sabato 29 gennaio 2022

Monaco - Sull'orlo della guerra

Christian Schwochow

E' ancora nei cinema una gustosissima avventura, The King's Man – Le origini, sullo sfondo di una ricostruzione storica della Prima Guerra Mondiale totalmente folle: Rasputin che combatte come un Bruce Lee russo, Mata Hari che seduce e ricatta il presidente Wilson! Eppure tout se tient: questa stravaganza funziona, grazie all'abilità della realizzazione. Pure il thriller d'epoca Monaco – Sull'orlo della guerra (dal romanzo di Robert Harris), su Netflix, porta la fantasia sul terreno della storia, benché molto meno. Durante la famosa Conferenza di Monaco del 1938, in cui Chamberlain si fece abbindolare da Hitler in nome dell'appeasement, un diplomatico tedesco deluso dal nazismo contatta un vecchio amico inglese dei tempi di Oxford per consegnargli un documento che ha rubato, dal quale risultano chiare le vere intenzioni di Hitler. Deve farlo arrivare a Chamberlain affinché l'Inghilterra non firmi il Patto.
Idea suggestiva, ma ben poco funziona. Vengono attivati tutti i luoghi comuni dello spionaggio cinematografico; la messa in scena, con la città di Monaco pullulante di nazisti, è costosa ed efficace; ma una buona dose d'ingenuità narrativa la mette in crisi. Questi cospiratori sarebbero finiti nelle grinfie della Gestapo in dieci minuti. Soprattutto, c'è all'inizio una parte sentimentale (il matrimonio in crisi dell'inglese) ficcata nel film col calzascarpe, e talmente sciocca – questa moglie inglese del 1938 sembra la classica moglie rompiscatole americana dei film tv del 1990 – da indisporre lo spettatore. Il vero pilastro del film è Jeremy Irons con un'interpretazione davvero eccellente di Chamberlain (del cui comportamento si tenta un'avventurosa rivalutazione positiva, facendo un po' a pugni con la logica). Sarebbe stato splendido vederla in un film migliore.

(Messaggero Veneto)

venerdì 28 gennaio 2022

Un eroe

Asghar Farhadi

Kafka in Iran? Non proprio, è un film molto concreto; ma certo è di quelle che popolarmente chiamiamo “kafkiane” l'avventura di Rahim nel film di Asghar Farhadi Un eroe. Il protagonista è in prigione per un debito coll'ex suocero, che ha il dente avvelenato verso di lui. La sua fidanzata (però il loro impegno non è ancora stato ufficializzato) ha trovato per strada una borsa smarrita con dentro 17 monete d'oro; durante un breve permesso dell'uomo, i due cercano di venderle, per pagare in parte il debito e far uscire Rahim di prigione, ma poi rinunciano – peraltro l'onestà non è il primo motivo a emergere – e mettono un annuncio per restituirle. Si fa viva in lacrime, presso la sorella di Rahim, la donna che le ha perse; aveva tenuto segreti questi suoi risparmi al marito e al fratello, che li avrebbero dilapidati. La storia della restituzione si viene a sapere e Rahim diventa un eroe sui media – con grande entusiasmo dei dirigenti della prigione.
Sembra un colpo di fortuna – ma su quella maledizione di Dio che sono i social cominciano a girare delle voci (pompate inizialmente dall'ex suocero) che sia tutta una truffa, architettata da Rahim e magari anche dai dirigenti della prigione (per distogliere l'attenzione dal suicidio di un detenuto).
Fatto sta che Rahim nelle sue dichiarazioni pubbliche ha innocentemente alterato la verità, dicendo di aver trovato lui la borsa, per lasciare fuori dalla faccenda la fidanzata. Così si ritrova nella stessa situazione da sabbie mobili dei noir e delle commedie: una piccola bugia costringe a dirne sempre più grosse e così via, “a valanga”. In generale noi spettatori del film ci troviamo in una situazione privilegiata, con uno sguardo al di sopra dei personaggi; vediamo la separazione tra le parole dei protagonisti e ciò che conosciamo. E contemporaneamente, mentre crediamo di vedere tutto, ci è precluso quello che è dentro i cuori.
Il guaio peggiore è che la donna beneficiata, che potrebbe testimoniare, è introvabile. Ah, ma poi: era davvero quella giusta? Qui la nostra situazione di privilegio spettatoriale cessa, e non ne sappiamo più dei protagonisti. Nell'episodio della restituzione della borsa la donna è molto commovente, certo; retrospettivamente pensiamo che se stava recitando è un'ottima attrice. Ma un momento: stiamo vedendo un film: è un'ottima attrice. A quale livello, dentro o fuori del plot, si situa la sua recitazione? Questo esempio ci dice come il film di Farhadi sia complesso sotto la sua semplicità: una partita a a scacchi narrativa dove ogni mossa spiazza rispetto alla precedente.
All'ombra di un regime chiuso, Un eroe è un film senza personaggi cattivi (semmai, mediocri burocrati) – ivi compreso l'ex suocero, che ha tutte le ragioni di lamentarsi per la dote della figlia andata in fumo. Un eroe – potremmo dire – traduce in lingua persiana la famosa frase de La regola del gioco di Jean Renoir: “Il tragico della vita è che ciascuno ha le sue ragioni”.

sabato 8 gennaio 2022

Illusioni perdute

Xavier Giannoli

Bellissima versione del capolavoro di Balzac con un cast di eccellenti attori francesi, Illusioni perdute di Xavier Giannoli è una storia di ascesa e caduta nella Francia della Restaurazione. Ad Angoulême, Lucien Chardon (Benjamin Voisin) – che senza diritto legale si fa chiamare de Rubempré, il cognome nobiliare della madre – è un giovane promettente poeta di provincia dedito al culto della bellezza, che gira nei campi a scrivere portandosi dietro una sedia come un Keats di complemento. E' il protetto, e presto l'amante, della malmaritata baronessa Louise de Bargeton (Cécile de France), un po' più esperta ma non meno romantica di lui: “Beauty Forever”, recita il grande nastro appeso al suo ricevimento – cui subito il montaggio accosta in opposizione il viso volgare dell'invitato che mangia.
Dopo una scenata del barone, i due partono per Parigi, viaggiando insieme a rischio di provocare uno scandalo. Però: “Stavano davvero andando nella stessa direzione?”, riflette la voce narrante su un campo lunghissimo della carrozza in viaggio – e il montaggio risponde con un ominoso stacco ai piedi di Lucien che scende su un'asse stesa sul fango della rue parigina. Ben presto la differenza di classe aggravata dalla goffaggine di Lucien, che si rende ridicolo nella prima apparizione all'Opéra, fa sì che i due amanti si debbano separare.
Giannoli, anche co-sceneggiatore con Jacques Fieschi, riscrive con abilità il testo balzacchiano, fondando il racconto su una magistrale gestione delle sfumature e delle minuzie del gesto, e bellissimi accostamenti per contrasto nel montaggio di Cyril Nakache. L'inchiostro, nero e come vischioso, è la materia principale del film, che segue il provinciale respinto dalla nobiltà nella sua trasformazione in astro della stampa liberale parigina, e presenta un quadro impressionante per la sua corrispondenza fra ieri e oggi. Anche se non ci sono ancora i social, l'attualità è sconvolgente: è la nascita della comunicazione di massa, il mondo della pubblicità imperante, delle fake news e delle opinioni in vendita. “Cavaliere senza paura e senza principi, nel nome della malafede, dei pettegolezzi e degli annunci pubblicitari io vi battezzo giornalista”, intona il direttore di Lucien versandogli champagne sul capo. Nella sua sceneggiatura Giannoli non ha dovuto sovrimporre la propria visione critica di duecento anni dopo al testo di Balzac, non ha dovuto neppure scavarvi per tirar fuori l'implicito: c'è già tutto in Balzac, frutto di una capacità analitica geniale.
Il denaro era la nuova aristocrazia”. La voce narrante accompagna tutta la storia, tra Balzac, echi di Oscar Wilde e persino di Baudelaire; molto bella la sovrapposizione tra voce narrante e rappresentazione narrativa nel racconto del fiasco di Coralie (Salomé Dewaels), l'attrice amata da Lucien – che ha qualcosa di fatale. All'ombra della ricchezza borghese, la Parigi del nuovo giornalismo è una festa mobile isterica con hashish nelle pipe. Il film offre una pagina deliziosa nell'illustrazione “teorica” dei canards (papere, ma sta per fake news) trasformata in realtà visuale con vere papere che passeggiano nella redazione del giornale – dove una scimmia sceglie a caso i libri da recensire (“Stendhal o Chateubriand?”). E' un mercato delle idee dove l'elogio o la stroncatura dipendono dal compenso; le polemiche sono fatte per pubblicizzare colui che attaccano; e l'editore analfabeta Doriat (Gérard Depardieu) vende allo stesso modo libri e frutta (“L'ananas ci salverà dalle poesie”). Nella potente descrizione di questo mondo spiccano i visi opposti di Lousteau (Vincent Lacoste) e Nathan (Xavier Dolan). Sul fondo, in secondo piano, corre diversa ma parallela la storia di Louise de Bargeton, che è anch'essa una storia di illusioni perdute.
Su una lettera menzognera alla sorella in cui Lucien dice che il giornalismo non lo distrarrà dalla sua poesia, il montaggio ironizza con l'inquadratura delle prostitute seminude al balcone. In questo mondo è facile perdere l'innocenza; e Lucien ci si tuffa con autentico fervore. Pensiamo alla scena delle sue risate durante una vera e propria lezione sull'arte della stroncatura in malafede: Lucien ha quella gagliofferia ingenua ch'è propria degli innocenti quando decidono di involgarirsi, e li noti perché eccedono sempre nel farlo.
Non c'è da stupirsi che i debiti e i maneggi di Lucien – il quale, nel tentativo di farsi riconoscere il cognome della madre, passa agli infidi monarchici e si ritrova contro i liberali – conducano alla rovina lui e Coralie.
Merita segnalare nello splendido film di Giannoli, così articolato, così intelligentemente pensato, una doppia mise en abyme: prima ironica, quando Doriat durante un litigio ipotizza il romanzo “L'orfano di Angoulême”, poi una rivelazione quando vediamo Lucien come protagonista del romanzo che l'amico-nemico Nathan scrive su di lui dopo la sua caduta, ed è la storia che abbiamo visto. Col che, val la pena di aggiungere, Giannoli e Fieschi risolvono elegantemente la questione del finale del romanzo in Balzac, dov'è tutta proiettata verso un altro romanzo: Lucien intende uccidersi e ne viene distolto da Vautrin, per incontrare alfine il suo destino in Splendori e miserie delle cortigiane.

domenica 2 gennaio 2022

West Side Story

Steven Spielberg

Un amore star-crossed fra i rampolli di famiglie nemiche: lo ha cantato Shakespeare e di lì viene, tra le innumerevoli versioni di Romeo e Giulietta, West Side Story. Ora Steven Spielberg ci dà il remake del musical di Robert Wise e Jerome Robbins del 1961, a sua volta tratto dallo show di Robbins a Broadway su testo di Arthur Laurents con musiche di Leonard Bernstein e canzoni di Stephen Soundheim.
Nella storia dell'amore contrastato (simboleggiato dalla grata che divide gli amanti, superata solo per un attimo, nell'equivalente del West Side della scena del balcone) fra il polacco Tony e la portoricana Maria, all'interno della rivalità fra i bianchi Jets e i latinos Sharks, Spielberg incrocia in modo ammirevole fedeltà all'originale e intervento personale. Se al realismo urbano Wise e Robbins incrociavano abilmente un riferimento al palcoscenico, Spielberg vi mescola un riferimento metacinematografico, a partire dal modo di ripresa dei numeri di balletto. Vedi per esempio la scena in cui Tony canta Maria in un largo spiazzo e i riflettori che si accendono richiamano il set. Oppure, poco prima, le classici luci spielberghiane sparate contro la macchina da presa che attraversano la catasta di panche nella sequenza del ballo in palestra. Com'è noto, Rita Moreno (la Anita del film precedente) qui compare nel ruolo di Valentina, la vedova di Doc, a segnare un omaggio alla continuità ma altresì una differenza, incarnando un'ipotesi di incontro fra le due etnie che sembra appartenere al passato (qui canta lei una canzone di Tony e Maria nel film precedente).
Il West Side Story di Spielberg è un film (ancora) più politico del suo antecedente di sessant'anni fa – e più pessimista. E' istruttivo comparare l'apertura dei due film. In Wise e Robbins, una ripresa dall'elicottero mostra la New York orgogliosa degli incroci di autostrade, anche se poi la macchina da presa scende nella zona povera a mostrare l'altra faccia del sogno americano. In Spielberg la macchina da presa apre su un paesaggio di macerie, con le enormi palle di ferro dei demolitori. Il quartiere è in via di demolizione per la gentrification che avanza, onde c'è una particolare drammaticità nell'assunto: Jets e Sharks si battono per il dominio su una specie di Ground Zero.
Oppure guardiamo la famosa canzone America. Nel vecchio film è un classico contrasto fra uomini e donne, dove all'ottimismo “pro” delle donne si oppone (con un controcanto assai spiritoso) l'ironia “anti” dei maschi; e diverte anche perché mantiene una sorta di legittimità nel rappresentare i due modi unilaterali di guardare alla situazione. Nel film di Spielberg – dove non a caso vediamo sullo sfondo una manifestazione di portoricani contro gli sfratti – il contrasto rimane ma quella delle donne appare piuttosto un'illusione autoironica (e infatti poco prima del finale Anita, in un momento un po' retorico ma efficace, lo rinnegherà gridando “Yo no soy americana, yo soy puertorriqueña”). Nota peraltro che proprio per questo Spielberg mette in scena America in termini di balletto festoso in strada assolutamente da musical classico: un geniale rovesciamento che lo sposta su un piano spettacolare cinematografico di pura fantasia.
Similmente il “funerale” che chiude entrambi i film, quando i Jets e gli Sharks si uniscono nel sollevare il corpo morto di Tony, contiene in Wise e Robbins l'accenno a una possibile ricomposizione; il superamento dell'odio nel dolore è la nota prevalente. In Spielberg il solenne movimento in dolly finale che lo segue ha qualcosa di amaro e definitivo: non il seme di una rinascita ma solo il cordoglio; e la nota prevalente è la disperazione. 
 

 

sabato 1 gennaio 2022

Don't Look Up

Adam McKay

Arriva la cometa, e non è quella di Natale. Gli astronomi Jennifer Lawrence e Leonardo DiCaprio scoprono una nuova cometa che punta dritta sulla Terra; l'impatto causerebbe l'estinzione dell'umanità. La Presidente degli USA (Meryl Streep), una politicante incompetente, dapprima sottovaluta il problema; quando lo capisce, ci si mette di mezzo il mondo degli affari. I social fanno del loro peggio e il Paese si divide tra chi si preoccupa e chi nega l'evidenza scientifica (ricorda qualcosa?)
Don't Look Up di Adam McKay è una satira sulla stupidità del mondo contemporaneo, America in primis, senz'altro divertente, con una parata di grandi star. Tuttavia l'impressione è che annacqui una bellissima idea con uno svolgimento non all'altezza delle sue possibilità. Il modello definitivo per questo tipo di “satira da fine del mondo” è Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick col suo mix di commedia esilarante, satira abrasiva e tensione; qui, mentre l'elemento commedia va a intermittenza, la satira è giustamente grottesca ma non così graffiante. Non per nulla il migliore in campo è Mark Rylance che offre l'interpretazione più rifinita, come genio affarista autistico uscito da Silicon Valley (una presa per i fondelli di Elon Musk).
L'idea geniale alla Jonathan Swift per cui si formano due partiti, quello dei “guardatori in su” e quello dei “non guardatori in su” (in inglese è meno complicato) avrebbe dovuto costituire un intero capitolo del film, per la sua rilevanza satirica. Del resto, di qui viene il titolo. Invece Don't Look Up lo usa brevemente, quasi una pennellata di “colore locale”. Ciò è nelle caratteristiche di questo film, che si dilunga dove potrebbe stringere e stringe dove potrebbe dilungarsi. Comunque (senza spoiler) la parte conclusiva, più decisa, è assai buona.

(Messaggero Veneto)