giovedì 21 aprile 2022

Apollo 10 e mezzo

Richard Linklater

Richard Linklater, lo sappiamo bene, è il regista che ha avuto l’animo di realizzare Boyhood fra il 2002 e il 2013, girando un segmento alla volta, per seguire la storia dei personaggi (e i volti degli attori) man mano che crescono. O che con Tutti vogliono qualcosa!! ha recuperato tutto un filone del cinema giovanilistico americano per darci ancora un bellissimo ritratto del mondo del college. Linklater è un cineasta del tempo: del passato, della memoria, e quindi del senso agrodolce della nostalgia. I suoi film hanno una capacità evocativa quasi ipnotica (e una consapevolezza critica) che poche opere simili posseggono – forse solo il seminale American Graffiti di George Lucas, o, su piani diversi, l’opera di Woody Allen (pensiamo a Radio Days) e quella di Paul Thomas Anderson.
Non film dal vero ma animazione in rotoscope (quel procedimento in cui il disegno viene ricalcato sul girato dal vivo), il bellissimo Apollo 10 e mezzo (su Netflix) è l’incantevole rievocazione di un’adolescenza a Houston, vicino alla sede della NASA, alla fine degli anni ‘60: “il posto migliore per essere un ragazzino”. Era l’epoca dello sbarco sulla Luna; il titolo originale è Apollo 10½: A Space Age Childhood. E’ l’elegia di una fanciullezza sognante, nel racconto della voce narrante di Stan adulto (è quella di Jack Black, con le sue inflessioni alla Orson Welles). La scuola, il tempo libero, la famiglia, le sorelle e i fratelli, gli amici; il padre impiegato alla NASA con inspiegati momenti di avarizia; i nonni che ricordano la grande depressione; il cibo, e i pranzi per la scuola per tutta la settimana preparati la domenica; i numeri di Playboy nascosti e la sorella (mai fu identificata) che ha fatto la spia. E il cinema! Vediamo rifatti in rotoscope brani di Tutti insieme appassionatamente e di 2001 – Odissea nello spazio, dell’anticipatorio Destination Moon (Uomini sulla Luna, sceneggiato da Heinlein) e di It! – nonché di trasmissioni tv, da Dark Shadows a tutta una serie di titoli che ci fanno sobbalzare perché ancora oggi stanno alla base della nostra nostalgia (e lo stesso vale per la musica). Un’autobiografia americana – e questo potrebbe essere il titolo di tutta l’opera di Linklater.
Il posto migliore per essere un ragazzino”! Era il momento magico dell’ottimismo kennediano e post-kennediano di un decennio indimenticabile. Vero che “il futuro era spesso terrificante”, con le previsioni di un'umanità sommersa dalla spazzatura, o la guerra fredda con le immagini dei russi in marcia sulla Piazza Rossa; ma dall’altro lato l’inevitabile ottimismo infantile e umano vedeva soprattutto dei “domani che cantano”. Erano i tempi di un’irripetibile coincidenza tra i sogni fra i sogni della fantascienza (cupole per abitare sulla Luna, viaggi su Marte) e la realtà (apparentemente) sfavillante di un Paese in trasformazione – dove quelli che oggi ci appaiono i non luoghi di Baudrillard assumevano agli occhi di un ragazzino un aspetto di scintillante modernità. C’erano anche il Vietnam e le manifestazioni di protesta – ma nell’atmosfera placida della prima giovinezza di Stan erano qualcosa che si vedeva in tv. Era l’epoca in cui si poteva vedere ancora il futuro come una moderna autostrada – oggi lo vediamo piuttosto come una marcia nella giungla.
E’ incredibile renderci conto, guardando questa “macchina del tempo” di film, di come il tempo sia passato, al di là del conteggio degli anni. Non può non salire alla memoria la frase di Talleyrand citata da Bertolucci: “Chi non ha vissuto gli anni prima della rivoluzione non può capire che cosa sia la dolcezza del vivere” (non c’è stata di mezzo una rivoluzione, ma il suo equivalente: una drammatica crisi e trasformazione culturale). Basta pensare al pericolo assunto come una realtà della vita. “Sembra che siamo tutti sopravvissuti all’infanzia”, dice la voce narrante nel film. Perché un aspetto che il film rende assai bene è quella specie di incoscienza che un tempo apparteneva alla vita quotidiana dei ragazzini, e che oggi ci sembra assurda (niente a che vedere con le tetre pulsioni suicide dei giovani d’oggi, pompate dai social). In questo senso la psicologia infantile descritta nel film è una propaggine di quella dimensione libera e avventurosa dell’infanzia che ha il suo manifesto in un testo centrale della cultura americana, Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain.
In Linklater c’è sempre la concezione del tempo che fugge – e qui è il tempo della preadolescenza, che ha la prerogativa di essere volatile e fuggevole ma di non rendersene conto. Come sull’isola di Peter Pan, i bambini e i ragazzini preadolescenti credono che il loro stato sia eterno – eppure oscuramente intuiscono che così non è. Tanto più questo è toccante in quanto ci arriva attraverso il filtro degli anni, nella voce narrante di Stan. C’è una bellissima frase verso la conclusione del film, quando Stan si addormenta in auto e il padre lo solleva per portarlo a casa: “Quella fu l'ultima fase dell'infanzia in cui sperimentai quel particolare benessere che è addormentarsi in macchina – potevi scivolare nel sonno sapendo che sarebbe andato tutto bene, e ti saresti risvegliato il mattino dopo nel tuo letto”.
Apollo 10 e mezzo è un triplice viaggio. E’ un viaggio nel ricordo. E’ il viaggio per eccellenza dell’era moderna: quello sulla Luna degli astronauti dell’Apollo 11. Ed è il viaggio nella fantasia (ma raccontato dalla voce narrante come realtà) del ragazzino Stan, che camminò sulla Luna quattro giorni prima degli astronauti dell’Apollo 11. Infatti – apprendiamo – alla NASA avevano costruito un modulo lunare delle dimensioni sbagliate, troppo piccolo, e così in gran segreto scelsero e addestrarono Stan per una missione di cui nessuno doveva sapere, né ha saputo, mai nulla. Non abbiamo tutti noi, da bambini, sognato di essere un piccolo eroe che compie l’opera degli adulti nonostante la sua piccolezza di statura? Così in Apollo 10 e mezzo si fondono il viaggio nel tempo attraverso la memoria e contemporaneamente un viaggio nella fantasia, che modella il ricordo (a questo allude una frase della madre di Stan che sentiamo sull’immagine del bambino addormentato). Del resto, parlandoci in apertura, Stan ci dice già all'inizio di essere un affabulatore, vale a dire, chiarisce, un bugiardo matricolato. E allora il film, e in particolare la sua parte finale, incrocia le immagini della missione dell’Apollo 11 e quelle della missione di Stan che l’aveva preceduta, in un affascinante rispecchiamento visuale.

sabato 9 aprile 2022

Lunana - Il villaggio alla fine del mondo

Pawo Choyning Dorji

Non recitare mai con cani e bambini, ti rubano la scena”. Questa massima semiseria degli attori hollywoodiani probabilmente nel Bhutan suona “Non recitare mai con yak e bambini”, ma non è meno vera. E infatti i bambini rubano la scena nel semplice e piacevole Lunana – Il villaggio alla fine del mondo, un raro film che ci arriva dal Bhutan; e c’è anche lo yak, tant’è vero che il titolo internazionale è A Yak in the Classroom (“Uno yak nell’aula”). Lo sceneggiatore e regista esordiente, Pawo Choyning Dorji, è stato assistente alla regia e anche produttore del famoso lama e regista bhutanese Khyentse Norbu (La coppa, Viaggiatori e maghi, Hema Hema).
Volar via nel vento della globalizzazione o seguire i valori tradizionali? Il protagonista Ugyen (l’insegnante meno motivato di tutto il Bhutan, lo rimprovera una dirigente) non avrebbe problemi a rispondere, finché vive in città: e infatti progetta di andare a fare il cantante in Australia. Ma viene trasferito a fare il maestro in un villaggio gelido e povero di 56 abitanti a 4800 metri di quota, Lunana (che esiste veramente, e gli abitanti compaiono nel film); qui, in un posto dove il gabinetto è fuori dalle case e non si usa la carta igienica, e dove il fuoco si accende con lo sterco secco di yak, la sua visione delle cose cambia. Compie anche il gesto deamicisiano di usare la carta delle finestre (sono troppo poveri per il vetro!) perché i bambini possano esercitarsi a scrivere. E quando se ne va, promette di tornare.
Favorito da una bella fotografia (non soltanto di spettacolari panorami), però con un montaggio un po’ scolastico, Lunana è un film molto umano, che arriva a commuovere. C’è una realtà sincera in questi visi di semplici contadini (e c’è una sorpresa legata al concetto di reincarnazione). Anche se il film non ha intenti documentaristici, veniamo introdotti alle credenze locali e a una vera e propria cultura che gira intorno allo yak; non senza un’attenzione alla musica tradizionale (“Il virtuoso yak Ladhar” è il titolo della canzone che la bella Saldon insegna a Ugyen).
Shangri-La nel Bhutan? Invero, nonostante l’impegno edificante il film non trascura fenomeni come l’ubriachezza. Anche se non vediamo furti, aggressioni, rotture di famiglie, il contesto non le rende impossibili come accadrebbe in un film zuccheroso. Naturalmente i bambini, bellissimi, portano un tocco particolare
di tenerezza, e difficilmente dimenticheremo la tostissima capoclasse Pem Zam. Che, vediamo nei titoli di coda, si chiama proprio Pem Zam – e questo interpretare se stessa è un esempio di quell’autenticità più o meno neorealista che è il dono del film.

sabato 2 aprile 2022

CODA - I segni del cuore

Sian Heder

Adesso immaginiamo che gli accademici di Stoccolma impazziscano e diano il Premio Nobel per la letteratura a Umberto Tozzi. Smetteremmo, a causa di questa evidente sproporzione, di canticchiare Gloria? Certamente no; anzi, diventerebbe ancora più famosa; eppure sul web Tozzi verrebbe fatto a pezzi più del giusto. Succede sempre a chi viene beneficiato sopra i suoi meriti. 
Questo per dire che CODA – I segni del cuore, che ha assurdamente vinto l’Oscar per il miglior film in nome di quella peculiare stupidità americana che è il “politicamente corretto”, non è un film brutto in assoluto: è semplicemente modesto, quasi un tv movie. Remake del francese La famiglia Belier, questa co-produzione franco-americana è un piccolo film che fonde nel racconto una serie di linee narrative tradizionali: lo sforzo per il successo nel canto, con tutto il discorso sulla morale dell'impegno, direttamente derivati da Saranno famosi; il film di rapporti familiari, con l’adolescente che vuol cercare la propria strada; la storia d’amore alla high school, non senza l’inevitabile accenno al bullismo (è la parte più banale, ma fortunatamente assai ridotta); il liberalismo americano, per cui i pescatori del film si ribellano ai grossisti e cominciano a vendere, con successo, il pescato da soli; e in primo luogo ecco il solo tratto di originalità di CODA – il discorso sui non udenti. La protagonista Ruby (la brava Emilia Jones) è figlia di non udenti (questo significa l’acronimo CODA) ed è unica della famiglia a non esserlo. La sua vita coi genitori e il fratello, esprimendosi nella lingua dei segni, è il motivo di reale interesse del film, che qui trova i suoi momenti di autenticità (gli interpreti, salvo Emilia Jones, sono veramente sordi, a differenza che nel film francese) e la sua giustificazione.
La scelta di non tradurre in didascalia le cose che si dicono in tale linguaggio può avere un senso (sebbene, ammettiamolo, sia fatta in realtà perché il pubblico medio non ama le didascalie), in quanto isola il loro mondo di sordi e focalizza ancora di più la nostra attenzioni su di esso. D’altra parte, è una scelta escludente, che va contro il concetto stesso di linguaggio. Infatti quando Emilia Jones, nel dialogo coi personaggi dei familiari, dice una battuta che la sceneggiatura ritiene necessaria anche per gli spettatori, è costretta a enunciarla anche a voce, e questo un’idea di finto.
In ogni modo, la scena in cui, mentre Ruby canta sul palco con la famiglia in platea, il sonoro svanisce e così anche noi spettatori siamo precipitati nella bolla di silenzio della sordità è di gran lunga la migliore del film. Che poi CODA abbia vinto l’Oscar in un’edizione in cui era in competizione – per esempio – il magnifico Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson,
grida vendetta al cielo e questo nessuno lo negherà.