting with Ghost

Il film di Nguyen Nhat Trung – che si potrebbe definire una commedia sentimentale con fantasma – conferma l’impressione che il cinema vietnamita si avvalga, come quello cinese, di una fotografia raffinata ma non sperimentale come in molti film coreani, bensì popular, si potrebbe dire di gusto hollywoodiano, con un montaggio molto professionale. Segnalo la bellezza di un’inquadratura con due personaggi seduti, dove la fine scena è come “rappresentata” da una donna in bicicletta che traversa l’inquadratura stessa, al centro, come affondando e tagliandola, e scompare dentro un edificio.
Il film inizia come commedia, addirittura in modi (rubo una giustissima osservazione a Sabrina Baracetti) da commedia hongkonghese – e poi si trasforma in un film commovente, dove la commedia resta come sottotraccia amara. Questo spostamento, di audacia molto asiatica, può ricordare quello del cinese Deep in the Mountains di Li Yongyi; però devo aggiungere che mentre in quel film il cambio di tono lasciava un certo sbalestramento, un senso di contraddizione, qui il trapasso è veloce ma fluido e non lascia stupore – a patto naturalmente di essere consci che il cinema orientale ama mescolare le risate e le lacrime molto più del nostro.
Lanh è il figlio scansafatiche del vedovo Dao, che si ammazza di lavoro, mentre invece Lanh dice di andare a lavorare ma va a scommettere ai combattimenti di galli. Causa un incidente (inseguito dalla gang di un creditore, casca dentro una fossa nel cimitero), Lanh comincia a vedere il fantasma di una giovane donna, Na, la quale gli chiede di aiutarla a ritrovare la figlia: lei è morta di parto 25 anni prima. Se Lanh non lo fa, sarà haunted per tutta la vita; se lo fa, Na lo aiuterà coi suoi mezzi di spettro a guadagnare soldi (esilarante la scena della rissa di Na con altri fantasmi a proposito del lotto). Però, per una specie di contrappasso (“le leggi dei morti”) i guadagni di Lanh comporteranno proporzionalmente un danno fisico a suo padre, quindi meglio che non sia avido. Nello sviluppo, tuttavia, il film rovescia in modo sorprendente molte premesse accettate dallo spettatore, specie quelle su Lanh: la nostra percezione del personaggio viene ricombinata.
Il trio attoriale è eccellente, con Diep Bao Ngoc che è la ragazza fantasma, Tuan Tran (Lanh) che sembra banale all’inizio e invece tira fuori profondità durante lo sviluppo, e Nsut Hoai Linh (il padre), un attore veterano molto famoso in Vietnam, che in effetti è eccezionale in un ruolo tragicomico e dolceamaro, un po’ alla Michael Hui. Va poi menzionata anche Le Giang come Miss Sau, oggetto di pudico amore da parte del padre.

Next Stop, Somewhere

Next Stop, Somewhere di James Lee, co-firmato da Jeremiah Foo, è una produzione malaysiana ma si potrebbe considerare malaysiano-taiwanese: si svolge interamente a Taipei una delle sue due storie, interlineate a grossi blocchi e collegate da solo rimandi capricciosi e simbolici (la banconota). Questa storia racconta dell’attore Huang (Anthony Wong, con capelli e sopracciglia tinti di nero) che è bloccato in un albergo a Taipei dalla quarantena, al tempo del Covid, col problema di denaro da trasferire da Hong Kong che non arriva. Non è detto esplicitamente ma non è difficile pensare che sia fuggito da Hong Kong per motivi politici. La sua storia si incrocia con quella di Qian (Angel Lee), una cameriera dello stesso albergo che vive la fine di una relazione lesbica con una donna psichicamente fragile e autolesionista, e quindi ricattatoria.
La seconda storia si svolge in Malaysia. Parla di una ragazza vietnamita, Kim (Kendra Sow), “comprata” come moglie dal ricco cinese malaysiano Leong (Mike Chuah) più vecchio di lei. Arrivata in Malaysia Kim scopre che ricco non lo è poi tanto. Leong però, più che un imbroglione sbavante, è a sua volta una vittima, vessato da una terribile madre che vuole un erede per la famiglia e per questo l’ha costretto a sposarsi; e ora s’intromette nella vita sessuale dei due con trovate tragicomiche, ignorando che Huang non osa imporsi alla moglie disgustata. Straniera in terra straniera, tormentata dalla suocera, Kim si trova nella peggiore delle situazioni.
Il concetto del film – chiarisce anche una citazione finale di Benjamin Franklin – è la ricerca della libertà, che non bisogna scambiare con una sicurezza temporanea. Next Stop, Somewhere ha le caratteristiche del film d’arte – l’uso di lunghi silenzi, il soffermarsi sull’immediato e sul gesto minimo, il tempo reale (che al cinema diventa tempo prolungato) ed è bello, anzi molto bello, per quanto un po’ lontano dalle linee tradizionali del FEFF.

Mad of Madness

Questo horror di livello discreto, sebbene non trascendentale, diretto da Eden Junjung ha tra l’altro l’originalità di svolgersi principalmente in una cava di sabbia e pietrisco fra le montagne – non i soliti edifici in mezzo alla giungla – ed ha altresì un forte contenuto politico-sociale.
In questa cava, alla sera i lavoranti si affrettano ad andarsene perché “vengono fuori i demoni”. Pare che ci sia, relativamente vicino, una miniera segreta di diamanti. Un uomo che è entrato in possesso di un diamante va a cercarla di notte, e fa una brutta fine, non per mano del mostro (che beninteso c’è) ma del suo amico venuto con lui, il quale lo ammazza e gli ruba il diamante. La vedova con bambino di quest’uomo (una buona attrice, di nome Raihaanun) si mette alla sua ricerca, facendosi assumere come lavorante alla cava – anche perché il marito appare come fantasma. Si crea un autentico dramma fra poveri, che coinvolge l’assassino. Intanto vediamo che in segreto, nella miniera a cielo aperto, le forze paramilitari del perfido Broto, proprietario della cava, tormentano in ogni modo dei prigionieri per fargli cercare i diamanti.
Le due linee naturalmente si fondono, fino a un climax bizzarro fino ad essere stupefacente (sul quale, a malincuore, non posso fare spoiler), che porta in primo piano l’aspetto soprannaturale, un po’ underplayed in alcuni momenti di questo dramma sociale di poverissimi oppressi da cattivissimi (ed è un vero piacere, nel finale, vedergli mordere la polvere – in tutti i sensi).


venerdì 9 maggio 2025

Storia di una notte

Paolo Costella

Dal realismo della realtà quotidiana al realismo magico è il percorso di Storia di una notte di Paolo Costella. Una famiglia borghese – avverto che la presente recensione va letta dopo visto il film – che la morte del figlio maggiore in un incidente ha incatenato in un dolore continuo si sta spaccando, con il divorzio dei coniugi. I due, Piero ed Elisabetta, si trovano a Cortina coi due figli per un ultimo Natale insieme. Ma la vigilia di Natale il figlio di mezzo, Denis, ha un grave incidente di sci e deve essere operato, col rischio di rimanere paralizzato. La famiglia si trova ad aspettare con angoscia l’esito del lungo intervento (“Sta succedendo di nuovo” dice tra sé la figlia minore Sara).
Il film è un dramma quieto, mai gridato. Per esempio, quando Piero porta fuori dalla casa dei suoceri Elisabetta per darle la notizia in auto mentre vanno all’ospedale, è bello, e molto civile, che il momento in cui glielo dice resti in ellissi e non si veda (molti registi italiani avrebbero fatto una sceneggiata). Intensi e bravissimi i due genitori Elisabetta e Piero, com’era da aspettarsi da Anna Foglietta e Giuseppe Battiston; ma è una novità eclatante la bravissima Giulietta Rebeggiani, sedicenne al tempo delle riprese, che interpreta Sara con una competenza attoriale che lascia il segno.
È da segnalare l’ottima fotografia di Fabrizio Lucci, che utilizza molto la centratura: questa trasmette un’idea di equilibrio (esempio, il divano), e l’equilibrio, lo sappiamo, è sempre a rischio di rompersi; ma questo equilibrio può suggerire anche un senso di estraneità, di alterità delle cose, con la famiglia alla porta dell’ospedale e poi nel corridoio.
Tutti noi nelle avversità, e tanto più nella catastrofe, riandiamo tristemente col pensiero al punto di svolta e alla possibilità di un movimento o una scelta diversa: “e se invece…?” Un aspetto interessante del film è che visualizza, mettendolo in scena, l’ipotetica alternativa nell’“e se...?” mentale di Elisabetta: vediamo i ragazzi che rinunciano a quella sciata col padre, vediamo come risultato la normale distribuzione dei regali quella sera a casa dei suoceri (benché avvelenata dalla consapevolezza della separazione). È qualcosa di molto umano, ma soltanto nella maggiore libertà narrativa di oggi il cinema ha potuto cominciare a ricorrervi senza marche come un PPP del personaggio assorto nel pensiero.
L’attesa per la sorte di Denis apre al tema centrale del film, che è l’elaborazione del lutto. Nel mondo contemporaneo noi non accettiamo il concetto di morte; e di conseguenza non riusciamo ad accettare la perdita. Nel lutto questa famiglia si è congelata: la sofferenza dei due figli con i suoi rituali, il divorzio in preparazione, la fuga in Africa del padre medico.
Quando sono inquadrati i volti dei tre familiari che spiano dal finestrino rotondo nella sala operatoria, la macchina da presa si abbassa per fissarsi su Sara. È proprio lei che risolve il blocco portando “di prepotenza” i genitori nel bosco in quello che lei e Denis chiamano “il posto del cervo”. Qui anni prima la famiglia ha salvato un cucciolo di cervo trovato accanto alla madre morta; “C’è sempre qualcosa che si può fare”, aveva detto il padre con parole che rappresentano la morale del film. In un’atmosfera magica – l’apparizione silenziosa del cervo adulto – il dolore si sublima in speranza e ricomposizione. Con un bel tocco simbolico, il berretto del fratello morto, che portava Denis e ora porta Sara, viene strappato da uno sbuffo di vento che lo fa volar via e sparire. È quello che i buddhisti chiamano “lasciar andare”. Distesi nella neve, inquadrati “a piombo” dall’alto, i tre guardano il cielo, formando in triangolo (che per inciso è un segno magico e rappresenta la perfezione). La conclusione col divano prima vuoto con i familiari e Denis, e le parole “Cominciamo”, mostra, in modo circolare con l’inizio della crisi, un blocco che si è sciolto, una vita che ha ricominciato a scorrere.

mercoledì 7 maggio 2025

Far East Film Festival 2025 - Hong Kong e Taiwan

 

Montages of a Modern Motherhood

Nella prima parte del notevole Montages of a Modern Motherhood di Oliver Chan assistiamo, in accordo col titolo, proprio a montages, un mosaico di brevi scene di vita quotidiana di Jing (Hedwig Tam) che ha una neonata che piange sempre, non va d’accordo con la suocera impicciona, deve mettere insieme il lavoro di fornaia e l’impegno di mamma, e così via. In questo impressionismo iniziale il film si differenzia da Still Human, della stessa autrice, il quale (pur attento al quotidiano) aveva una costruzione drammaturgica specifica. Però poi, senza abbandonare lo stile frazionato e impressionistico del racconto, mentre le cose vanno sempre peggio comincia a emergere uno schema drammaturgico ed emerge in primo piano la disperazione crescente di Jing.
Il concetto di “depressione post-partum” è un po’ una scatola vuota in cui vengono (comodamente) gettate tante cose differenti. In questo caso, la depressione di cui soffre Jing non è un fenomeno psicologico-ormonale ma il risultato di una serie di pressioni intollerabili: il peso della condizione oggettiva di una madre che non sia ricca nella Hong Kong di oggi risulta pressoché insostenibile. Intanto la figura del marito partecipa del maschilismo (solo asiatico?) che tende quasi inconsciamente a delegare tutto alla madre. È molto bello il modo in cui il film sfuma in modo allusivo, con grande sobrietà, la conclusione tragica. Semmai si potrebbe segnalare in negativo un certo ricorrere al simbolismo (uno sguardo di Jing all’uccellino in gabbia; la morte dello stesso uccellino; un tramonto di cattivo augurio dopo una scena in cui sembra che le cose siano migliorate), che appare tanto più pesante in un film che non nasconde l’elemento didattico. Ma si tratta di un peccato veniale.
Siamo a Hong Kong, ma il film parla a tutti. Gli spettatori e soprattutto le spettatrici che hanno avuto l’esperienza di avere un bambino si riconosceranno nel dramma, se non per tutti gli aspetti, almeno per alcuni tratti – e al resto provvederà l’empatia.

Cesium Fallout

Si può sempre contare sui cineasti di Hong Kong per mettere in scena l’immagine del disastro.
Invero all’inizio il film catastrofico Cesium Fallout di Anthony Pun appare (“cinesemente”) un po’ troppo verboso, anche se è bella apparizione della superstar Andy Lau che tiene un discorso citando Dickens, Le due città. Per fortuna, non passa troppo tempo che esplode il disastro: un incendio in un deposito illegale di materiali tossici rischia, come se non bastasse, di disperdere su Hong Kong una gran quantità di cesio 137, trasformando la metropoli in un deserto “postatomico”. Una visione ipotetica illustra questo “se succedesse”, mostrando Hong Kong ridotta a rovine (ed è interessante, anche se non nuovo, tale concetto della “visione del possibile”). Non manca il solito gioco interpretativo di contorno sentimental-eroico, ma le immagini in CGI del mega-incendio, con esplosioni e lotta contro il tempo, sono naturalmente il forte del film.
I cattivi sono affaristi e amministratori locali (tutto questo accade nella passata amministrazione coloniale, che credevate?). I buoni sono i pompieri, con cui collabora Andy Lau (il prof. Simon Fan) nella sua veste di esperto, in lotta contro burocrati stupidi o egoisti o semi-corrotti, in primo luogo la delegata del Chief Executive Cecilia Fong (Karen Mok), che ha un marito con le mani in pasta assieme al supercattivo occidentale.
Nota in margine: l’incidente col cesio 137 accaduto in una città brasiliana, che viene menzionato nel film, è autentico.

The Last Dance – Extended Version

Dominic fa il wedding planner – ma nella Hong Kong della crisi economica post-Covid non si fanno più feste matrimoniali. Così, tramite lo zio della fidanzata che gli cede l’esercizio, decide di riciclarsi come funeral planner: in fin dei conti, pensa, sono sempre ricevimenti. Il problema è che deve gestire il servizio in team col comproprietario Master Hui, che è un burbero sacerdote taoista esperto nel rito – proprio dei funerali – di “spezzare le porte dell’inferno”, affinché il defunto possa reincarnarsi. Lo interpreta il grande attore comico hongkonghese Michael Hui. È una caratteristica importante di questo film l’impiego di due attori di comedy – Dayo Wong e il veterano Michael Hui – in ruoli drammatici. Naturalmente i due entrano subito in conflitto – e ci sono alcuni particolari molto divertenti sul modernismo di Dominic (i suoi gadget funerari!) che manda fuori dai gangheri Master Man.
In astratto la commedia drammatica The Last Dance di Anselm Chan, enorme successo a Hong Kong, potrebbe richiamare alla memoria il bellissimo Departures di Takita Yojiro. A differenza, però, di Departures il pur interessante film di Anselm Chan manca del suo pathos umanista. Si direbbe (e un’utile intervista al regista sul catalogo del festival lo conferma) che il materialismo del protagonista/dell’autore si allarghi al film. L'elemento mortuario, che vediamo, contiene un aspetto molto fisico. Quanto ai rituali taoisti, Anselm Chan sembra trattarli come puro folklore. Quello che gli importa è il gioco psicologico fra i personaggi con le loro opposizioni: Dominic contro Master Man, Master Man contro il figlio che non vuole ereditare il suo mestiere, e soprattutto – questa è la miglior fra le linee narrative del film, e infatti emerge in primo piano nella seconda parte – la figlia di Master Man, Yuet (Michelle Wai), che invece avrebbe voluto seguire le orme del padre, ma non può perché l’ortodossia taoista lo proibisce alle donne, considerate “impure” per una questione di yin. La parte finale in cui, incoraggiata da Dominic, Yuet compie insieme al fratello il rito è un vero trionfo anche per noi.


Prosecutor

Diretto e interpretato da Donnie Yen, e ispirato a un caso reale di malagiustizia a Hong Kong, Prosecutor è uno strano mix di legal drama e film d’azione. Anzi, stando a Wikipedia era stato concepito come opera del primo genere, e in seguito è stato trasformato con l’entrata di Donnie Yen.
Questo eroe dell’action interpreta un prosecutor, una specie di pubblico ministero, che si rende conto che un giovane imputato rischia di essere condannato per un crimine di cui è innocente. Ma al suo ufficio interessa solo chiudere il caso con un altro scalpo. Inflessibile, Donnie Yen si batte in aula con la parrucca all’inglese e fuori dall’aula senza parrucca, a furia di botte, contro la gang di spacciatori di droga che ha incastrato il ragazzo.
Si tratta di un lavoro piuttosto modesto, nel quale le due linee – legal drama e arti marziali – non si legano bene, anche perché la parte sul sistema processuale hongkonghese ha un intento procedural, con tanto di didascalie, ma è così veloce che bisogna essere di Hong Kong per seguirla facilmente. Sulla parte d’azione, niente da dire, gli scontri sono abbastanza belli, ma la compresenza con la parte giudiziaria la rende un po’ ridicola: azione superfantastica, com’è tipico dell’action, e realismo procedurale in aula si elidono a vicenda. Donnie Yen, invecchiato nei primi piani, cerca eroicamente di tenere insieme le cose.
Trattandosi di una vicenda avvenuta sotto il dominio cinese, non c’è corruzione nel sistema: il giudice Michael Hui e il capo prosecutor Francis Ng si erano semplicemente lasciati ingannare dal cattivissimo avvocato a capo della banda. Tuttavia la rivendicazione, gridata a piena voce dal film, del diritto a un giusto processo, coi tempi che corrono a Hong Kong è quasi rivoluzionaria.

Daughter’s Daughter

La grande attrice, e produttrice e regista, Sylvia Chang ha ricevuto il Gelso d’Oro alla Carriera; alla premiazione è seguita la proiezione del suo nuovo film, il taiwanese Daughter’s Daughter, scritto e diretto da Huang Xi e prodotto da Chang assieme a Hou Hsiao-hsien. (Ma abbiamo avuto modo di rivedere una giovane Sylvia Chang anche nel restauro del meraviglioso Shanghai Blues, 1984, di Tsui Hark, l’altro Gelso d’Oro alla Carriera di questa edizione).
Daughter’s Daughter è un potente ritratto femminile. Aixia, sessantenne, ha sempre voluto vivere liberamente la sua vita. Era rimasta incinta giovanissima e aveva dato la figlia Emma in adozione. Poi si è sposata e ha divorziato, ma è in rapporti difficili con la figlia Zuer, che sta a New York. Quando Zuer muore in un incidente, Aixia diventa il legal guardian dell’embrione che lei si era fatta impiantare per avere un figlio con la sua compagna, morta assieme a lei. Può “terminarlo” o cederlo a un’altra persona o allevarlo dopo averlo fatto nascere con una madre surrogata. Lei – che per tutto il film, nei flashback, rimproverava Zuer per volere un bambino a trent’anni – si trova davanti alla scelta se allevarne uno a sessanta. Nel frattempo deve fare i conti con l’antica sofferenza di Emma per essere stata data in adozione. La sua decisione di far nascere il bambino e allevarlo – non è un grande spoiler perché è visibilmente la soluzione verso cui tende tutto il film – è, più che che una “continuazione” di Zuer, una sorta di risarcimento verso le figlie (“Sono stata una cattiva madre, e sono stata una cattiva figlia”, dice in un monologo nell’ombra del disastro).
Il film si raccomanda per la sua raffinatezza stilistica, anche grazie alla fotografia di Yao Hung-i – basterebbe menzionare il dialogo fra Zuer ed Emma all’inizio, visto in parte attraverso una cancellata. La drammaturgia consiste di due elementi: la fabula per cui Aixia, oltre che affrontare il lutto, deve decidere cosa fare dell’embrione, e il quadro psicologico di questa donna determinata, che nel film se deve piangere piange quando è sola, il cui egoismo vitale la rende tanto più umana. Com’è giusto, il ritratto psicologico non resta sospeso ma si invera nel racconto: non deriva da esso bensì lo precede ma in esso trova la sua espressione concreta.
Fra i personaggi, accanto alle due figlie (Karena Lam ed Eugenie Liu) e alla compagna, più calma e matura, di Zuer (Tracy Chou), spicca la madre di Aixia, interpretata da Alannah Ong, che soffre di demenza senile e confonde il presente e il passato (questo serve a un trick – un po’ facile e prevedibile ma pur sempre efficace – nel finale). L’interpretazione di Sylvia Chang è splendida: illumina lo schermo non solo nelle parti ad alto impatto emotivo (come la grande scena drammatica quando non accetta la verità sulla morte di sua figlia) ma anche nella più immediata quotidianità.

altri

L’hongkonghese Last Song for You, di Jill Leung, è un film sentimentale. Un musicista in declino incontra in ospedale la donna di cui era innamorato all’epoca della giovinezza. Ben presto lei muore. Al funerale l’uomo incontra la figlia di lei, e si avventura con lei in un viaggio in Giappone che è anche un viaggio nella memoria. Il grande difetto del film è che una prima parte totalmente realistica si trasforma senza preavviso in altro, con uno sviluppo totalmente fantastico (sul quale non parlo per evitare spoiler); questo a mio personale parere trasforma il film in un ircocervo, una creazione doppia (e sgraziata).
Gatao: Like Father Like Son (Taiwan) di Ray Jiang e Yao Hung-i (il bravo direttore della fotografia di Daughter’s Daughter) appartiene all’universo di Gatao, o “Gataoverse”: una mega-saga sulla criminalità taiwanese che a partire dal primo film si è espansa in maniera esponenziale fra sequel, prequel e spin-off. Così, in quest’ennesimo episodio, che si svolge prima del primo, è difficile seguire tutto e connetterlo alla linea narrativa generale della saga. Ci sono più personaggi, ognuno con la sua personale caratterizzazione, che in un presepe napoletano. In ogni modo, c’è abbastanza materiale per una visione “spensierata”: ci si può divertire senza pretendere di seguire tutto, basta accontentarsi dei concetti base; la narrazione è vivace, nello spirito della serie Gatao, con dei momenti di violenza abbastanza spettacolari.
Viene ancora da Taiwan Organ Child di Chieh Shueh Bin. Organ child significa bambino/a da (espianti di) organi, e questo dice tutto: siamo nell’ambito particolarmente odioso del traffico di organi di bambini rapiti. La figlia neonata del protagonista viene rapita, la moglie si suicida e lui viene incastrato dalla polizia (che c’è dentro fino al collo) nell’assassinio di una testimone. Uscito di prigione 17 anni dopo, lui, con piena ragione, si dedica – come nel (superiore) Atonement di Hong Kong, che non ha trovato la strada della selezione – a catturare e torturare i colpevoli, prima per ritrovare la figlia, poi, saputo che è morta, per vendicarla risalendo ai capi del vile traffico. Per motivi che non ho capito carica i filmati di queste torture sul dark web. Un twist dopo la prima ora fornisce al film benzina per la seconda.
Bello, il film non è; francamente, è implausibile fino a sfiorare il ridicolo involontario, con questo eroe imprendibile e con delle soluzioni assai ingenue. Però gli va riconosciuta u
na certa energia.

domenica 4 maggio 2025

Far East Film Festival 2025 - Giappone

 

Il più bel film della selezione del FEFF 2025 a mio parere (fra quelli che ho visto, ma sono un bel po’) apre la fila delle brevi recensioni dei film giapponesi al Far East Film Festival 2025. Come l’anno scorso, in linea di massima i film del Giappone sono risultati i più interessanti, il che conferma che il cinema giapponese è il migliore dell’Asia.
(Nota: alcune recensioni sono già state pubblicate in breve sul quotidiano Messaggero Veneto).


Teki Cometh

Portandoci dentro la mente di un vecchio professore, il bellissimo film giapponese Teki Cometh di Yoshida Daihachi parte come Eric Rohmer e arriva come David Lynch.
Scritto e diretto da Yoshida a partire dal romanzo Teki di Yashutaka Tsuitsui, questo film in b/n ha la stessa intensa originalità di The Scytian Lamb (già visto al FEFF) dello stesso autore. Breve spiegazione del titolo: teki è giapponese per “il nemico”, cometh è forma arcaica di comes (fa pensare alla Bibbia di Re Giacomo e a qualcosa di apocalittico).
Il prof. Watanabe (Nagatsuka Kyozo) è un professore universitario di letteratura francese in pensione, famosa autorità sul teatro del Seicento, molto amato dai suoi ex allievi. Vive da solo, scrivendo qualche articolo e cucinando per sé (la prima parte è anche una piccola illustrazione di cucina giapponese). È vedovo e rimpiange la moglie morta da anni. Ha ancora una sessualità vitale, e la spende in desiderio, sogni erotici e (il film implica) qualche momento di masturbazione.
Nonostante l’apparenza placida ha delle ansie: un po’ per la salute – non vuole farsi controllare per tema di ricevere brutte notizie – e molto per i soldi: teme di non farcela più a vivere mantenendo la sua bella casa. Continua a pensare al suo testamento e accarezza oziosamente l’idea del suicidio. Il film materializza questo carico d’ansia nelle email che lui riceve e cestina, sempre più persistenti, su un misterioso “nemico” che arriva da Nord.
Con grande abilità, dapprima pian piano, poi accelerando, il film ci porta dentro i sogni, proprio in senso onirico, del professore – nei quali esprime anche il suo desiderio per una bella ex allieva che viene a trovarlo ogni tanto. Naturalmente non sono dichiarati subito come sogno: i segnali di questo diverso statuto dell’immagine sono visibili ma non subito. Lo stile del film in questa operazione è la lentezza. Così, il confine narrativo (ovvero, quello rivolto a noi spettatori) fra realtà e sogno si fa sempre più labile, fino a realizzare sotto i nostri occhi un vero e proprio rovesciamento. In tal modo veniamo trasportati dentro la mente del professore e veniamo messi a conoscenza delle sue paure e rimorsi (sarà vero che è stato cacciato dall’università per harassment? È un sogno che lo dice). Alla fine, i messaggi d’ansia sul “nemico” che si sono depositati nel suo subconscio esplodono nell’incubo finale.

She Taught Me Serendipity

Sul piano dello spirito Ohku Akiko è una regista della Nouvelle Vague trapiantata (o reincarnata) in Giappone. Il suo cinema è di stupefacente immediatezza, eppure questa immediatezza – con aria di niente, di divagazione, di discorsi di scarpe e di grappa – va in profondità e tocca strati molto intimi della nostra realtà interiore. Non succede quasi niente ma succede tutto.
A prima vista il meraviglioso She Taught Me Serendipity sembra una commedia sentimentale – ma una commedia sentimentale dissonante, perché lo spettatore avverte fin dall’inizio una lieve inquietudine. Pare il classico film del genere “Tipo bizzarro incontra tipa bizzarra: felix coniunctio”. Toru (Hagiwara Riku) e Hana (Kawai Yuumi) vanno subito d’accordo; e i loro dialoghi strambi e “scentrati” hanno qualcosa di Beckett. Lentamente ci accorgiamo che un filo rosso del film è appunto il linguaggio (il che ha dato del filo da torcere agli autori dei sottotitoli). C’è in She Taught Me Serendipity una centralità del parlato che rientra molto nelle caratteristiche del cinema di Ohku Akiko – come è, di questo cinema, una caratteristica l’introspezione.
Mai, però, questi tratti sono stati portati (e senza preavviso) al calor bianco come qui. Mentre solitamente guardando un film lo spettatore si costruisce mentalmente un pattern di attese, qui la regola è l’imprevisto. Avanzano sul palco non due ma tre protagonisti – la terza è Sacchan (Ito Aoi), la ragazza a cui Toru piace – con tutto un loro gioco di presupposizioni reciproche e di equivoco; nel film ciascuno di loro ha un momento in cui brilla di luce propria per enunciare una verità straziante. Quel “de te fabula narratur” che è la caratteristica della grande arte assume in She Taught Me Serendipity un carattere particolarmente lacerante, grazie sì al testo, ma soprattutto al modo del tutto originale in cui esso viene distillato e inserito nella trama (la sceneggiatura è di Ohku dal romanzo di Fukutoku Shusuke). Il film getta una luce compassionevole ma spietata sui peccati che nella vita commettiamo verso qualcun altro, e riconoscervisi è terribile.
L’incrocio di tempi diversi nello stesso spazio alla fine (che chissà perché mi fa pensare al diversissimo cinema di Kore-eda) crea un possibile ricomporsi del dolore, ma a partire da un principio: ci sono responsabilità imperdonabili, e bisogna vivere per ripagarle.


The Scary House

Watanabe Hirobumi ci sorprende sempre. Nel discusso The Scary House, la sorpresa è quella di mettere insieme due elementi che più contrastanti non si può. Da un lato la figura comica (nel senso migliore della parola) di Watanabe che ben conosciamo: quell’amplificazione epica dei suoi tratti personali che ritorna in tutti i suoi film. Dall’altro un horror straight, una storia di fantasmi e possessione che si rifà in particolare a Paranormal Activity: nel film, Watanabe in persona viene assunto da una produttrice per passare alcune notti, filmato da una videocamera, in una casa che si dice infestata. In questa casa, quel che succede non è diverso da tanti horror del genere; esempio, mentre lui dorme (filmato) una palla di gomma arriva rotolando dal fuori campo, si ferma vicino al letto, poi rotola via.
Sulla carta siamo nel genere found footage, ma in spregio al genere c’è un gioco continuo fra inquadrature prodotte (Watanabe che si filma) e inquadrature oggettive, anche con lo scherzo di Watanabe che assume – imbrogliando sul compenso – un’altra persona, Yamauchi (che poi è Watanave Yuichiro), perché lo filmi; ma l’inquadratura li mostra insieme, Yamauchi con in mano la macchina da presa fictional. Dobbiamo aggiungere che ritornano nel film i regulars vecchi e nuovi del cinema watanabiano, da Hisatsugu Riko, ormai cresciuta, a Yanagi Asuna, la terribile manager di Techno Brothers (e nota che un passaggio di dialogo si raccorda alla sua figura in quel film, creando un ponte impossibile fra le due opere).
C’è un elemento di distacco umoristico assolutamente watanabiano, ma minore che nell’astrazione di Techno Brothers. Cito un dettaglio delizioso: a un certo punto Watanabe, di schiena, implora Yanagi Asuna, che dorme in un’altra camera, di fargli compagnia perché lui ha paura (e se ci fosse anche un po’ di desiderio?). Lei lo manda al diavolo e gli impone di uscire dalla stanza. Quando lui si volta, sconfitto, per andar via, vediamo che sulla sua maglietta c’è la scritta FUCK OFF.
Chi non ha visto il film, potrebbe pensare da queste righe che si tratti del vecchio trucco, alla Abbot and Costello Meet Frankenstein, di mettere un personaggio buffo in una situazione di horror serio (che solo la presenza del personaggio buffo trasporta sul piano della commedia). Non è così: Watanabe non buffoneggia (basta la scena in cui piange di paura sull’altalena fuori dalla casa). Del resto, la lunga serie di interviste ai paesani, fra cui Riko, già sposta il film fuori dalle aspettative del genere horror. È più giusto dire che anche il materiale horror viene attratto in quello che altrove ho chiamato Watanabeverse.
Nondimeno, va segnalato che a differenza degli altri suoi film, qui Watanabe recita, cioè esprime le emozioni in modo mimetico e non astratto. Questo film segna un cambiamento, o meglio un ulteriore stadio di un processo che retrospettivamente si può cogliere anche negli ultimi film. Cerco di spiegarmi: i primi film di Watanabe, quelli in b/n, erano film di Watanabe/regista interpretati da Watanabe/figura. In seguito Watanabe è diventato oggetto di culto (di nicchia, certo), cioè star. Questo film, ma retrospettivamente anche Your Lovely Smile e Techno Brothers, inverte il meccanismo: sono film di Watanabe/figura/star diretti (nel secondo caso) da Watanabe/regista. Mettono la figura in primo piano. Il presente film dilata in quantità imprevista questo processo di rovesciamento. È chiaro peraltro che Watanabe non poteva passare tutta la vita a ripetere Cry, e va riconosciuto il suo coraggio nel cercare nuove strade pur rimanendo fedele a se stesso. Dove andrà in futuro? Possiamo vedere The Scary House come un film di transizione.


Cells at Work!

Ricordate la serie televisiva francese a cartoni animati Siamo fatti così? Umanizzava i globuli, le vitamine, tutte le cellule del corpo umano. A questo filone fantastico – per il quale bisogna menzionare anche Osmosis Jones dei fratelli Farrelly o naturalmente l’episodio del rapporto sessuale “visto da dentro” in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso di Woody Allen – appartiene il film (live-action) Cells at Work! di Takeuchi Hideki, dal manga di Akane Shimizu. Non è la prima volta che Takeuchi porta con grande abilità un manga sullo schermo (pensiamo a Thermae Romae o Fly Me to the Saitama).
Quest’immersione fantastica nel nostro corpo concretizza la fantasia sfavillante del manga con un élan invidiabile e un’ottima regia. Si articola su due livelli: da un lato il mondo “grande”, con protagonisti la giovane Niko (Ashida Mana) e il padre vedovo poco attento alla sana alimentazione (Abe Sadano), dall’altro l’interno del corpo, visto come una grande città combattente. Lì un globulo rosso femmina (una globula?) (Nagano Rei) si innamora di un globulo bianco (Satoh Takeru), mentre entrambi sono impegnati nel duro lavoro di tenere sano il corpo-casa Naturalmente è valido l’elemento didattico, scherzosamente esposto, in una descrizione che, voglio ripetere, sprizza fantasia (le piastrine come tipiche scolarette giapponesi!) e ironia: la descrizione “da dentro” di un attacco di diarrea, con i muscoli dello sfintere come lottatori di sumo e la Cavalcata delle Valchirie come score, è irresistibile. La lotta delle difese del corpo contro le aggressioni di microbi e virus è realizzata in chiave di wuxiapian.
Mentre la prima parte del film si muove su un tono di pura comedy, la seconda vira sul drammatico quando Niko si ammala di leucemia. È tipico del cinema giapponese: la lacrima spunta dietro la risata.


Lust in the Rain

Bel film suggestivo, antinarrativo (è un insieme di storie che si confondono e ritornano su se stesse), Lust in the Rain di Katayama Shinzo è un live-action  dai manga di Tsuge Yoshiharu che, almeno a livello narrativo, potremmo definire d’avanguardia. In passato il Far East Film ha presentato un altro film tratto da Tsuge, Ramblers di Yamashita Nobuhiro, che ha molti punti in comune con questo che è ancora più libero proprio perché ingannevolmente realistico nella prima parte.
Sarebbe un tentativo vacuo e impossibile proporne una sinossi, appunto per il suo carattere di maelstrom di suggestioni e di ritorni. L’ultimo, liberissimo Obayashi di Labyrinth of Cinema potrebbe forse essere un paragone accettabile. Fondamentalmente il film parla di un mangaka, Yoshio (Narita Ryo), che si innamora di una bellissima donna, Fukuko (Nakamura Eriko), e vive una quantità di storie (sempre presenti due suoi conoscenti) sia nell’oggi sia nel passato (nella seconda parte del film entra drammaticamente la seconda guerra mondiale, con i massacri dei cinesi da parte de giapponesi), ma anche in una dimensione vagamente distopico/fantascientifica, disturbante, che coinvolge i bambini. Il giovane e ancor più la donna e gli altri personaggi cambiano stato, condizione e tempo in questo vortice narrativo, dove un unico punto fermo è l’amour fou di Yoshio verso Fukuko, in tutte le loro incarnazioni narrative. Di cognome Yoshio si chiama Tsube, e questo è indicativo, vero? Seguendolo, viviamo varie vite pressoché contemporaneamente, diversissime fra loro, ma tuttavia contrassegnate da una profonda unità.


See You Tomorrow

Ambientato fra gli studenti universitari del corso di fotografia, See You Tomorrow di Michimoto Saki è un “ritratto dell’artista assoluto”. La giovane Nao (Tanaka Makoto) scambia, lascia, cede tutto per la fotografia (non per la carriera, anche se questa arriva: giusto per il fotografare). Ho detto “cede”, non “sacrifica”, perché per lei l'unica cosa realmente importante è fissare la vita con la macchina fotografica (due ragazze fermate per strada dicono che è “strana”, che le spaventa, e scappano).
Merciless, spietata, viene chiamata più d’una volta Nao per questa dedizione alla riproduzione del mondo. Non è neanche una forma di appropriazione della vita in forma di foto; piuttosto è come se lei nobilitasse il mondo trasformandolo. E infatti, quando lei lascia il fidanzato Yamada per andare a studiare a Berlino, e glielo annuncia in una passeggiata notturna, Yamada scoppia a piangere – e lei si mette a fotografarlo. Non è una forma di egoismo: si potrebbe dire piuttosto che è posseduta.
È interessante l’inversione delle aspettative di genere, con lei dura e lui fragile; però prima di avventurarci in speculazioni di gusto contemporaneo conviene ricordare che la figura del giovane uomo debole (nimaine) è canonica nel vecchio teatro/cinema giapponese.
Il film si avvantaggia di una buona fotografia – anzi, si potrebbe dire che tra la fotografia a colori (di Seki Rui) del film e le fotografie in b/n di Nao ci sia un’analogia, nel bellissimo taglio dell’immagine e nella disposizione delle figure nel quadro.
Certamente la regista, al suo primo lungometraggio, promette assai bene. È anche co-sceneggiatrice con Goda Ryusei. Invero si ha l’impressione che la sceneggiatura stenti nella prima parte a dominare la narrazione: pare indecisa, manca di una presa autorevole sul materiale narrativo, mentre la seconda parte è senz’altro buona (cronologicamente, copre l’ultimo periodo degli studi in Giappone, poi un breve stacco a 4 anni dopo col ritorno di Nao da Berlino, poi una conclusione ancora 6 mesi dopo) (però è un po’ goffo questo doppio salto temporale). In questa seconda parte il film, senza raggiungere lo status di capolavoro, vola alto.


Good Luck

Adachi Shin è uno dei più originali registi giapponesi, e già lo mostrava A Beloved Wife; ma ancora oltre va il film di vagabondaggi, di incertezza e di certezza incerta Good Luck. Il protagonista Taro, regista d’essai, è uno degli antieroi indecisi di Adachi. Ha girato un documentario d’avanguardia che segue passo passo i momenti della sua compagna Yuki: uno spostamento opportunistico dello sguardo, un parlare dell’altra per evitare di parlare di sé. Così almeno lo legge (ma ha ragione) la presentatrice del mini-festival al quale il film è stato invitato, in un cinemino di provincia (qui vediamo tornare in forze l’ironia di Your Lovely Smile della coppia Watanabe Hirobumi & Lim Kah Wai). Nell’incontro, questa presentatrice – l’incubo di ogni filmmaker! – gli dice papale papale che il film “non era un granché”, che era interessante solo per la determinazione della ragazza, e che lo ha fatto venire fin lì per chiedergli: “Perché fa il regista?”
Si può capire che Taro il giorno dopo preferisca girovagare per la città. Lo blocca una ragazza, Miki, che gli dice che a lei il film è piaciuto. E lo convince a unirsi a lei in una lunga gita nei dintorni. Niente di erotico, non è un adulterio di viaggio – anche se lui non risponde al cellulare quando Yuki lo chiama. Miki è una figura bizzarra e affascinante, un po’ saggia e un po’ flippata (nell’America degli anni ‘60 sarebbe stata una hippy), e il loro viaggio non presenta solo i due personaggi ma riesce misteriosamente e “telepaticamente” a trasmetterci moltissimo sul mondo giapponese.
In questo viaggio pieno di dettagli quotidiani e figure quotidiane memorabili, una svolta eccezionale – attenzione: pesante spoiler! – arriva verso la fine. Quando finalmente Taro e Miki sono insieme di notte nella stessa stanza, in una sorta di casetta su un albero (e chissà che…), sentono bussare – ed entra Yuki, che era a Tokyo, e dice “Mi chiedo cosa pensi il pubblico di questo film”, e che le sarebbe piaciuto avere la parte di Miki, per cui aveva fatto un provino (con flashback dell’audizione). Così si incrociano il progetto metacinematografico del regista fictional e la finzione di secondo grado nella rivelazione presente. Ma c’è di più. Se finisse qui… movimento di macchina indietro ed enunciazione delle cineprese… non andrebbe oltre da quello che hanno fatto Jodorowsky e Fellini (ma prima, Bava). No: con audacia sfacciata il film riprende il suo racconto, e noi lo seguiamo, con una consapevolezza in più, in un vertiginoso intrecciarsi dei livelli (meta)cinematografici – che però non è fine a se stesso, non è un esercizio di stile, perché questi personaggi sono vibranti di umanità.

Dollhouse

Incursione nel cinema horror di Yaguchi Shinobu, Dollhouse racconta di una bambola demoniaca (non posseduta da un demonio, intendo, bensì da uno spirito vendicativo – come, per dirne una sola, nei film dell’universo di The Conjuring).
I coniugi Suzuki hanno perso in un incidente domestico la figlia piccola Mei. La moglie entra in depressione e sviluppa un’affezione morbosa per una bambola antica (ad altezza naturale di bambina) che ha acquistato, la fa sedere a tavola e si comporta come se fosse viva. Il tempo passa; i due coniugi hanno un’altra bambina, di nome Mai, la moglie guarisce dalla depressione e la bambola (di nome Aya) viene messa da parte. Ma la bambola (che la piccola Mai prende come “amica immaginaria”) è viva veramente. La sua profonda malignità prima, e la sua backstory dopo, vengono rivelate abilmente a poco a poco.
Il film è indubbiamente piacevole e ben realizzato. Il suo problema è che chiunque si interessi di horror non può che trovare alquanto stereotipato il concetto, che comprende i soliti esagerati scetticismi, dove spicca il poliziotto più scemo del mondo. Peraltro Yaguchi dirige con competenza e la seconda parte è senz’altro buona. Alcuni jump scares spaventano effettivamente. Certo, negli horror, ogni volta che un personaggio e specie un bambino è immobile inquadrato di spalle, indovini che non ti piacerà quando si volta; qua succede spesso; ma è la regola del gioco. Comunque, ci muoviamo sempre fra i luoghi comuni dell’horror, ma, in questa seconda parte almeno, con una maggiore quantità di invenzione.


Rewrite

Chi è lettore di fantascienza ha familiarità con i paradossi temporali, come il famoso “paradosso del nonno” (io costruisco una macchina del tempo, vado nel passato e uccido mio nonno prima che generi mio padre. Conseguenza, non sono mai nato. Ma se non sono mai nato, non ho mai costruito una macchina del tempo e ucciso mio nonno. Conseguenza, sono nato. Ma allora…). Sull’illogica logica del paradosso temporale è giocato Rewrite di Matsui Daigo. In una high school giapponese di oggi arriva Yasuhito proveniente da trecento anni nel futuro. È venuto perché è affascinato da un romanzo scritto nel nostro tempo che parla dell’incontro di una ragazza con un viaggiatore del tempo. Non occorre essere geni per capire che il romanzo è nato proprio da questo incontro; e bisogna che una ragazza della high school scriva questo romanzo entro 10 anni.
L’aspetto innovativo è che la storia non si ferma qui ma è costruita in forma di mystery: sembra che la prescelta sia la protagonista Miyuki, ma invece, compaiono più versioni del romanzo; e la domanda è “Chi ha scritto quella giusta?” Questa è solo la domanda centrale in un mucchio di sviluppi e di misteri intrecciati. Senza fare spoiler, il finale, vagamente filosoficheggiante, si avventura sul terreno metanarrativo.
Il difetto del film, che ha una presenza assai forte della voce narrante, è che si prende beatamente il suo tempo per svilupparsi. La svolta realmente interessante arriva dopo oltre mezzora: quando Miyuki, che nella vita è diventata una scrittrice e ha scritto il romanzo, scopre che ne esiste una versione quasi identica scritta da un’altra persona.
In seguito, la vicenda diventa piuttosto appassionante, con una miriade di giochi d’artificio dialettico-narrativi: una serie di trovate – giocate tra flashback della high school e scene dei suoi ex suoi allievi che si reincontrano adulti dieci anni dopo – il cui scopo è di lasciare a bocca aperta, e mi ricordano le prodezze dei giocolieri quando tengono in aria quattro cinque bocce contemporaneamente. Non dico che ci sia poesia (il grande regista Obayashi Nobuhiko, che è una importante fonte d’ispirazione per questo film, ahimè è morto) ma una dose di divertimento sì.

Angry Squad

Corruzione nel mondo del fisco giapponese nel divertente Angry Squad di Ueda Shinichiro (l’autore di One Cut of the Dead e Popran). Kumazawa (Uchino Seiyo), un agente delle tasse che ha osato investigare su un arrogante miliardario evasore, Tachibana, viene costretto a scusarsi e fisicamente umiliato (vuotandogli una bottiglia di vino in testa) dal furfante e dal proprio capufficio, suo complice. Gli tocca abbozzare – ma il suo cuore, per non parlare del suo senso di giustizia, brama vendetta.
Il destino gli mette fra le mani un truffatore (Okada Masaki) che lo aveva fregato in un affare. Previa restituzione del maltolto, Kumazawa arruola il truffatore e i suoi amici nel progetto di dare una stangata a Tachibana colpendolo dove gli fa più male, nel portafoglio. Il film ha come titolo completo Angry Squad: The Civil Servant and the Seven Swindlers, e questo dice tutto. Prima che facciate in tempo a dire “Ocean’s Eleven” Kumazawa si ritrova in mezzo a un gruppo di truffatori (swindlers) e criminali professionisti assortiti, che un po’ ammirano e un po’ sopportano questo dilettante finito in mezzo a loro. Superfluo dire che sono una galleria di figuri uno più strambo e simpatico dell’altro (personalmente il mio preferito è la ragazza col martello).
La logica interna sparisce più velocemente del vino che cola lungo il colletto di Kumazawa (come fa Tachibana a lasciarsi convincere che il travet che aveva umiliato in precedenza sia in realtà disonesto e ricchissimo?), ma non ce ne importa nulla, perché in un film del genere “truffa che ti truffo” quello che importa sono il ritmo e il divertimento; e da questo punto di vista Angry Squad ha le carte perfettamente in regola. Un paio di passaggi (come quando irrompe in una riunione la figlia ignara di Kumazawa e tutti fanno finta di essere una filodrammatica) sono degni di una commedia americana degli anni d’oro.
Attenzione, spoiler! Va da sé che il target non è scemo, e quando mangia la foglia il film diventa un giro vorticoso di imbrogli reciproci, equivoci, inganni e rivelazioni, tenendo abilmente gli spettatori all’oscuro di alcune carte che i nostri hanno nella manica – per cui ci aspettiamo fino all’ultimo che vada a finire molto male.
Tutto a posto, dunque? L’unico appunto è che in questo film a budget più alto Ueda Shinichiro non mostra sempre quell’inventiva sfacciata che c’era nei film precedenti (anche il sottovalutato Popran). Esempio (con spoilerone): alla fine Kumazawa va dallo sconfitto Tachibana e lo riempie di botte con una violenza degna di Miike Takashi. Poi però vediamo che era una visualizzazione dei suoi sentimenti e non era successo veramente. Ottimo; ma se durante la scena dell’umiliazione Ueda avesse introdotto una simile visualizzazione dell’interiorità… si possono fare molte cose con una bottiglia e nel mondo della fantasia non sarebbe stato difficile strapparla di mano al persecutore... intanto avrebbe colorito di più il personaggio, e poi avrebbe bilanciato maggiormente il film. Tuttavia, siccome ci siamo divertiti molto, sarebbe ingeneroso cercare il pelo nell’uovo.

altri

Welcome to the Village di Jojo Hideo è uno dei massimi esempi cinematografici di come costruire una montagna che partorisce un topolino. Racconta di due cittadini che si trasferiscono in un villaggio isolato, dove piano piano si accumulano fatti e comportamenti dei paesani sempre più inquietanti. Sulla carta è attraente, vero? Uno si chiede con ansia come riuscirà il film a dare una spiegazione a tante stranezze. Semplice: ne spiega una, la più banale, e le altre (il discorso dei bambini) le lascia nel dimenticatoio.
Appena migliore, dello stesso autore, A Bad Summer, che parla di corruzione all’interno della burocrazia del welfare. Fondamentalmente sono due film in uno. L’intendimento era di costruire lentamente una situazione finché si arriva al boiling point, e poi di descrivere l’esplosione; ma i due movimenti non si amalgamano, anche perché il film non ha coerenza stilistica (vedi l’uso di dettagli stretti nei PPP, che compare e scompare). La terribile interpretazione del gangster Ryu ci riporta agli anni più grotteschi dei gangster movies italiani, tra Lenzi e Di Leo, ma in quelli il grottesco era voluto, mentre qui il film sembra mirare al realismo.
Infine, Ya Boy Kongming! The Movie di Shibai Shuhei, versione live-action di un manga e di un anime, è un musicarello J-pop, dove l’azione drammaturgica serve per arrivare a un grosso concerto. Dal valore che si dà alle canzoni sentite in questo concerto dipende interamente il giudizio sul film stesso.