sabato 28 settembre 2024

Vermiglio

Maura Delpero

È stato detto unanimemente, quando il film è passato alla Mostra di Venezia vincendo il Leone d’Argento - Gran Premio della Giuria, che Vermiglio di Maura Delpero si inserisce nella linea di Ermanno Olmi (L’albero degli zoccoli, Torneranno i prati). Ma non nel senso di derivativo o imitativo: questo notevole film, recitato in dialetto trentino coi sottotitoli, è un apporto attivo e vitale.
Vermiglio è un paese povero e isolato della Val di Sole; l’epoca è la fine della seconda guerra mondiale e subito dopo. Il maestro Graziadei ha dieci tra figli e figlie; è in freddo col maschio maggiore ma affettuoso verso le tre figlie più grandi: la sfortunata Lucia, l’inquieta Ada e la piccola Flavia che è la più brillante nella scuola elementare. In questa famiglia di dignitosa povertà (i due figli maschi dormono nello stesso letto in posizione invertita), solo Flavia potrà continuare gli studi, con dispiacere di Ada che l’avrebbe voluto. Lucia si innamora di un soldato siciliano rifugiato, Pietro, e lo sposa; il matrimonio avrà una svolta drammatica.
Attorno a queste figure, Vermiglio è un film corale. Ogni personaggio ha diritto all’attenzione; ogni personaggio ha un’autenticità profonda, che viene convogliata da un’eccellente direzione degli attori, professionisti e non professionisti. Non c’è né arcadia sciocca né naturalismo brutale nella descrizione attenta della vita del paese nel suo svolgersi, il lavoro, le chiacchiere, le feste, la trasgressione segreta nella “ribelle” del paese, i battesimi e i funerali, gli interrogativi dei più piccoli sulla morte, la religione: le preghiere, la confessione, i riti, con la pregnanza del latino ecclesiastico, con le sue formule conosciute da tutti. Maura Delpero viene dal documentarismo, una lezione che si vedeva anche nel suo primo film di fiction, Maternal; la vivezza con cui emerge la vita collettiva d’allora a Vermiglio (che poi è il paese di nascita del padre della regista) è debitrice a un occhio “antropologico”. In un rito popolare nella parte iniziale del film, è Lucia a impersonare Santa Lucia, la portatrice di doni, condotta sull’asino con un velo sul viso che la “acceca” come la santa senza occhi (curiosità: la melodia del canto su Santa Lucia che sentiamo nella scena è la stessa della ninnananna friulana Sdrindulaile). Verso la fine del film, quando è incinta ed emerge che il matrimonio è stato una disgrazia, la donne anziane commentano, fra dispiacere e malignità: “A forza di fare Santa Lucia è diventata orba anche lei”.
È tempo di guerra, che non compare direttamente ma è una presenza costante col suo carico di dolore, da cui si torna sconvolti. “Quelli che tornano dalla guerra hanno i segreti”, dicono le donne del paese, e Pietro parlando della vita dei soldati: è “come se sei vivo, però non proprio”. L’accuratezza storica ripesca, per l’aereo “nemico” che ronza sopra il paese, il nome “Pippo”, che con impaurita familiarità veniva popolarmente dato (anche in Friuli) ai solitari ricognitori alleati.
Mentre nella maggior parte del cinema italiano i personaggi sono portatori di giudizi fin dal primo apparire, l’adesione al concreto di Maura Delpero introduce figure autentiche, cioè complesse. Il miglior esempio è la figura del maestro (Tommaso Ragno), patriarca in tutti i sensi che impone ai paesani la linea morale sulla guerra (per cui Pietro non viene denunciato) e in famiglia è la figura patriarcale in tutti i sensi (superbo uno scambio di battute fra lui e la moglie Adele subito dopo il parto di lei). Vediamo la sua interiorità e le sue contraddizioni; acquista dei dischi di musica classica anche se non gira denaro in famiglia (“pane per l’anima”, e li userà anche per le sue lezioni) e quando Ada va a rubare le sigarette nel suo cassetto vi scopre un album di fotografie di donne nude, che la turbano, e a cui ritorna più volte, punendosi poi con inconsuete penitenze.
Nella fotografia di Michail Kričman l’aspetto visuale del film si basa su una sorta di contrappunto fra la quotidianità dei volti e degli ambienti in dialogo con i grandi paesaggi della montagna - però, questi, non alieni ma egualmente familiari ai viventi. 
È la stessa familiare conoscenza di cui parla Manzoni (ciò non toglie che una panoramica ascendente lungo una cascata possa rappresentare l'idea del suicidio).
Vermiglio è una storia sul fluire del tempo, e sui drammi e dolori che vi si incistano, come ferite destinate forse a cicatrizzarsi e forse no. Come (e anche più che) in Maternal, Delpero coglie in modo potente la densità dei gesti, degli sguardi, delle parole espresse – in una parola, l’immediatezza assoluta delle cose.


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