domenica 8 dicembre 2024

Grand Tour

Miguel Gomes

Edward, un funzionario inglese nell’Asia ancora coloniale del 1918, è fidanzato con Molly, rimasta a Londra, che non vede da sette anni. Quando Molly alfine lo raggiunge in Asia per sposarlo, Edward ha un attacco di terrore del matrimonio e fugge, in preda alla depressione, realizzando un vero “Grand Tour” asiatico, inseguito da telegrammi della fidanzata – un viaggio segnato dalla logica della fuga o dai giochi del destino. Birmania! Thailandia! Filippine! Giappone! Cina! Innamorata e testarda, prepotente e ironica, Molly segue la traccia di Edward con inflessibile determinazione. Potrebbe essere un contrasto della viltà e del coraggio (“Ogni uomo ha il terrore del matrimonio”, dice il buffo cugino Singleton, peraltro convinto che Edward sia una spia). Su questa trama un po’ alla Conrad, il portoghese Miguel Gomes costruisce un film complesso e geniale. Grand Tour è un film bivalve, diviso in due parti come il suo precedente Tabu: la prima metà segue Edward, la seconda Molly (Crista Alfaiate, eccezionale. La sua risata soffiando a labbra chiuse è un tratto distintivo memorabile del film). La malattia di Molly introduce un elemento personale tragico.
Nell’impasto linguistico del film, la lingua inglese parlata dai personaggi è rappresentata dal portoghese, ma le varie voci narranti – che integrano un racconto ellittico – parlano nelle lingue dei paesi visitati. La cosa spiazzante è che, mentre tutta la trama si svolge nel 1918, l’Asia in cui si muovono i personaggi è quella odierna, con i cellulari e i motorini. In questo modo Gomes utilizza tranquillamente materiale documentario da lui ripreso. Il passato e il presente si toccano e si fondono, con un effetto di straniamento.
Nel bianco e nero del film, poi, sprizzano improvvisi momenti di colore, per lo più dedicati a spettacoli di burattini asiatici di vari paesi, a rappresentare una profonda persistenza culturale. Che sfiora il metafisico: i fantasmi giapponesi sentiti da Edward nel tempio, che (dice la voce narrante) “gli raccontavano orrori in una lingua che non conosceva”; le benevole “piccole anime” dei morti indicate a Molly dall’ancella Ngoc nella casa vietnamita (vediamo bolle di sapone che sciamano sulle tombe).
Grand Tour presenta una realtà enigmatica – che è indubbiamente quella di Gomes, grande e criptico rimodellatore dell’immaginario, ma in verità è quella della vita. In ogni episodio se ne aprono altri impliciti e possibili, ogni piega del racconto nasconde altre innumerevoli pieghe. Jorge Luis Borges avrebbe capito e apprezzato.
C’è un bellissimo uso del sonoro in tutto il film (una delle cui caratteristiche è l’anticipazione sonora, prolungata più del normale). A un certo punto, sull’immagine del barcone che porta Edward febbricitante a Saigon, entra Sul bel Danubio blu, che continua su uno stacco al traffico della città vietnamita, con un ralenti leggero per cui la musica lo trasforma in una danza di motorini. Inevitabile a questo punto pensare a 2001. Il brano è stato usato molte volte, ma una così perfetta giunzione fra la musica di Strauss e le immagini non la vedevamo dai tempi di Kubrick.
Grand Tour è un affascinante mix di melodramma, film esotico ironicamente rivisto, commedia amara e apologo filosofico. Un giro dell’Asia attraversato da accenni al dominio coloniale che sta per crollare. Una riflessione sull’incomprensione reciproca fra Oriente e Occidente, e in particolare sulla presunzione conoscitiva dell’uomo occidentale (nota che né Edward né Molly comprendono la presenza dei morti fra i vivi). Un pamphlet pessimistico sull’esistenza, non disgiunto da quella bizzarra vena di umorismo che spesso posseggono i pessimisti. È una delle grandi esperienze cinematografiche del 2024 – che non nasconde di essere cinematografica, come mostra  – non senza un filo di ambiguità – il finale.


domenica 1 dicembre 2024

Il corpo

Vincenzo Alfieri

 “Il corpo” è il cadavere di una bella donna cinquantenne, morta d’infarto (fin dall’inizio, non è uno spoiler): è Rebecca (Claudia Gerini), ricchissima e alquanto crudele, che ha sposato (ovvero si è comprata) un marito squattrinato più giovane di lei, Bruno (Andrea Di Luigi). Dalla sua morte quest’ultimo ha tutto da guadagnare. Com’è, come non è, il cadavere scompare dall’obitorio. Un bizzarro ispettore di polizia (Giuseppe Battiston) indaga sul fatto, e convoca all’obitorio il vedovo tutt’altro che inconsolabile.
È un gioco al gatto col topo (l’ispettore non fa mistero di odiare Bruno) in un’interminabile notte piovosa, costellata di flashback. Anche se Il corpo è il remake di un film spagnolo, l’atmosfera di corruzione diffusa e di prepotenza (la beffa iniziale di Rebecca a Bruno) che vediamo squadernata in questi flashback può far pensare agli ambienti malati di Georges Simenon – mentre il fatto che, di fronte a questi strani avvenimenti, il vedovo comincia inevitabilmente a sospettare che la morta non sia proprio morta è suggerito da un vecchio, bellissimo thriller francese, I diabolici, di Henri-Georges Clouzot. Quel ch’è certo, le regole dell’indagine, come le vediamo nel film, non hanno nulla a che fare con la prassi italiana.
Il corpo è un giallo un po’ fatuo ma divertente, con una buona resa delle atmosfere, e fondato su un’implausibilità addirittura monumentale. Alla fine come tutti i gialli, mette in campo una soluzione (di cui com’è ovvio non farò parola), nella quale alcune apparenti falle logiche vengono tappate – ma al prezzo di un’inverosimiglianza ancora più grande di quella precedente. Ovvero, c’è nel film un doppio set di implausibilità, quella dell’indagine e quella della soluzione. Beninteso, la plausibilità nel cinema non è mai stata una legge assoluta. Ci sono autentici capolavori basati su un’improbabilità quasi sfacciata (uno per tutti: Detour di Edgar G. Ulmer). Ma si tratta di un gioco di prestigio che deve illusoriamente dar conto di tutto, come negli assurdi e meravigliosi romanzi di John Dickson Carr. Ne Il corpo, il primo set di assurdità non è interamente sanato dal secondo.
Infatti nel cinema, accanto alle eventuali inverosimiglianze della trama, vi sono delle assurdità pertinenti all’universo diegetico che mettono in crisi la croyance. Per intenderci, se nel presente film, d’un tratto, il corpulento Battiston facesse un balzo verso l’alto di due metri afferrandosi con le mani a una modanatura del soffitto, la nostra sospensione dell’incredulità ne uscirebbe irrimediabilmente compromessa (mentre in altro contesto lo accetteremmo da John Wick).
Non succede questo ne Il corpo, ma – attenzione, seguono spoiler – riguardo all’atteggiamento dell’ispettore e del suo aiutante verso l’ambiguo Bruno, che è sospettato ma convocato come testimone, i conti non tornano. In Italia, un paese in cui (purtroppo!) un poliziotto che spara a un criminale armato che lo minaccia trova il magistrato che lo manda sotto processo, quello che l’ispettore si permette con Bruno integra una serie di autentici reati, non escluso il sequestro di persona – culminando in una delirante scena di confessione al registratore in una cappella davanti a un pubblico di poliziotti-spettatori. La soluzione finale ne dà una spiegazione psicologica – ma non lo rende credibile. Eppure la soluzione c’era: non si capisce perché gli sceneggiatori (Vincenzo Alfieri e Giuseppe Stasi) non abbiano ambientato il film in qualche paese europeo diverso dall’Italia: bastava cambiare i nomi.
Come già detto, Il corpo è il remake di un fortunato film spagnolo del 2012, El cuerpo di Orion Paulo, che ne ha già avuti un paio. Questo regista e sceneggiatore ha girato nel 2016 Contratiempo, altro giallo che pure ha avuto dei remake internazionali, fra cui l’italiano Il testimone invisibile e l’eccellente coreano Confession (Jabaek) di Yoon Jong-seok, visto al Far East Film Festival 2022. Anche in Contratiempo l’intero svolgimento viene ribaltato dalla rivelazione finale di una simulazione che ridefinisce tutto il film; però in questo caso (almeno nel film coreano) il gioco di prestigio era perfettamente riuscito e lo sviluppo appariva del tutto credibile. Se lo menziono, non tanto è per paragonarvi sfavorevolmente Il corpo quanto per far notare la somiglianza strutturale fra le due storie.
Attrice dotata e coraggiosa, Claudia Gerini, che esibisce una splendida nudità sia da viva sia da morta, è la migliore in campo, tratteggiando un ottimo ritratto di dark lady borghese: in fondo non chiede altro che di godersi il marito, al quale ama fare scherzi cattivi (esagerata ma bella la scena della piscina). Giuseppe Battiston è bravo come sempre, sebbene l’implausibilità di cui si è detto pesi molto sul suo personaggio. Altri personaggi o non hanno gran consistenza o escono dal film letteralmente circonfusi da un’aura di incredibilità assoluta. La buona regia di Vincenzo Alfieri, coadiuvato dall’abile montaggio dello stesso e dalla fotografia di Andrea Reitano, è fondamentale nel tener su il film.

domenica 24 novembre 2024

Giurato numero 2

Clint Eastwood

Fa male a vedersi”, lo splendido e terribile Giurato numero 2 di Clint Eastwood – per la potenza con cui ci parla del dolore umano e di scelte che sono comunque perdenti; e per il modo in cui (contro le antiche e onorate regole hollywoodiane) lascia il giudizio morale interamente a noi spettatori. Non è un film testamentario (semmai lo era Cry Macho), è un dramma morale basato su un’ipotesi, che pone un problema, impone una riflessione.
Si tratta di un courtroom drama, un dramma giudiziario, su un processo magnificato dal bellissimo montaggio di di David S. Cox e Joel Cox: nota come vengono alternate velocemente, contro l’ordine temporale oggettivo, le arringhe finali dell’accusa e della difesa, mettendole in parallelo come se fosse un dialogo. Per l’omicidio di una donna, trovata morta in un burrone mesi prima, viene processato il suo fidanzato, un pregiudicato che era stato visto litigare furiosamente con lei. Un courtroom drama e non un thriller ma una tensione da thriller lo attraversa. Bisogna aggiungere che tale tensione dapprima è legata allo sviluppo narrativo (cosa accadrà?); poi, senza abbandonare questo, si allarga al piano morale (cosa è giusto fare?).
La prima votazione vede undici giurati contro uno, come nel famoso Twelve Angry Men (La parola ai giurati) di Sidney Lumet (1957). In quel film l’unico innocentista, Henry Fonda, si batteva per rovesciare il verdetto in una tesa memorabile discussione. Ma Henry Fonda serviva imparzialmente la verità. Qui – attenzione, seguono spoiler: la lettura è per chi ha già visto il film – il giurato numero 2 (Nicholas Hoult), Justin, ex alcoolizzato guarito, la cui moglie aspetta un bambino, ha un motivo personale. Eastwood (su sceneggiatura di Jonathan Abrams) mette le carte in tavola già all’inizio. All’inizio del processo, nell’illustrazione preliminare del caso da parte dell’accusa, gli ossessivi primissimi piani di Justin (laddove ordinariamente ci si aspetterebbero i controcampi dell’imputato) sono un modo abile per dirci senza bisogno di dialogo che il vero imputato è lui, non davanti alla legge ma alla coscienza, e alla sua paura. Infatti, per un perfido gioco del destino, Justin è moralmente innocente ma tecnicamente colpevole proprio della morte della ragazza. L’aveva investita lui in quella lontana notte di pioggia battente, e credeva di aver colpito un cervo poi fuggito; in realtà la donna era stata scagliata nel burrone oltre il parapetto. Ma se Justin lo dicesse adesso, nessuno crederebbe a un ex bevitore (che per di più quella notte aveva ordinato al bar un whisky senza poi berlo), e lo aspetterebbero molti anni di carcere. Di qui il suo tentativo di far sì che l’imputato sia assolto, giocando sulla tenuità delle prove, però senza autodenunciarsi – ma anche il suo doppio gioco quando un altro giurato, un ex poliziotto (J.K. Simmons), si avvicina troppo alla verità.
Il film si apre con l’immagine della moglie di Justin con una benda sugli occhi: è per farle trovare una sorpresa in casa, ma anticipa in modo geniale e impressionante il grande tema del film, che è la giustizia. Il che fare della giustizia quando ogni scelta a disposizione è distruttiva – e, in una parola, ingiusta. Il protagonista è innocente come l’imputato; confessare salverebbe l’accusato dall’ergastolo ma distruggerebbe, oltre che lui stesso, la sua famiglia. Il dilemma si duplica nell’ambiziosa, ma onesta, pubblica accusatrice Faith (una Toni Collette da Oscar), che ha investito molto su questo processo per la sua carriera, e viene a scoprire con orrore la verità.
Con un finale aperto (non è detto che Faith sia venuta per arrestare Justin, benché questa sia l’interpretazione più probabile) che si chiude sul campo/controcampo dei due, Eastwood e Abrams rinunciano a ogni sorta di soluzione che metta un punto fermo in positivo o in negativo (esempi immaginari, l’imputato muore in cella, Justin si consegna con nobili parole, Justin si uccide, Faith decide di lasciarlo andare, salta fuori un testimone deus ex machina, un pazzo confessa di avere ucciso lui la donna anche se non è vero). Siamo lasciati soli a decidere.
Se ci prendiamo la responsabilità di rispondere che Justin deve cadere, tutto diventa un Fiat Iustitia, pereat mundus inumano. Ma se ci prendiamo la responsabilità di rispondere – come chi scrive queste righe – che è giusto che Justin si salvi a spese dell’imputato (che è stato uno spacciatore), in una sorta di bilancia dei mali… non solo il concetto base del giusto processo è tradito, ma non possiamo chiudere gli occhi davanti al fatto che Justin se la cava personalmente assai bene (nessuno è innocente!), e ci torna in mente il rassegnato cinismo di Martin Landau alla fine di Crimini e misfatti di Woody Allen, altro capolavoro sulla questione morale.
Non è un quiz. Eastwood in questo film ci pone di fronte all’essenza della tragedia, dove non c’è soluzione rispetto alle forze contrastanti che lacerano la vita del protagonista. Non c’è composizione, non c’è possibilità di battersi come Richard Jewell, altro protagonista di una situazione kafkiana; c’è solo il male dell’esistenza, con la spietatezza di un Cornell Woolrich. In tutta la sua carriera, prima nelle forme del cinema di genere, poi andando oltre il cinema di genere senza rinnegarlo, Clint Eastwood ha dibattuto gli stessi temi: la responsabilità, il pentimento, la scelta, la giustizia sostanziale, il destino, cosa significa essere un uomo. Ora novantaquattrenne, con una perfetta regia di sobrietà classica
riprende la sua riflessione in questo film non solo profondamente ma anche dolorosamente umano.

sabato 23 novembre 2024

Giornate del Cinema Muto 2024


Non precisamente una recensione, per pesanti motivi di lavoro; devo limitarmi a riportare qui sul blog alcune impressioni (già pubblicate su Facebook o sul “Messaggero Veneto”) circa Le Giornate del Cinema Muto 2024.

Il filmone di sabato 5 ottobre a Le Giornate del Cinema Muto è – d’obbligo – “Three Bad Men” (1926) di John Ford, già passato a Pordenone nel 2017: superbo western epico e pudicamente lirico, fra dramma nel racconto, che cita Griffith, e “comedy” nei tre indimenticabili personaggi eponimi. Lo ha accompagnato l’Orchestra da Camera di Pordenone diretta da Timothy Brock su sua partitura. Però non posso non menzionare anche i magnifici dodici minuti del cortometraggio su un terremoto “El desastre en Oaxaca”, diretto da Ejzenštejn, da lui montato con Aleksandrov, fotografato da Tissé – come dire, il Gotha del cinema ejzenštejniano. Confesso che neppure sapevo dell’esistenza di questo breve film. Lo abbiamo visto nel pomeriggio all'interno della rassegna latinoamericana (e forse avrebbe trovato miglior collocazione, per un pubblico più vasto, aprendo la serata d'apertura del festival al posto di un simpatico ma non memorabile Baby Peggy).

In realtà domenica 6 son potuto passare a Le Giornate del Cinema Muto solo il pomeriggio, perdendo “La Boheme” di King Vidor. Ma il filmone l’ho visto lo stesso, perché “Trilby” di Maurice Tourneur (la ragione del mio viaggio) si è rivelato il capolavoro che mi aspettavo. La grande maestria di Maurice Tourneur (che per inciso è il padre di Jacques) emerge “come un grido” dalla superba costruzione dell’inquadratura con magnifiche partizioni dello spazio. Si vorrebbe parlare a lungo di trovate come il mascherino che “racchiude” i viaggi di Trilby o della gestione abilissima dell’immagine del malefico dipinto nel finale. In questa versione (1915) del dramma sull’ipnotismo di George Du Maurier – il cui personaggio di Svengali è un cavallo di battaglia di molti attori – emerge la bellissima interpretazione, variata e incisiva, di Clara Kimball Young nel ruolo di Trilby, la sua vittima. Aggiungo che, poiché il personaggio è una modella per pittori e scultori, il ruolo le consente un paio di inquadrature di nudo audaci per l’epoca.

Tutti gli appassionati di cinema conoscono Anny Ondra, la bella e brava attrice cecoslovacca che compare in due grandi film muti di Hitchcock, “The Manxman” e “Blackmail” (di quest’ultimo c’è anche una versione sonora, con Anny Ondra doppiata). Però sono due parti drammatiche. Incontrare Anny Ondra in chiave di “comedy”, anche se di commedie ne girò moltissime, è stata una sorpresa per gli spettatori delle Giornate del Cinema Muto lunedì 7. Il film era l’esilarante “Saxophon-Susi” (Germania 1928), diretto da Karel Lamač, che era anche il marito dell’attrice.
Saxophon-Susi” si apre dietro le quinte di un teatro tedesco su alcune belle ragazze con le gambe nude; le gambe generosamente esposte sono quasi un filo conduttore visuale di questo film teneramente libertino che si premura di metterle in mostra ogni volta che può. È un po’ la storia di Cenerentola a rovescio: Anni (Ondra) è figlia di un ricco barone ma invidia la sua amica Susi, ballerina di fila a teatro. A Susi invece sarebbe piaciuto tanto studiare. Così, quando partono per l’Inghilterra – la prima per studiare al college, la seconda per perfezionarsi in una scuola di ballerine – Anni convince Susi a scambiare nomi e identità. La scena in cui si scambiano i vestiti del bagaglio tirandoseli da una cabina all’altra ha una freschezza da Nouvelle Vague. Il valletto del lord che corteggia Susi, passando nel corridoio in quel momento, se ne ritrova coperto («Mi sembra di essere la Zia di Carlo», famosa commedia su un uomo che si traveste da donna); se ne libera ma nella distrazione gliene ‘ rimasto addosso uno, con cui cerca di ripulire la faccia del lord sporca di rossetto – e naturalmente, altro tocco di humour leggermente libertino, è un indumento intimo. “Saxophon-Susi” è una spensierata epopea dello scambio di identità, che diventa bollente quando la falsa Susi torna in patria per ballare in una rivista e deve nascondere l’inghippo al barone suo padre (il quale dal canto suo è un vecchio ganimede corteggiatore di ballerine). Questa commedia estremamente divertente, grazie anche all’apporto di alcuni caratteristi formidabili, è attraversata da una “joie de vivre” che viene dall’operetta ma con qualcosa in più. La musica vi gioca un ruolo importante fin dal titolo: la scena centrale si articola su uno sfrenato numero di danza di Susi sul testo in didascalia della canzone dui Rudolf Nelson “Susie suona il sassofono”. Naturalmente fornire il sonoro era cura dell'accompagnamento, e a Pordenone il pubblico ha avuto la fortuna di godere di un formidabile accompagnamento a tre di Neil Brand, Frank Bockius e Francesco Bearzatti. Lo scatenato numero di danza di Susi è stato accolto da un grande applauso alla fine: sullo schermo, dai personaggi del film, fuori dallo schermo, dal pubblico delle Giornate.  

(Messaggero Veneto

Il filmone di martedì 8, a Le Giornate del Cinema Muto, era senza dubbio "The Pride of the Clan" del grande Maurice Tourneur, dove Mary Pickford interpreta con molta verve il ruolo di una capo-clan donna in un'isola sperduta della Scozia contemporanea. La scena in cui manda gli abitanti in chiesa a frustate è divertentissima, anche se il film non è affatto una commedia. La grandezza multiforme di Tourneur qui si vede specialmente negli esterni del paese, dove si fanno notare le inquadrature di animali in giro per le strade, e con le sue evocative scene di massa.

Basta, diranno gli amici, è la terza volta che il tuo “filmone del giorno” a Le Giornate del Cinema Muto 2024 è di Maurice Tourneur! Ma cosa posso farci se è un grandissimo? In “The Blue Bird” (mercoledì 9 mattina, e l’avevamo già visto alle Giornate anni fa) Tourneur mette in scena il dramma simbolista di Maurice Maeterlinck con fantasia visuale e sensibilità. Sfido chiunque a non commuoversi su pagine come la visita ai nonni morti o la zona dei bambini in attesa di nascere. (Sfida persa, ci sono anche alle Giornate degli imbecilli pronti a ridacchiare per ogni cosa). Come sempre, l’uso dello spazio in Tourneur è magistrale; inoltre qui il carattere fantastico del racconto gli consente di spingersi molto avanti sul piano dell’astrazione.
Ma se volete un altro filmone, non di Tourneur: “Vanina” di Arthur von Gerlach, con Asta Nielsen, è un dramma post-espressionista del 1922, lo stesso anno del “Nosferatu” di Murnau, col quale ha molto in comune (fatta salva ovviamente la superiorità di “Nosferatu”): il trasferimento di valore simbolico dagli sfondi espressionisti alle architetture reali, la tipizzazione grottesca e la recitazione estremizzata (per entrambe le cose qui Paul Wegener è memorabile), e naturalmente i grandi temi tedeschi dell’amore, del destino e della morte in attesa.

È sbagliato credere che il cinema muto fosse in bianco e nero. Molti film erano vivacemente colorati, al “pochoir” (colore applicato manualmente sul fotogramma con pennellini o tamponi) o con tinture. Ne è un esempio il lungometraggio francese “La Sultane de l'amour”, 1919, visto mercoledì 9 sera: una storia esotica in cui le splendide colorazioni al pochoir (e tintura) sono una gioia per gli occhi e forniscono buona parte (noi arriveremmo a dire tre quarti e oltre) del fascino del film. Racconto ispirato alle “Mille e una notte”, per i costumi sfrutta i colori più vivi. Che giubbe porpora o color prugna! Che turbanti rosso vivo o verde erba! Camicie turchese o giallo paglierino! Ma anche un tramonto rosso fuoco in tintura, che la didascalia connette alla sete di sangue del sultano malvagio. Perché il film racconta (con un occhio alla narrazione digressiva delle “Mille e una notte”) del crudele sultano Malik che imprigiona e tormenta una principessa che non vuole sposarlo. France Dhélia porta al ruolo della principessa forza di carattere e anche un tocco di erotismo. Paul Vermoyal, il sultano, conferma la regola che al cinema in genere il cattivo è più interessante dell'eroe. E nel ruolo di uno spietato guerriero al suo servizio (certi freddi sorrisi a bocca chiusa che non raggiungono gli occhi!) rivediamo Gaston Modot, un grande del cinema francese, per lo più caratterista, ma centrale in due massimi capolavori, “L'Age d'or” di Bunuel e “La regola del gioco” di Renoir.
Sultana dell'amore, amore tragico, fu anche Anna May Wong, che scherzava sul fatto di morire in tutti i film. Le Giornate 2024 celebrano questa grande diva cinese (tutti la ricordiamo a fianco di Marlene Dietrich in “Shanghai Express”), unica star cinese a Hollywood, attiva negli Usa e in Europa. Sempre mercoledì 9, abbiamo ammirato la sua bravura di attrice, per non dire della sua bellezza, nel film tedesco-inglese “Song”. Il cupo John salva e protegge la derelitta Song, che si innamora di lui; ma John ama ancora Gloria, che lo ha abbandonato. È un super-melodramma con tutti i crismi e le situazioni del genere, dal passato che ritorna all'amore infelice, dal sacrificio alla cecità, con Song che pietosamente finge di essere “l'altra” per John diventato cieco.
L'attore tedesco Heinrich George disegna bene il ritratto dell'innamorato bestiale e geloso, alla Wallace Beery, ma è Wong che domina il film. Possiede una capacità mimica eccezionale e sebbene reciti una parte drammatica ha la capacità di fare appello allo spettatore con quei tocchi che gli americani chiamano “cute” (sarebbe “grazioso”, ma non rende appieno). Azzardiamo un'ipotesi: che Wong avesse studiato attentamente lo stile interpretativo di Lillian Gish. In ogni modo, vederla sullo schermo è un continuo, ammirato piacere.

(Messaggero Veneto)

Che grande film “Three Women”, Ernst Lubitsch 1924, visto a Le Giornate del Cinema Muto giovedì 10. Lubitsch è “il regista delle porte” (copyright Mary Pickford). È il regista delle entrate e delle uscite di scena. È il regista dello scambio di sguardi e dei campo/controcampo geniali. È il regista che riporta sullo schermo nel modo più snello e intelligente possibile l'interazione umana. Questo è il “Lubitsch touch”. Tutto è così incredibilmente fluido nel suo cinema; se Lubitsch fosse musica, sarebbe Mozart.
È in grazia di questa magica fluidità che il racconto, come in “Three Women”, può passare dalla commedia al dramma al mélo senza mai dare, non dico un'idea di stacco, ma nemmeno una sensazione di cambio volontario di direzione. Sembra essere la vita stessa che si sviluppa sotto i nostri occhi, in questa storia di una madre troppo frivola e di una figlia troppo ingenua.
Nota in margine. Una bella sorpresa: il gioielliere da cui il ragazzo innamorato compra un braccialetto per Jennie, in una breve scena, è Max Davidson.

Raskolnikow”, di Robert Wiene (Germania 1923), il filmone di venerdì 11 Le Giornate del Cinema Muto, è un po' il contrario di “Vanina” di von Gerlach, che è dell'anno prima. Qui, la recitazione è realistico-psicologica (l'isterismo del protagonista ha una giustificazione diegetica) mentre le scenografie mostrano quella deformazione espressionista presente ne “Il gabinetto del dottor Caligari” di Wiene (e anche in “Von Morgen bis Mitternacht” di Karl Heinz Martin). Una contraddizione fra messa in scena e recitazione? (laddove in “Caligari” erano coerenti). Francamente sì. Però, come a volte capita, è una contraddizione feconda. Il film non è indebolito dalla sua scenografia irreale, che anzi in alcuni punti (non sempre) produce una risonanza con lo stato d'animo dei personaggi.
Certamente, la concezione profonda di questo “Delitto e castigo” è affine al concetto espressionista di un universo-macchina che schiaccia gli individui più che al misticismo cristiano di Dostoevskij. Anche la conversione finale di Raskolnikow (lo scrivo alla tedesca come nel film) con i suoi segni di croce tiene più della follia che della serenità ritrovata attraverso l'espiazione, come in Dostoevskij. Ma è una lettura legittima, e il film, assai ben interpretato da attori russi, si fa ricordare. Proprio in questa diversa linea si situa la trasformazione di Porfirij Petrovič, l'amministratore della giustizia, in una figura inquietante, forza del destino più che tramite dell'espiazione. È molto indicativa un'inquadratura che (sfruttando l'assoluta libertà “grafica” del film) lo presenta seduto alla sua scrivania con intorno un disegno di linee nere che formano visibilmente una ragnatela: come un ragno in attesa della vittima, Raskolnikow, di cui ha già intuito la colpevolezza.

Si sono concluse, sabato 12Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone, come sempre emozionanti, tanto che era appena ieri e già il pensiero va all'anno prossimo. Per quanto sia bello “The Winning of Barbara Worth” di Henry King (che sabato sera ha concluso la rassegna con l'accompagnamento dell'Orchestra da Camera di Pordenone diretta da Ben Palmer su partitura di Neil Brand), come ultimo “filmone” di queste brevi corrispondenze da Pordenone scelgo un film del pomeriggio, “Forgotten Faces” (USA 1928) di Victor Schertzinger. Magistralmente interpretato da Clive Brook con una recitazione minimalista, viso rigido e occhi espressivi, è uno splendido giallo che inizia come “comedy” e si sviluppa come film di suspense. Un ladro gentiluomo, soprannominato “Eliotropio” perché ama questo profumo, uccide l'amante della moglie, abbandona lei (che incidentalmente l'aveva denunciato alla polizia per liberarsene) e porta via la figlia neonata. Fa in modo che venga adottata da una famiglia ricca e poi si costituisce.
17 anni dopo, la moglie Lily – una grande Olga Baclanova (“Freaks”) di scatenata malvagità – scopre dov'è la figlia e ha intenzione di rovinare la sua vita per vendetta contro il marito. Rilasciato su parola, “Eliotropio”, che ha giurato al direttore della prigione di non alzare la mano su Lily, la perseguita, facendole crollare i nervi, in un modo indiretto che anticipa certi horror psicologici degli anni Sessanta come “Che fine ha fatto Baby Jane?” – mentre nel finale il racconto sfocia in una grande pagina di suspense in pieno stile anni Venti.
Un film affascinante, anche se entrambi questi esercizi di suspense di natura diversa hanno provocato in sala qualche risata da parte di alcuni ignoranti che non saprebbero distinguere Alfred Hitchcock da Mack Sennett.


sabato 16 novembre 2024

Il gladiatore II

Ridley Scott

Giacché invecchiando Ridley Scott è calato in forza e capacità… “La voce del cantor non è più quella”… è stata per lui una buona idea tornare ad abbeverarsi all’antica fonte (non che funzioni sempre: pensiamo ai ritorni ad Alien); così ci ha dato Il gladiatore II, il suo miglior film da anni (dove, per inciso, già dispongono bene i titoli di testa di Pierluigi Toccafondo). Non è un cupo capolavoro come Il gladiatore del 2000, di cui è il sequel; ma è convincente e suggestivo. Certo, i tratti fondamentali che caratterizzavano il grande cinema di Ridley Scott appaiono solo in forma residuale. Il gladiatore era un dramma di ispirazione quasi shakespeariana e insieme una riflessione sul vedere. Qui siamo a un livello più basso.
Il sistema coloristico del film non ha l’agghiacciante coerenza (con i blu al posto dei rossi) del primo Il gladiatore. Scott però se ne ricorda in alcuni momenti: molto bello il salto di colore fra l’assolata città numidica e il grigiore temporalesco della flotta romana in avvicinamento; la battaglia che segue è una delle pagine migliori. Peccato che il protagonista Paul Mescal non valga Russell Crowe – sicché soffre nella vicinanza con l’ottimo Denzel Washington, che gli ruba invariabilmente la scena. O anche la sperimentata Connie Nielsen.
Arnone (Paul Mescal) è un guerriero della Numidia che vede morire la moglie arciere in battaglia contro i Romani; è logico che li odi, in particolare nella persona del generale Acacio (Pedro Pascal). Dopo la sconfitta diventa schiavo e gladiatore sotto l’ambizioso Macrino (Denzel Washington), che sogna addirittura l’Impero. Ma che qualcosa non torni nella nazionalità di Arnone, lo capiamo già all’inizio, quando in un discorso ai guerrieri numidi saccheggia Tacito ed Epicuro; più tardi, da gladiatore vittorioso, reciterà Virgilio in faccia ai due ignorantissimi imperatori. Infatti sul trono, al posto di Commodo, ora c’è un mostro doppio: la sadica coppia gay degli psicopatici imperatori gemelli Caracalla e Geta (Fred Echinger e Joseph Quinn).
Naturalmente nella realtà non erano neanche gemelli, per non dir del resto; ma la rievocazione storica del film è del tutto immaginaria. Non c’è ragione di preoccuparsene; anche il primo Gladiatore aveva un atteggiamento supremamente sfacciato nei riguardi della storia. Nel presente film, è delizioso vedere il senatore Thraex che aspetta la spia al tavolino di un bar (d’accordo, taberna) leggendo una specie di quotidiano; più tardi, assistiamo a una seduta del Senato storicamente folle, ma divertentissima.
Semmai spiace di più quando Il gladiatore II entra in contraddizione con se stesso. Nel film, perfino un graffito osceno che vediamo di sfuggita su un muro (“Irrumabo”: l’ispirazione non viene da Pompei ma da Catullo) è, giustamente, in latino; quindi è assurdo che sia in inglese l’iscrizione sopra la tomba dell’eroe Massimo Decimo Meridio del primo film.
Con bei tocchi visuali, come una Roma notturna popolata di homeless, con i classici giochi di potere e tradimenti e inevitabili agnizioni, Il gladiatore II ci offre da un lato un tocco di piacevole melodramma in puro stile peplum, dall’altro (ecco il suo pezzo forte) deliranti e spettacolari combattimenti nell’arena – citiamo solo la naumachia (battaglia navale) nel Colosseo allagato, con aggiunta di squali. Sono così belli da farci pensare che è un bene che esista il cinema per offrirceli senza bisogno di averli dal vero. Perché, ammettiamolo, le nostre emozioni guardandoli sono le stesse del pubblico romano sulle gradinate.

sabato 9 novembre 2024

Megalopolis

Francis Ford Coppola

Il 2024 ha visto l'uscita di due film importanti, nonché flop colossali. Il primo è l'“eroico suicidio” di Joker: Folie à Deux di Todd Phillips – che sul piano artistico è più bello del precedente Joker, ma sul piano commerciale era a tal punto destinato al fallimento che sembra impossibile non sia stato fatto apposta. Il secondo ovviamente è Megalopolis: A Fable di Francis Ford Coppola.
Se muoio, tu finirai questo film – e se muori anche tu, lo farà Lucas”. Questa ingiunzione da patriarca biblico, o da eroe di John Huston, che Coppola rivolge a John Milius sul set di Apocalypse Now, dice tutto. È addirittura offensivo pensare a Megalopolis come a un film riassuntivo di fine carriera. A parte che Megalopolis è un suo vecchio progetto di sempre, la tendenza di Coppola al gigantismo, la sua volontà di sorpassare il cinema della propria epoca (le “citazioni” in Megalopolis più che omaggi sono cannibalizzazioni), la sua sperimentazione continua, tutto ciò non è un frutto della vecchiaia ma l'anima coppoliana di sempre. Parlando, anni fa, proprio di Apocalypse Now Massimo Caprara definiva Coppola come l'ultimo dei grandi registi visionari di Hollywood (Griffith, von Stroheim, Welles). E sui suoi progetti Coppola è disposto a scommettere la camicia: la sua storia produttiva è una storia di trionfi e rovinose cadute, come Un sogno lungo un giorno – che con Megalopolis ha qualcosa in comune. Coppola è genio solitario, costruttore/distruttore, profeta. La sua figura, il Grande Artefice visionario, si rispecchia nell'architetto Cesare Catilina, che vuole costruire la città del sogno per tutti; ed è (quasi) inutile ripetere che alla base c'è l'architetto de La fonte meravigliosa, sorto prima che nel cinema di King Vidor dalla fantasia anarchica di Ayn Rand.

Megalopolis – il cui sottotitolo A Fable riporta la passione di Coppola per la favola e il mito – si articola su due linee base. La prima è la grande metafora con cui l’America d’oggi si fonde con l’antica Roma (un’idea che nella sua semplicità spettacolare ha qualcosa di cormaniano, se ci va di evocare gli esordi del regista). Nel film, quel concetto di crisi e caduta della civiltà occidentale che ha sempre ossessionato Coppola si pettina con la frangetta dei romani. C’è un vero divertimento del Coppola sceneggiatore nel tracciare corrispondenze (Clodio, il travestimento e lo scandalo della Bona Dea). I nomi/personaggi sono scelti con accuratezza, confermando “l’intrinseca letterarietà che regola l’opera di Coppola nell’insieme” (Franco La Polla). Soprattutto è importante notare che il protagonista, interpretato da Adam Driver, non si chiama Catilina ma Cesare Catilina: non semplicemente l'aspirante eversore della (corrottissima) Repubblica romana, l'uomo contro il quale Cicerone pronunciò le Catilinarie (qui puntualmente citate), ma anche l'autentico eversore di quella Repubblica, colui che passò il Rubicone – e fece bene (del resto, se leggiamo Sallustio, vediamo che i rapporti fra Cesare e Catilina erano tutt’altro che indifferenti, benché abilmente nascosti).
Lo scontro fra il costruttore Cesare Catilina e il sindaco Cicerone è lo scontro fra l'amministratore della quotidianità e l'artista geniale e incontrollabile. Coppola nella sua opera ama ragionato per opposizioni. L’oggi in lotta contro il domani, il buon senso quotidiano contro l'utopia – ma, direbbe Coppola, in un momento di crisi in cui l’oggi sta crollando, solo l'utopia del domani indica la salvezza.

La seconda linea base di Megalopolis, che corre all’interno della prima, quasi nascosta nelle sue pieghe, è un discorso vagamente metafisico sul tempo. Coppola ha sempre nutrito una fascinazione verso il tempo e il futuro. “Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti”, dice famosamente Dracula a Mina, entro un concetto di reincarnazione; nel tempo viaggia materialmente la protagonista di Peggy Sue si è sposata; un viaggio simbolico nel fiume del tempo, non solo sul piano geografico, è quello di Apocalypse Now Redux; il tempo corre e uccide in Jack; ma pensiamo anche alla complessa tessitura temporale de Il padrino – Parte II. È quasi disperata la domanda, che risuona in Megalopolis, di “costruire un futuro per noi”. Ora, l’architettura e la politica sono precisamente due modi di modellare il tempo costruendo il futuro. Questo è il nodo dello scontro fra Cicerone e Catilina. Su questo Coppola innesta un’idea sorprendente (ma discutibile): Catilina possiede una sorta di superpotere, quello di fermare il tempo a piacimento in segreto.

La monumentalità formale che contraddistingue Coppola, vero figlio della New Hollywood, è ben riconoscibile in Megalopolis. Coppola come autore ha una concezione totalizzante del cinema, una concezione wagneriana (gesammelte Kunstwerk) che gli viene dall'amato Ejzenštejn. Ma è, la realizzazione, pari alla grandezza del progetto? Si sarebbe, temo, imbarazzati a rispondere di sì. Beninteso, a onta dei molti che si sono affrettati a liquidarlo, Megalopolis è un film fascinoso, una grande esperienza sulla quale spesso torneremo con la memoria. Sarebbe sleale obiettare che è meglio un Coppola disordinato che un Muccino ordinatissimo. Ma certamente Megalopolis è un grande film flawed: un grande film fallato (che non significa fallito). Il titanismo della concezione, del grande disegno, non si rispecchia in un corrispondente titanismo delle singole pagine. Ma la contraddizione principale è un’altra, ed emerge nella dualità delle due linee generatrici del film. Quella capacità che ha Catilina di intervenire sul tempo (“Time, stop!”) a mia opinione rende confusa l'architettura della metafora. La metafora di Megalopolis si realizza attraverso un semi-realismo che male si accorda all'irrealismo fiabesco della dote segreta di Catilina. Il modo in cui essa è esposta è allo stesso tempo (no pun intended) troppo debole per dare sufficiente rilevanza alla seconda linea base del film e troppo forte per non incidere sulla metafora. Si crea una discrasia che danneggia il film – anche se, come vedremo, quella dote misteriosa torna utile a Coppola per un bel finale.


Infatti, Megalopolis è Metropolis. Il capolavoro di Fritz Lang è un modello (inarrivabile) per il film di Coppola. Lo può suggerire anche un dettaglio minimo come le statue allegoriche che si animano – ove Coppola può essersi ricordato delle statue della Cattedrale in una delle pagine meno note del gran film langhiano. Dettagli a parte, però, è il concetto base a unificare i due film.
Metropolis di Lang si fonda sulla contraddizione fra Capitale e Lavoro. Ma alla fine questa contraddizione si risolve in una conciliazione (qui entra in gioco l'ideologia “nazionale” di Thea von Harbou, che per inciso non piaceva a Lang; ma il film è quello). Dalla conciliazione nasce il mondo futuro, l'alleanza delle forze produttive alte e basse, che è simboleggiato dall’unione (desessualizzata) tra Freder e Maria.
Megalopolis di Coppola si articola a sua volta su una contraddizione. I suoi due protagonisti maschili, il sindaco e l'architetto, rappresentano, come già detto, l'Amministrazione e l'Utopia (mi preme dire che – “germanicamente” per Lang, “langhianamente” per Coppola – non si tratta della rappacificazione fra due individui bensì della sintesi dialettica di due concetti ipostatizzati in due individui – anche se Coppola è più americano di Lang nella preoccupazione di vestirli di carne realistica). Non per nulla Cicero ammonisce Catilina che l'utopia facilmente si rovescia in distopia. Ma l'ultima scena rappresenta una conciliazione fra questi opposti, che trova la sua espressione nelle parole del sindaco. In entrambi i casi la riconciliazione avviene dopo un disastro, in Metropolis la rivolta e l'inondazione, in Megalopolis l’esplosione violenta del trumpismo (Coppola è chiarissimo nel connettere le folle agitate da Clodio alla folla trumpiana che invase il Campidoglio nel gennaio 2021).
Chi ha trovato che questo accordo finale – del quale va notata la solennità – entri male nel contesto e indebolisca il film, a mio parere non ha capito il senso dell'opera. In Megalopolis più che in Metropolis (et pour cause, essendo in quel film la visione della sessualità connessa alla “falsa Maria” diabolica), la grande conciliazione viene confermata attraverso il corpo e il sangue: la nascita di una bambina (che calma il dolore di Catilina risarcendo la scomparsa della sua prima moglie): la fondazione di una famiglia che riunisce gli opposti nell’unione fra Cesare Catilina e la figlia di Cicerone, Julia – il cui nome porta in sé la promessa di una dinastia.
Proprio a questo punto torna utile a Coppola quella che continuo però a ritenere una disfunzione del film, la capacità di fermare il tempo. Nel finale, infatti, quando Catilina ferma il tempo l'ultima immagine ci mostra la bambina che si muove; su di lei la dote di Catilina non ha efficacia; che ciò sia importante, Coppola lo sottolinea chiudendo in iride sulla piccola. La centralità finale di questa bambina a sua volta padrona del tempo… una bambina che rappresenta fisicamente la sintesi degli opposti e un’America nuova (“E giustizia per tutti” inscritto nella solennità del marmo)... non fa pensare, più in piccolo, a un altro bambino che rappresentava il futuro – e compariva solennemente alla fine di 2001: Odissea nello spazio?


giovedì 31 ottobre 2024

Parthenope

Paolo Sorrentino

Parthenope, la protagonista del film di Paolo Sorrentino... Parthenope che ha lo stesso nome della sirena suicida il cui corpo fu trovato là dove sorge la città di Napoli... Parthenope, dicevo, all'inizio del film viene partorita nell'acqua. Questo è l'elemento che contraddistingue il film di Sorrentino: Parthenope è un film d'acqua. Dell'acqua ha la fluidità, l'irriducibilità a una forma, nella quale si allarga, e così la nega.
Parthenope segue la vita di Parthenope (Celeste Dalla Porta), misteriosa e bellissima come la Gioconda, tanto sguardo irraggiungibile quanto oggetto dello sguardo amoroso (il film ha un momento bellissimo sulle ragazze che camminano, decise, sorridenti, solari, e gli occhi degli uomini le accarezzano). C'è una sorta di castità di Sorrentino, per il quale il sesso si identifica con lo sguardo, in modo quasi mistico. Basta ricordare i nudi meravigliosi di Madalina Ghenea in Youth o di Luisa Ranieri in È stata la mano di Dio (un film che per molti versi assomiglia a questo). La bellezza di Parthenope si diffonde nell'aria come il fumo delle sigarette, che sono molto presenti in questo film; e Sorrentino è uno dei pochi registi (ecco che mi torna in mente lo splendido cameo di Shu Qi in Just One Look di Riley Ip) a riconoscere e trasmettere la bellezza di una giovane donna che fuma.
A parte una parentesi in cui medita di fare l'attrice (nel che, peraltro, sempre lo sguardo e gli occhi sono chiamati in causa!), la sua scelta di vita è l'antropologia, sotto l'ala del caustico professor Marotta (Silvio Orlando), che emerge come vero padre putativo – mentre altre figure del film, come il padre vero, sono troppo umbratili per lasciare traccia. La domanda che come un tormentone attraversa il film, “che cos'è l'antropologia?”, trova alfine per bocca del professore la perfetta definizione: l'antropologia è vedere. Precisamente questo è lo sguardo di Parthenope: uno sguardo che vede e ci fa vedere: onde Parthenope diventa attraverso i suoi occhi un grande ritratto della città di Napoli. Nella sua bellezza solare (ancora l'acqua) e nel suo ventre – il grottesco sorrentiniano, che traspare nel matrimonio camorrista consumato sotto gli occhi di tutti ed esplode nell'episodio del “mostrino”.
La letterarietà dei dialoghi, molto sorrentiniana, è generalmente ben costruita e ben gestita (ora dirò una bestemmia: bizzarramente, il solo a uscirne con un'aria trombonesca è il personaggio di Gary Oldman). Vediamo la storia di Parthenope nel corso del tempo – l'uomo davanti al tempo è un caposaldo del cinema di Sorrentino – e Celeste Dalla Porta è bravissima nel fondare e trasmettere le sfaccettature della vita che scorre, non semplicemente come mimica del volto, ma nel senso esistenziale che si riflette nel corpo intero. Questo adottare la forma biografica, per cui gli avvenimenti, come per una locomotiva in corsa, balzano incontro “da soli”, dà a Sorrentino la possibilità di svincolarsi da una costruzione drammaturgica.
Beninteso, ha diritto Sorrentino, come ha rivendicato, di non nutrire un eccessivo interesse per la trama, in senso appunto drammaturgico; abbiamo diritto noi spettatori di giudicare il risultato. Il costo dell'operazione è che il film appare episodico, perfino un po' slegato. Parthenope è fatto di pezzi assai alti, fra i migliori del cinema di Sorrentino, frammisti a momenti (specie nella prima parte) che lasciano una sensazione di incertezza sul piano artistico. Ciò non toglie che il film, per quanto faticoso nell'articolazione del racconto, componga un grande affresco pieno di fascino sulla città di Napoli. Il suo impatto emotivo è indubitabile.
Menziono solo il capitolo che a mio parere è il vertice del film: l'incontro di Parthenope, antropologa che studia il miracolo di San Gennaro, con l'arcivescovo Tesorone (Peppe Lanzetta). Capitolo perfetto ed enigmatico (altro che il forzato The Young Pope!), culminante nella soluzione geniale per cui il sangue di San Gennaro – che non aveva voluto sciogliersi nella cattedrale affollata e isterica – si scioglie in segreto al momento nell'orgasmo nel rapporto a due nella cattedrale deserta.
La melancholia sorrentiniana, che ben conosciamo, attraversa il film, dove al fondo resta la consapevolezza amara del carattere transeunte della gioventù e dell'amore. Interpretati da tre eccellenti giovani attori, i tre personaggi giovani – Parthenope, il fratello Raimondo (Daniele Rienzo) e il primo fidanzato Sandrino (Dario Aita) – partono tutti per l'esilio; e l'esilio è sempre stato un filo rosso del cinema di Sorrentino, incrociandosi – senza contraddizione – con un altro, quello della persona che si è costruita intorno una barriera, in un “tempo bloccato”. Forse questo primo tema è diventato, col tempo, prevalente rispetto al secondo? Ma forse neanche tanto, se pensiamo alla grigia predizione che Parthenope fa a Sandrino quando questi le rivela la sua decisione di partire per andare al Nord (un'osservazione molto interessante fatta dell'attore in sede di presentazione del film: a Napoli sarebbe sempre rimasto un diminutivo). Per Raimondo, invece, è l'amarezza dell'amore. La scena “bertolucciana” dell'abbraccio a tre a Capri fissa il personaggio come in un bassorilievo. È innamorato della sorella? È innamorato di Sandrino? È troppo sensibile in assoluto? Comunque, non diversamente dalla sirena, muore suicida; sceglie l'esilio più totale e definitivo (unde negant redire quemquam). Poi, all'improvviso, senza spiegazioni, la stessa Parthenope – che è andata a insegnare antropologia a Trento dov'è previsto che resti un paio d'anni per poi vincere la cattedra a Napoli – rimane a Trento fino alla pensione. Senza spiegazioni: il suo “Mi sono innamorata dello speck” ha la stessa potenza enigmatica e ironica del “Sono andato a letto presto” di Proust/Medioli/Leone (C'era una volta in America). Ma quando ritorna a Napoli a 73 anni, col volto di Stefania Sandrelli, al confronto imprevisto con l'allegra chiassosità dei tifosi napoletani, sorride.