mercoledì 30 gennaio 2019

Da Maria regina di Scozia a La favorita

Josie Rourke, Yorgos Lanthimos


Il caso ha voluto che uscissero contemporaneamente due sontuosi film in costume su regine inglesi e su una guerra fra due donne: Maria regina di Scozia di Josie Rourke e La favorita di Yorgos Lanthimos. Nel primo, si battono Elisabetta I e Maria Stuarda (Margot Robbie e Saoirse Ronan); nel secondo due Ladies, Sarah Churchill duchessa di Marlborough e Abigail Masham (Rachel Weisz e Emma Stone), combattono per il favore della regina Anna (Olivia Colman). Ma c'è un altro fattore comune sul quale fondare una comparazione che altrimenti sarebbe oziosa, ed è quello espresso da Yorgos Lanthimos in un'intervista: “Ho introdotto elementi che potessero continuamente contraddire il fatto che fosse un'opera storica” (questo peraltro nei film “storici” si è sempre dato: ma non come progetto).

Il brutto Maria regina di Scozia – che crede di rendere il passato solo perché i personaggi dicono “aye” invece di “yes”, e che non ha la minima idea della prossemica della regalità (Elisabetta che bacia la mano di Leicester in pubblico!) attua questa disinvoltura storica mettendo in scena un attore nero doverosamente abbigliato da gentiluomo elisabettiano nel ruolo di Melville, l'ambasciatore di Elisabetta in Scozia; Davide Rizzio è visibilmente sudamericano; vediamo anche un nero, con l'aria di chi fa finta di niente, marciare fra le guardie del corpo di Maria Stuarda. Non è soltanto la mania americana della correttezza politica spinta fino a costo di rendere improbabile la messa in scena. Josie Rourke è una regista di teatro, e il film tende verso un'impostazione irrealistica, o se si preferisce astratta, di tipo teatrale. Basta notare che, mentre per Elisabetta il tempo passa, Maria rimane sempre giovane e uguale fino alla sua decapitazione (nella realtà storica, quando il boia sollevò la testa troncata, la parrucca cadde rivelando il viso di una donna invecchiata con corti capelli grigi).
E' un difetto tutto ciò? Per nulla; a patto che si mantenga la coerenza. Se irrealismo dev'essere, deve applicarsi a tutta l'opera, stile Romeo + Juliet. Invece Maria regina di Scozia cerca un po' ingenuamente di incrociare questi tocchi irreali alla volontà di riagganciarsi alla lussuosa mise en scène dei film storici, per esempio nei costumi (esagerando però l'aspetto selvaggio dei gentiluomini scozzesi come il conte di Moray: basta guardare i suoi ritratti); e l'effetto è di renderlo contraddittorio.
Tuttavia non è per questo che il film fa rimpiangere non solo il follemente romantico Maria di Scozia di John Ford del 1936 (Katharine Hepburn contro Florence Eldridge) ma anche il vivace Maria Stuarda, regina di Scozia di Charles Jarrott del 1971 (Vanessa Redgrave contro Glenda Jackson). Il fatto è che la tragedia storica, come quella letteraria, impone una responsabilità artistica. Se l'autore, di fronte ad essa, ne abbandona i tratti possenti e tragici per ridurla a un piccolo dramma personale, si assume una grossa responsabilità sul piano estetico. Nel presente film, non solo perdiamo l'amour fou di Maria Stuarda – una donna grande anche nella sua passione – per Bothwell, un amore che arriva fino al delitto (non per dire che Darnley non meritasse di saltare in aria, e questo è un fatto); molto peggio, perdiamo una lotta di potere e di sublime ipocrisia reciproca fra queste due grandi regnanti, in cambio di... che cosa? Di un interminabile litigio fra due donne maltrattate e/o manovrate dagli uomini, donne che altrimenti avrebbero dovuto volersi bene, in salsa femminista. “Come sono crudeli gli uomini”, dice tristemente Elisabetta in una scena – lei, una che gli uomini se li mangiava a colazione. La mediocrità sospirosa e didattica del loro rapporto quale lo vediamo qui si avvicina pericolosamente a una telenovela risciacquata nelle acque del politically correct. Basato su un ossessivo montaggio parallelo fra le due regine, e molto confidente nella bellezza dei paesaggi scozzesi, Maria regina di Scozia sostituisce la forza espressiva di cui manca (se non in rare scene) con la pomposità della fotografia e del montaggio.

Senza sorpresa, La favorita di Lanthimos è di levatura assai maggiore. Quell'atteggiamento disinvolto nei confronti della ricostruzione storica è assai più articolate e sfumato (in questo il film può ricordare il notevole Marie Antoinette di Sofia Coppola). Così Lanthimos cala la sua tendenza all'astrazione fantastica e metaforica nella concretezza del passato; e introduce nel suo nichilismo una particolare ironia descrivendo il suo gioco perverso.
Questo non significa che nel film sia assente la dimensione del grottesco. Ma i dettagli grotteschi (dal ciccione nudo con la parrucca bersagliato di arance al bordello dove finisce Lady Sarah dopo essere stata trascinata dal cavallo imbizzarrito) rientrano perfettamente nel quadro storico generale; ed esplodono nel particolare straziante dei conigli che la regina alleva come “figli” sostitutivi dei suoi diciassette figli perduti.
Un eccellente uso delle ombre, dell'illuminazione espressiva, delle fonti di luce naturali, fa pensare a Kubrick, naturalmente (del resto, Kubrick è un caposaldo del cinema di Lanthimos) – ma a un Kubrick impazzito. Molte inquadrature usano un grandangolo esagerato, quasi un fisheye – in un passaggio, anche nel movimento di macchina – che crea uno spazio-tempo irreale, deforme e inquietante.
A differenza di Josie Rourke, Lanthimos ha una percezione autentica del potere e delle sue battaglie; non solo nella rievocazione storico-politica ma nella vita quotidiana: penso alle bellissime scene in cui Sarah e Abigail si esercitano a sparare. Alla visione, vien subito da pensare che il bel dialogo vivace (la sceneggiatura è di Deborah Davis e Tony McNamara) sembra ispirato a Congreve, Wycherley e tutto il teatro della Restaurazione. Ma un'ulteriore riflessione fa ipotizzare che questo riferimento non sia limitato al solo gioco linguistico. L'elegante pessimismo e immoralismo delle commedie della Restaurazione informa di sé tutto lo svolgimento. Questa gara di cattiveria, magnifico gioco di potere e di astuzia fra le due dame sulla pelle della debole regina, diventa un gioco raffinato e, osiamo dirlo, assai divertente, cui si assiste come a una sfida sportiva (del resto, il film presenta anche una scena d'amore come un incontro di rugby). Lo sguardo freddo di Lanthimos sulle emozioni umane trova così una base forte su cui articolarsi senza bisogno di invenzioni metafisiche.
L'arma principale delle due Ladies nella loro lotta (senza escludere la calunnia, l'avvelenamento e il ricatto) è il sesso omosessuale. Il film mette al suo centro la guerra lesbica per influenzare la regina (con la quale il rapporto omosessuale è storicamente non provato, ma in effetti sospettato). Se per Abigail il rapporto con la regina è il mezzo per un'ascesa sociale che coincide anche con la propria sopravvivenza, per Lady Marlborough, moglie del più grande generale inglese, è qualcosa di più: è un'arma nella lotta politica per sostenere le politiche del partito Whig di Lord Godolphin e del marito contro il partito Tory di Robert Harley – che nel film appare particolarmente vampiresco e crudele col suo viso imbellettato. La regina, con la sua malattia, la sua nevrosi che arriva fino a tendenza suicide, il suo senso di inferiorità, è la posta di una guerra che unifica la lotta sociale e la lotta politica, con il suo prolungamento bellico nella guerra con la Francia.
Sono tre ritratti di donna mai gratuiti o retorici, o peggio didattici, concretizzati in tre stupefacenti interpretazioni continuamente mutevoli fra spietatezza e vulnerabilità. Tre ritratti partecipi e sfaccettati, in cui la regina Anna è il lato più doloroso e perdente. Alla fine del film, in una audace tripla sovrimpressione, i conigli della regina invadono sempre più lo schermo fino a cancellare i volti umani, fino a diventare l'unica cosa distinguibile, come una materializzazione di disperazione e dolore.

domenica 27 gennaio 2019

Winston vs Churchill



Non è per nulla che rispunta Shakespeare nel Winston vs Churchill magnificamente interpretato da Giuseppe Battiston al Palamostre di Udine per Teatro Contatto (tratto da Churchill, il vizio della democrazia di Carlo Gabardini), per la regia di Paolo Rota. Anche se non fosse citato, basterebbe il testo a richiamarlo: incentrato com'è sulla shakespeariana contraddizione irriducibile fra i grandi uomini e i piccoli (cui dà voce con bravura Maria Roveran nel ruolo dell'infermiera). Val la pena di ricordare che Battiston è stato nel 2013 un memorabile Macbeth.
Ecco Churchill alla fine della sua vita: fisicamente fragile ma più che mai imponente (il modo in cui si staglia davanti al pubblico nella sua vestaglia rossa!); ora acido della petulanza sarcastica dei vecchi, ora gigantesco e solenne; Churchill che nasconde i sigari, proibiti dal medico, nel bastone cavo come Charles Laughton in Testimone d'accusa e che litiga con l'infermiera, prima su piccolezze, poi mostrandoci in modo accecante il fossato che esiste fra la vita quotidiana e la Storia; che si confronta col suo passato fra orgoglio, dolore e rabbia. Ora cresce a una grandezza fisica monumentale, nel rievocare i suoi grandi momenti, quando come Atlante sorresse sulle spalle la nostra civiltà (e sì, risentiamo anche il discorso delle “lacrime e sangue”), ma anche nel rispolverare fieramente le sue battutacce feroci – anche queste autentiche (“E' vero, io sono ubriaco. E tu sei brutta. Ma domattina io sarò sobrio”). Ora si ingobbisce e piange sotto l'attacco dei propri demoni, nel ricordare i disastrosi fallimenti, come Gallipoli nella prima guerra mondiale, e le tragedie familiari come il suicidio di una figlia.
Un uomo soverchiante cui può dare corpo solo un attore soverchiante, un Orson Welles – o un Giuseppe Battiston (che peraltro ha interpretato proprio Welles in un monologo teatrale di qualche anno fa). In un'interpretazione potentissima, che dà la sintesi profonda di un carattere con una ricchezza travolgente di sfumature e variazioni, con un'articolazione perfetta di corpo e di voce, Battiston s'impadronisce del pubblico e lo conquista in modo violento; prende in mano un testo non sempre risolutivo e lo trasforma in carne e sangue. In una parola, diventa Churchill; e a spettacolo finito, quando si presenta al proscenio per raccogliere gli applausi del pubblico, abbiamo l'impressione che sia ancora Winston Churchill che abbiamo davanti.