sabato 28 maggio 2022

Nostalgia

Mario Martone

Quando un film ci presenta una lunga camminata del protagonista – come quella di Pierfrancesco Favino all’inizio del notevole Nostalgia di Mario Martone – ha due possibili scelte: significare il personaggio che si muove nell’ambiente o all'opposto l’ambiente attraverso il movimento del personaggio. Qui è la seconda. Siamo a Napoli. Al Rione Sanità, dove è cresciuto, fa ritorno il protagonista, che ha l’ironico nome di Felice Lasco, dopo esserne stato assente per quarant'anni. Era fuggito quindicenne dopo che, durante un furto in appartamento assieme al suo miglior amico Oreste, quest’ultimo aveva ucciso un uomo.
Felice ha fatto fortuna e si è sposato al Cairo. Il motivo del viaggio è di rivedere la madre (Aurora Quattrocchi), vecchia e sola (la scena in cui lui le fa il bagno è estremamente intensa e pudica). Ma anche dopo la morte di lei Felice vuole restare. Perdersi in quelle strade e in quei vicoli, ritrovare l’atmosfera e la lingua di un tempo; nella bella interpretazione di Favino il suo parlare è marcato da un accento arabo, che via via nel film cede al riemergere di quello napoletano. “Ti ha preso la nostalgia”, gli dice al telefono la moglie egiziana. Il Rione Sanità inghiotte Filippo, ed è allo stesso tempo un labirinto brulicante di vita e una voragine. Dal punto di vista spaziale, è ossessiva nel film la presenza di zone alte viste dal basso (il mega-ponte intitolato a Maddalena Cerasuolo, i piani alti delle case accatastate, i passaggi elevati). E ossessiva è la presenza di occhi che sorvegliano; perché Oreste è diventato ‘O Malommo, capo del clan più violento e pericoloso del Rione, e teme che Felice parli di quell’antico delitto.
Chisto è ‘o paese mio”, prorompe Felice prima in arabo e poi in napoletano. Quel suo abbarbicarsi al Rione Sanità, dove vuole comprare casa e far venire la moglie, si svolge sotto l’ombra di due figure contrapposte, quella coraggiosamente manifesta del prete anticamorra don Luigi (Francesco Di Leva) e quella invisibile del boss (Tommaso Ragno) – una contrapposizione che rappresenta un fronteggiarsi di responsabilità morali: perché Felice non ha mai denunciato quello che ancora considera un fratello (ed ecco la rivelazione di un’antica fotografia di loro ragazzi, conservata nel portafoglio, che appare alla fine del film).
Se la sceneggiatura è a tratti (solo a tratti) un po’ programmatica, a elevare il film è la splendida regia “a sprazzi” di Mario Martone, che inanella in modo liberissimo i momenti narrativi (stupenda l’ellissi che inghiotte la morte della madre). Come ne L’amore molesto Martone tesse un gioco di inversioni e analogie fra il presente e il passato: il ritorno di Felice a Napoli è una ricerca del tempo perduto. Si illude su Oreste che nonostante gli “avvertimenti” cerca di rivedere. Ma il “fratello” non è più un fratello; il loro rancoroso incontro si svolge sotto il segno della sconfitta. “Siamo finiti tutti due in un cul di sacco”, dice Oreste, che vive come un prigioniero nel suo reame clandestino, fa sesso tristemente con le sue prostitute ed esce per le strade in felpa e cappuccio alzato come un barbone. Sempre più il film mentre va avanti incrocia drammaticamente i due uomini, in un montaggio parallelo che nel finale diventa un montaggio alternato, con al centro la morte. 
Felice – che tutti invitano ad andarsene per il suo bene – non è mai riuscito realmente a fuggire: non si fugge da Napoli (la nostalgia), non si fugge da se stessi: Felice non ha mai sepolto quel ragazzo che correva in moto con l’amico fraterno. Ma come ha famosamente scritto Thomas Wolfe, You Can't Go Home AgainNon
puoi tornare a casa”.

martedì 24 maggio 2022

L'angelo dei muri

Lorenzo Bianchini

Un avviso con la massima evidenza possibile: questa recensione è rigorosamente riservata a chi ha visto il film, non essendo possibile parlarne senza spoiler che ne danneggerebbero fortemente la visione. 

Una voce che parla dal muro… Nel malinconico e poetico L’angelo dei muri di Lorenzo Bianchini, Pietro (Pierre Richard) è un vecchio solitario che viene sfrattato dal suo appartamento polveroso, pieno di cose vetuste, in un palazzo fatiscente a Trieste. Non vuole lasciarlo: fabbrica una falsa parete e si costruisce un nascondiglio in fondo a un corridoio, una vera e propria tana, nascosta dietro una piccola grata; e fa dei buchi nel muro per spiare chi invade quello che era il suo territorio. Così diventa uno sguardo e una presenza nascosta – un concetto che sarebbe piaciuto molto a Edogawa Rampo, il padre del moderno fantastico giapponese. E’ evidente la centralità del tema dello sguardo, che interessa molto a Bianchini, come mostrano (fin dal titolo) Occhi e il bellissimo Oltre il guado. A livello profondo, si potrebbero dire molte cose su questo restringersi in una tana con una piccola apertura: ovvero sul rapporto fra questo buco dove Pietro si confina e l’inconscio.
Dapprima viene a vedere l’appartamento in affitto una donna con un bambino impiccione di nome Luca – ma non lo prende. Poi però compare una donna slovena (Iva Krajnc Bagola) con una bambina che sta diventando cieca (Gioia Heinz). In realtà la visita della madre di Luca innesta nell’inconscio il cortocircuito della memoria (specie perché Luca prende il libro di Verne che si rivelerà centrale nello svolgimento, con rabbia di Pietro che guarda nascosto; la polvere sul libro suggerisce allo spettatore un’idea di abbandono, ma in realtà allude a un passato rimosso). Pietro spia la vita delle due nuove venute – e poi entra in contatto con la piccola, parlandole quand’è sola; lei lo ribattezza l’angelo dei muri.

Partendo dal tema della solitudine, che lo ha sempre interessato molto, Bianchini in questo film lavora sugli elementi costitutivi del cinema, lo spazio e il tempo. Circa lo spazio, questa casa a scatole cinesi richiama l’elemento ricorrente in Bianchini dell’universo-trappola: un universo bloccato e ripetitivo che coinvolge tanto l’aspetto narrativo quanto quello spaziale, e li fa coincidere: dal labirinto infernale dei corridoi della scuola nel primo lungometraggio, l’acerbo ma ammaliante horror in friulano Lidrîs cuadrade di trê, ai rapporti temporali ritornanti di Custodes Bestiae, dalla comica descrizione di un universo bloccato nella demenza, un mondo ricorrente e centrifugo, in un film di isterismo e ripetizione quale l'ironico Film sporco, fino agli ottimi lavori della piena maturità.
L’angelo dei muri è un film che ha qualcosa di polanskiano (la prevalenza della soggettiva, il rapporto fra lo spazio esterno e la mente) – salvo l’elemento poetico, che Polanski non possiede. In realtà, però, Bianchini, regista atmosferico ed evocativo, è sempre stato assai legato alla soggettività (basta pensare a Occhi); per cui quello che ci appare vicino a Polanski non viene dal regista francese-polacco quanto da una poetica interiore. Il suo nuovo film non è un horror ma una poetica storia di fantasmi dell'inconscio e del ricordo; un doloroso film sul rimosso, sulla memoria che torna su se stessa e si materializza creando entro lo stesso nucleo di tempo due piani temporali diversi. Il film bene illustra la positiva duplicità di Lorenzo Bianchini: un massimalismo delle idee (non per nulla Bianchini si esprime per lo più nel campo dell’horror) che vengono concretizzate attraverso un minimalismo di tempi e di modi, nuances e sensazioni. E’ un film di allusioni e ambiguità, di specchi e di riflessi – né manca la figura del doppio nell’immagine dell’“altra” famiglia nella casa di fronte (un riflesso anch’essa, a suo modo) – ove va notato che al primo istante sono immobili come statue, prima che li metta in movimento l’attività psichica.
Inutile dire che l'interpretazione di Pierre Richard, muto per quasi tutto il tempo, è da premio internazionale. La sua capacità di trasmettere un mondo di sentimenti in un lampo di espressione lascia stupefatti. Poiché, inoltre, L’angelo dei muri si presenta come una fiaba nera (e non a caso il disco di Cinque settimane in pallone lo annuncia come “la fiaba di oggi”), Bianchini racconta di aver scelto Richard non solo per le sue grandi capacità attoriali ma anche perché nella sua fisionomia c’è un che di fiabesco, molto ben reso nei primissimi piani di Peter Zeitlinger. Ecco un altro apporto assolutamente fondamentale, la bellissima fotografia dell’herzoghiano Zeitlinger. Negli esterni: forse Trieste non è mai stata fotografata come, all’inizio, nell'inquadratura dal basso del protagonista con l’alto palazzo che “si slancia” verso l'alto alle sue spalle, in modo quasi espressionista. Negli interni, prevalenti: un autentico tour de force in primo luogo artistico, ma anche tecnico e materiale, che concretizza il punto di vista dell’“uomo nel muro” in modo indimenticabile.

La polvere è una presenza costante nel film, che è molto materiale e fisico sul piano dei corpi e delle cose. In questa casa senza tempo ritroviamo l’amore di Bianchini (anche scenografo) per i vecchi oggetti. Bianchini è un maestro nell'uso evocativo degli oggetti del passato, una caratteristica che lo accomuna a Pupi Avati: “horror antiquario” – e qui si potrebbe dir meglio “fantastico antiquario”. Il modo in cui viene gestita la doppia qualità del racconto – ieri e oggi, illusione e realtà, il ricordo e l'attuale – è magistrale. Così il film perviene a quella dimensione inquietante (una realtà che sembra oggettiva ma nella quale c'è qualcosa che “non torna”, fino alla rivelazione finale) che è uno dei capisaldi del fantastico. Inevitabile ricordare il racconto Un avvenimento sul ponte di Owl Creek di Ambrose Bierce che è un po' la Bibbia di questo tipo di fantastico; ne fu tratto un film nel 1962, La Rivière du Hibou di Robert Enrico, che mi spiace di non aver visto, ma salgono alla mente vari esempi più diffusi, a partire da Jacob's Ladder (Allucinazione perversa, che nel titolo italiano dà via ingenuamente la sorpresa) di Adrian Lyne. L’angelo dei muri è un film a rovesciamento, come Il sesto senso e The Others; la sceneggiatura (Lorenzo Bianchini, Michela Bianchini e Fabrizio Bozzetti) e il montaggio (del regista) ne riportano efficacemente l’ambiguità; solo dopo lo spettatore ripercorre all’indietro la visione per trasformare quelle piccole tracce enigmatiche – si potrebbe parlare di dissonanze – in tappe della comprensione e della rivelazione. Segni sparsi lungo il film, ora uno straccio insanguinato, ora un’antica vasca da bagno sporca e insanguinata. Oppure, il modello eccessivamente vecchio del televisore della donna; è vero che il film volutamente non dà indicazioni di tempo, ma il padrone della casa parla al cellulare: la fantasia di Pietro, o i fantasmi nella sua mente, che è lo stesso, sono rimasti legati agli anni ‘60. Peraltro Bianchini gioca pulito con il suo pubblico: la verità è lì, siamo noi che non la vediamo.
Il richiamo a Giulio Verne è raffinato. Cinque settimane in pallone (che compare sia come libro sia come lettura su disco in un vecchio mangiadischi) dapprima sembra solo un tocco scenografico, poi assume un valore sempre più importante nello sviluppo, con la mongolfiera giocattolo costruita da Pietro, e infine un valore simbolico e metaforico nel finale; ma se ci pensiamo (e L’angelo dei muri, lo abbiamo detto, è uno di quei film che vanno ripercorsi mentalmente all'indietro dopo la visione) il cuore del film è costruito sull’opposizione fra due movimenti associati e inversi, l’innalzarsi e il cadere.
C’è, nel film, un feroce senso di inesorabilità – che è giusto perché stiamo vedendo quello che è già accaduto. Al cinema il disco che s’incanta rappresenta sempre una dichiarazione del tempo che non passa e ritorna su se stesso: il “tempo sospeso” dei fantasmi – e della memoria. Tutte le storie di fantasmi (revenants) sono su un passato ritornante che si imprime sul presente. Le storie di fantasmi sono una coazione a ripetere.

mercoledì 18 maggio 2022

Far East Film Festival 2022: Giappone


One Day, You Will Reach the Sea di Nakagawa Ryutaro, una potente riflessione sui sentimenti correlata allo tsunami del 2011, potrebbe essere il film migliore della selezione 2022. Con una narrazione decisa e un’intensità ammirevole, eppure con leggerezza di tocco, il film parla dell’identità, del non detto, dell’amore inespresso e della perdita. E’ la cronaca “a posteriori” del rapporto fra la timida Kotani Mana (Kishii Yukino) e la sua amica, la più sicura Sumire (Hamabe Minami) (più sicura, ma per rapportarsi al mondo esterno ha bisogno della videocamera con cui filma). “A posteriori” perché Sumire è scomparsa nel grande tsunami, e quindi questo viaggio nel tempo si svolge sotto l’ombra della morte.
Nota che tanto le precise circostanze dell’accaduto quanto il tessuto dei sentimenti si svelano a poco a poco, lungo il film, creando un’autentica suspense del sentimento (sceneggiatura del regista da un romanzo di Ayase Maru). Alla base c’è una quieta drammaticità nella riflessione sulla possibilità (o meglio: le varie possibilità) di fare i conti col lutto. Si parla di Sumire ma anche del lutto in generale: una magnifica sequenza consiste nelle testimonianze di chi ha perso persone care nello tsunami, filmate semplicemente a mezzo busto a camera fissa. Ma in mezzo al dolore della perdita si ritrova un elemento, molto giapponese, di consolazione.
La fotografia di Ohuchi Tai è elegante senza essere leccata. Sul piano narrativo bisogna menzionare la bellezza con cui scene che abbiamo visto nella videocamera di Sumire riappaiono più tardi “dall’esterno” mentre vengono filmate – lo stesso vale anche per alcune scene oggettive – e il tempo (filmico) trascorso le rende maggiormente significanti. Sul piano della regia menziono solo, perché dà un’idea del modo di procedere leggero e allusivo di Nakagawa, un dettaglio: la notizia, ricevuta da Mana al telefono, della morte imprevista dell’amichevole capo del locale dove lavora viene introdotta da un breve piano sequenza che notiamo proprio perché non necessario (segue Mana lungo un corridoio) e così ci mette sull'avviso, ci prepara alla svolta drammatica.
Non c’è nulla di gridato; siamo più sulla linea dei classici; e anche lo tsunami, alla fine, viene risolto con un’ellissi perfetta e pudica, che apre alla seconda parte di una sequenza a cartoni animati, di tipo poetico, che fa da cornice al film.

Il brillante Love Nonetheless di Jojo Hideo è una commedia sentimentale agrodolce, benché tenga l'elemento agro molto sottotraccia. Parla di amore e di incertezza amorosa: non è casuale che nel film ritorni di continuo la parola nande (“Perché?”) o domande simili. Non è Rohmer, che può ricordare per la struttura, ma è agile e piacevole (e divertente).
Koji, libraio in un negozietto di libri usati, ha trent'anni ma di lui si è innamorata la sedicenne Misaki che continua ad andarlo a trovare in negozio e consegnargli lettere che finiscono sempre con “Per favore, sposami”. Koji è da sempre innamorato di Ikka, che però non l'ha mai calcolato. Ikka deve sposarsi con Ryosuke, e non sa che lui la tradisce con la padrona del negozio di abiti da sposa. Scoperte le tracce di un tradimento, Ryosuke limita i danni inventando una bugia relativa a una suo compagna di lavoro; ma Ikka decide di rendergli la pariglia con Koji. E' una ronde di incroci amorosi di personaggi, con un fluido spostamento di visuale: prima su Koji e Misaki, poi si sposta su Ikka e Koji, poi torna su Koji e la rediviva Misaki. Il film riesce a creare una quieta suspense su questi destini, fra ottimismo e tolleranza pessimista, con un bel dialogo (grande la scena in chiesa col prete e il suo “controcanto” dopo!) e con ottimi attori.

Un uomo in rovina dice a sua figlia di aver riconosciuto per strada un serial killer ricercato, e di volerlo catturare per la taglia. Poi l’uomo scompare e la figlia si mette a cercarlo. Questo è il punto di partenza del notevole Missing di Katayama Shinzo (che ha lavorato in passato con Bong Joon-ho) – ma c’è molto di più da scoprire e, potremmo dire, da vivere.
Racconto crudele pervaso di umorismo macabro, Missing ha punti di violenza visiva ai limiti dello splatter; tanto più che nel film si nota fin dall’inizio un’evidenza fisica dei rumori. Come molti film d’oggi, ha una costruzione anacronica che nel suo svolgersi all’indietro getta luce su quelle scene o dettagli che alla visione ci sono sembrati bizzarri – o anche no, ma che nel prosieguo assumono un diverso significato. La descrizione di Osaka, dove si svolge, e del Giappone è cupa e squallida sotto tutti i punti di vista. E la conclusione – dove si nota una sorta di imprevisto omaggio all’antonioniano Blow-up – è assolutamente desolata.

Popran è diretto dallo Ueda Shinichiro di One Cut of the Dead, il meta-film di zombi “in piano sequenza” che trionfò al FEFF nel 2018 – e poi in tutto il Giappone. Il film è una commedia piacevole, con ritmo veloce e tocchi indovinati. 
Proprio come il naso nel racconto omonimo di Gogol', qui c'è un'altra parte del corpo che una mattina sparisce con disperazione del suo possessore: il popran (il membro virile), lasciando solo un buco. Il protagonista Tagami Akira, editore di manga pieno di sé, scopre ben presto di non essere l'unico a soffrire di questa perdita. Una specie di conferenza ci dà tutte le informazioni in merito: i popran volano velocissimi, a catturarli si possono riattaccarle, ma dopo sei giorni da soli muoiono di malnutrizione, quindi bisogna sbrigarsi. Al pari delle altre vittime, Tagami si mette in caccia con reticella da farfalle per recuperare il membro ribelle. Ueda (regista, sceneggiatore e montatore del film) usa quest'idea assai divertente come base per un racconto morale, alla Buzzati diremmo in Italia; e questo non può essergli imputato a colpa perché è dichiarato fin dalla prima scena, dove vediamo che Tagami è un mascalzone di successo che ha licenziato il suo socio, ha abbandonato moglie e figlia e non fa visita ai suoi genitori da dieci anni. Siccome un'altra vittima ha colpe simili, se ne deduce che la perdita del popran è una sorta di punizione per l'egoismo mostrato; e infatti compare nei luoghi dove chi l'ha perso si è reso colpevole; per cui Tagami fa un viaggio presso le persone cui ha fatto del male, alla ricerca del proprio uccello. Lo condisce di bugie, dicendo che va a caccia di avvistamenti di uno Skyfish, che è una leggenda metropolitana, per documentazione. Tuttavia, il viaggio è comunque un insegnamento per lui (delicatissimo l'incontro del protagonista con la propria figlia, che ignora chi sia), anche se il film evita scene strappalacrime di pentimento. Personalmente trovo affascinante questa equiparazione del popran con la coscienza.
Naturalmente, fin da quando sentiamo all'inizio che Tagami è un editore di manga possiamo indovinare che vi è anche sottesa una linea metanarrativa: sarebbe una buona idea per un manga, dice la segretaria quando Tagami le racconta la vicenda come delirio; e alla fine Tagami si vede proporre la sua stessa “malattia” come invenzione per un fumetto da un giovane autore.

I kaiju sono quelle creature gigantesche e pesantissime, il cui capostipite è Godzilla, che zampettano fra i grattacieli distruggendo Tokyo. Orbene, quando noi diventiamo matti a dividere l'immondizia fra i vari cassonetti e ricordarci in quale giorno vanno messi fuori, già ci lamentiamo della nostra sorte, ma… e se dovessimo smaltire la ciclopica carcassa in decomposizione di un kaiju morto? E’ questo il problema con cui ha a che fare il governo giapponese nel film satirico What to Do with the Dead Kaiju? del provocatorio – e ben noto al pubblico del FEFF – Miki Satoshi. Su questa questione il governo giapponese annaspa, si divide, fa mille riunioni con continui spostamenti, si perde in piani complicati, si dilania in lotte per il territorio politico fra enti, agenzie, ministeri. Alcuni dettagli sono perversamente divertenti, come il problema politico-burocratico di dare un nome appropriato al tipo di fetore emesso dalla carcassa (non dimentichiamo che ad annusare sono gli elettori!); e seguono manifestazioni con cartelli da parte di chi non è d’accordo. E poi, se nel cadavere si celassero pericoli peggiori della puzza?
I kaiju (per quel che ne sappiamo) non esistono; ma i moderni governi ipertrofici sì. La satira politica, frammista a una sottotrama avventurosa meno felice, di What to Do with the Dead Kaiju? non fa che riprendere, estremizzandolo, un elemento satirico già presente nell’ultimo Godzilla giapponese, Shin Godzilla di Anno Hideaki e Higuchi Shinji, del 2016: era un film serio e drammatico, però anche lì l’impaccio del governo giapponese di fronte all’attacco del mega-dinosauro radioattivo (memorie dell’incidente di Fukushima!) faceva sì che nel film i mostri enormi, goffi e pesantissimi fossero due. 

Hiroki Ryuichi, lo sappiamo, si divide tra film “intellettuali” di alto livello ed ambizione (River, Side Job.) e film di genere, più commerciali e di ambizione minore (Policeman and Me). Un suo indubbio difetto è che raramente riesce a costruire l'incrocio perfetto tra questi due gruppi (un esempio riuscito è The Egoists). Noise, che appartiene al secondo gruppo, è un film non spiacevole ma narrativamente forzato. Il modello è La congiura degli innocenti di Hitchcock (qui però il morto è autentico): una menzogna coinvolge sempre più gente, in un’isola impoverita che il protagonista sta risollevando con una coltivazione di fichi pregiati. Qui arriva un pazzo assassino (hitchcockianamente, che sia pazzo è evidente a tutti ma che sia un assassino lo sanno solo gli spettatori). Il protagonista Keita e i suoi amici Jun e Shin (giovane poliziotto) credono che abbia rapito la figlia bambina di Keita; ne nasce una colluttazione in cui il demente batte la testa e muore.
Ecco un esempio delle forzature logiche del film: siamo nel campo dell'incidente per legittima difesa (e anche se così non fosse, la cosa più semplice sarebbe stata alterare un po' la verità); invece i tre decidono di nascondere interamente l'accaduto, e di lì si scatena una valanga di bugie – mentre arrivano due odiosi poliziotti da fuori a investigare sul pazzo – che chiamano altre vite. Il problema centrale di Noise è la sua incapacità di assumere un tono. Hiroki ci immette alcuni momenti di commedia nera esagerata del tutto scollegati dal resto, totalmente serio, e il film risulta squilibrato. Il selvaggio overacting di alcuni attori, come il burocrate in visita e la sindaca del paese, avrebbe avuto senso solo in un film interamente costruito sul registro della commedia. Come che sia, con una sorpresa finale il film si chiude sotto il segno di un dolore universale che rientra molto nella visione di Hiroki.

Il FEFF contiene sempre una piccola sezione di capolavori restaurati, e qui non si può non menzionare il meraviglioso Pale Flower (1964) di Shinoda Masahiro, esponente della New Wave dell’epoca meno noto del suo collega Oshima Nagisa. E’ un noir ambientato nel mondo della yakuza, e basta la potenza dell’immagine di apertura – una statua di donna nuda in atteggiamento drammatico in primo piano sullo sfondo della stazione di Tokyo – per inchiodare lo spettatore, che seguirà il film in stato quasi ipnotico nei suoi giochi di ombra nera e lame di luce (l’incredibile fotografia – che è anche uno degli utilizzi del formato scope più belli che abbia mai visto – è di Kosugi Masao).
Lo yakuza Muraki, appena uscito di prigione per aver accoltellato un membro di una banda rivale, attraversa la stazione ed è, il suo, un pensiero in voce over di nichilismo esistenziale (“uomini… bizzarre creature”), che pone il tono di tutto il film. Muraki incontra alla bisca clandestina una donna, Saeko, che gioca forte ed è nichilista come lui, cercando emozioni sempre più forti. Tutti e due si lasciano trascinare senza resistere da un destino di accettazione del nulla (anche simboleggiato in una scena da un negozio pieno di orologi).
Ci sono nel film numerose sequenze di gioco d’azzardo che assume un valore metafisico. Fra i due nasce un’attrazione e poi un amore non dichiarato né dichiarabile da parte di nessuno dei due, che continuano in una spirale distruttiva (oltre al gioco d’azzardo, c’è una incredibile sequenza di gara di sorpassi a cento all’ora in auto nella notte), e sullo sfondo c’è la tentazione di Saeko verso la droga. 
Il racconto è severo, ellittico, spietatamente netto come in un film di Samuel Fuller (per combinazione, presente al FEFF con un film in retrospettiva), e il finale disperato è incredibilmente potente. Oltre alla fotografia e al montaggio secco, nervoso, va menzionata la magnifica score di un jazz dissonante. I due ottimi protagonisti sono Ikebe Ryo e Kaga Mariko.

martedì 17 maggio 2022

Far East Film Festival 2022: Corea


La prima cosa che si nota nell’eccellente Tomb of the River di Yoon Young-bin è il montaggio spietato. Il racconto, specie all'inizio, è frazionato violentemente in momenti che creano una sorta di puzzle. Al centro sta la lotta fra gangsters per il controllo di un resort sulla riva, con uno spietato nuovo arrivato da Seoul che vuole farsi largo a tutti i costi e fa saltare qualunque ipotesi di pace nella malavita. Il film può ricordare quelli di Kitano Takeshi della trilogia Outrage per la sua visione nerissima dell'esistenza sia all'interno del mondo gangsteristico sia, per estensione, nella vita al di fuori; ma anche per una bellezza visiva spietata (non si può che ripetere l'aggettivo) nelle scene di omicidio.
In questo mondo, le parole sono inutili”: a differenza dell'immediatezza materialistica dell'ultimo Kitano, c'è in Tomb of the River un'evidente tendenza “filosofica”, sentenziosa, che serpeggia nei dialoghi e dà loro una risonanza poetica; e fa pensare al noir classico americano col suo nichilismo romantico. “Scappare non risolve niente – solo la morte mette fine alle cose”, oppure “Il romanticismo è morto da un pezzo” – e questo in un film dove non c'è una storia d'amore ma solo un'illusione di amicizia fra un poliziotto e il protagonista). In effetti questo resort per cui ci si batte è come l'oro in un film di John Huston, più un sogno e un'illusione che un bene concreto. Alla fine la neve cade allo stesso modo su tutti i morti e sull'ultimo sopravvissuto che ha perso l'anima.

In The Apartment with Two Women di Kim Se-in due donne coreane, una madre single e una figlia adulta, vivono insieme con pochi soldi tormentandosi a vicenda: la madre è sempre stata assente e ostile, la figlia è cresciuta odiandola; è uno sbranarsi reciproco alla Polanski, con un comportamento che tocca la psicopatia. E tuttavia, il film regala una carica di umanità stupefacente a entrambe. Anche la madre “snaturata” mostra un lato terribilmente umano, in cui possiamo riconoscerci, durante il tragicomico corteggiamento da parte di un brav'uomo con figlia adolescente. Se Jean Renoir diceva (ne La regola del gioco) che il tragico della vita è che ciascuno ha le sue ragioni, la regista e sceneggiatrice Kim Se-in potrebbe modificarlo così: il tragico della vita è che ciascuno ha le sue disperazioni. E il dolore ci rende pazzi.
In questo girarsi attorno, allontanarsi e riavvicinarsi ringhiando, dai toni dostoevskiani, non sembra esserci risoluzione nella coppia, nemmeno quando nel finale sembriamo andarci vicino, nella sequenza in cui è mancata la luce, che ha una drammaticità silenziosa alla Imamura. Alla fine la figlia se ne va – e nell'ultima scena il fatto che la commessa di un negozio di abbigliamento le prenda le misure simboleggia una rinascita.
Sono due eccellenti interpretazioni di Lym Ji-ho e Yang Mal-bok, e in particolare Yang Mal-bok (la madre) è indimenticabile con la sua arte di far apparire le emozioni su un viso raggelato mantenendo nel contempo un elemento di mistero. Il montaggio, ellittico ma chiaro, è di un'eleganza incantevole – se si può usare l'aggettivo per un film di questa dolorosa intensità.

Costruito con bella tensione da Yoon Jong-seok, il giallo-thriller Confession è un film a molti strati. Per evitare spoiler, limitiamoci alla situazione di partenza: il giovane rampante, sposato, Yoo Min-ho è accusato di aver ucciso la sua amante. Si proclama innocente ma è difficile convincerne la polizia: è un classico “delitto della camera chiusa” dove lui è stato trovato col cadavere. Yoo è in libertà provvisoria in uno chalet di montagna ma teme che lo arresteranno nuovamente. Sotto la neve, che è una marca simbolica nel film, va a trovarlo un'avvocata raccomandatagli perché non ha mai perso una causa (una grande interpretazione di Kim Yun-jin), per discutere la sua difesa. Come primo livello, Confession è un noir, non nel senso generico di thriller metropolitano ma in quello del noir classico: l'accanirsi del destino contro un uomo in seguito a una colpa (qui l'adulterio), che nel meccanismo fatale si amplia a valanga. Ma c’è un secondo livello: i racconti in flashback, intessuti di menzogna e verità, e le ricostruzioni ipotetiche, anch'esse visualizzate in forma di (pseudo) flashback, fanno assomigliare il film a una sorta di Rashomon nero.

Kingmaker di Byun Sung-hyun affronta il tema della moralità nella lotta politica. Nel 1971, un politico onesto, Kim Woon-bum, è candidato del Partito Democratico contro il presidente-dittatore Park del Partito Repubblicano. Seo Chang-dae (Lee Sun-kyun, visto anche in Parasite) sta dalla sua parte ed è abilissimo nel condurre le campagne elettorali, sicché è prezioso per l'ascesa di Kim nel paese e dentro il partito. Il problema è che – mentre gli avversari com'è prevedibile giocano sporco – anche Seo gioca sporco: è per una buona causa, ma fin dove è lecito? Qual è in politica il rapporto tra i mezzi e i fini?
Seo è soprannominato “L'ombra” (infatti il film collega più volte la sua figura con la sua ombra); il suo sogno sarebbe di “uscire dall'ombra”, come dice, ed emergere come politico, ma invece Kim finisce per licenziarlo per ragioni morali. Per rivalsa Seo mette le sue capacità al servizio del partito di Park, e con un trucco particolarmente cinico gli fa vincere le elezioni. Da notare che i personaggi alludono con nomi cambiati alla storia reale; la figura e la storia di Seo sono ispirate a un autentico stratega elettorale coreano, e anche la figura di Kim Woon-bum è modellata su quella di Kim Dae-jung, che arrivò effettivamente vicino a battere il presidente Park Chung-hee.

Hostage: Missing Celebrity è un thriller coreano sul rapimento di un attore ispirato al cinese Saving Mr. Wu di Ding Sheng, ove la cosa interessante è che il protagonista del film, Hwang Jung-min (ben familiare al FEFF) è anche personaggio: ovvero, il suo personaggio è il divo del cinema d'azione Hwang Jung-min e i film da lui interpretati citati nel film sono proprio quelli di Hwang. Questo riflettersi “meta” del plot nella realtà – o in qualcosa di simile alla realtà – è un'ottima trovata. Scritto dal regista Pil Gam-sung, il film mantiene un buon ritmo e dipinge con impegno un gruppo di villains psicopatici del tipo che fa venire voglia di sparargli contro lo schermo. Una cosa difficile da capire è come mai Pil Gam-sung, dopo essere riuscito per tutto il film a mantenere una dignità umana all'attore spaventato e picchiato, lo mostri in un imprevisto atto di vigliaccheria: uno dei rapitori lo ucciderà se lui non implora di uccidere al suo posto la ragazza rapita assieme a lui – e lui lo fa (“Ammazza la cagna”). Non faccio un discorso morale – chissà come agiremmo noi nella stessa situazione, anche se fuori dal pericolo tutti ci lusinghiamo di pensare che manderemmo al diavolo il bastardo – ma di coerenza di sceneggiatura. In ogni modo, il film è agile e, senza essere un capolavoro, si lascia seguire volentieri, mantenendo l'adeguata tensione. Fra gli interpreti si segnala Lee Yu-mi, che è diventata una star in Corea grazie a Squid Game. Il post-finale è metanarrativamente ironico, con un ricordo di Misery (il romanzo, non il film).

In Thunderbird di Lee Jae-won la “Thunderbird” (da uno sticker che ha sopra) è un'auto che contiene una grossa somma ed è stata impegnata – a insaputa di ciò – dai recuperatori di debiti mentre il suo proprietario Tae-min (Lee Myeong-ro), un giovane esempio di stronzetto totale, è ubriaco. Attorno alla macchina si scatena una ridda con Tae-min, suo fratello maggiore tassista Tae-gyun (Seo Hyun-woo) e la ragazza del primo, Mi-young (Lee Sul) che cercano di recuperarla. Ne fa le spese la padrona dell'agenzia di pegni su automobili (un'altra bella interpretazione della caratterista Park Seung-tae, vista in tanti film). Menziono anche Kim Gyu-baek nel ruolo di un picchiatore mezzo pazzo che è in fondo (molto in fondo) il più umano e disperato.
Come si vede dai nomi, è un film di ottimi attori. Il ritmo è indubbiamente vivace; il modello è il noir del genere “nessuno è pulito”. Nella prima parte del film sembra essere la storia di un uomo per bene (il tassista) che soffre per colpa di un fratello bastardo; nella seconda parte vediamo che neanche Tae-gyun è innocente. Il film è ambizioso, ma non raggiunge la grande ambiguità di personaggi del noir: siccome le psicologie appaiono elementari, il cambio di prospettiva morale attorno a Tae-gyun risulta un po’ forzato, e questo non è l’unico tratto a sfidare alquanto la “sospensione dell'incredulità”.

Mi scuso per avere perso, e non ancora recuperato il film vincitore del premio del pubblico, Miracle: Letters to the President di Lee Jang-hoon. Ora qualche altro film in breve. 
In Perhaps Love, esordio alla regia dell’attrice Cho Eun-ji, la vita dello scrittore Kim Hyun è molto complicata. Dopo un romanzo di successo, vive coi soldi dell’anticipo sul nuovo libro e non si decide a scriverlo. Suo figlio adolescente (un cretino) piange per la fidanzatina incinta di un altro e si incavola perché (mentre la moglie di Hyun è all’estero) il padre ha una relazione con sua madre, la ex moglie. La ex moglie ha una relazione segreta con il miglior amico di Hyun. Il giovane scrittore Yu è innamorato di Hyun che è ultra-etero. Hyun è geloso di una giovane scrittrice in ascesa – e non finisce qui. Perhaps Love si lascia guardare con una certa simpatia, anche se nel complesso è piuttosto debole. Il punto di forza sono le buone interpretazioni: oltre all’ottimo Ryu Seung-ryon nel ruolo di Hyun, grande Lee Yoo-young nel ruolo della disinibita vicina di casa che diventa amica del figlio.
In Special Delivery di Park Dae-min l’attrice di Parasite Park So-dam, nel ruolo di una guidatrice spericolata, sfodera una grinta impassibile alla Clint Eastwood nella lotta per difendere un bambino (che è purtroppo uno dei più antipatici mai visti al cinema). Le corse sfrenate in auto sono l’argomento di interesse del film, che infatti perde forza quando non ci sono, e deve reggersi solo sulla classica ultra-cattiveria dei banditi.
Va menzionato infine il teso e spettacolare Escape from Mogadishu di Ryoo Seung-wan, appartenente a una sezione del FEFF limitata al 2022 che “recuperava” film già visti nei festival. Nella Mogadiscio in rivolta nel 1991, i membri dei corpi diplomatici sudcoreano e nordcoreano (come dire cani e gatti) devono rifugiarsi insieme all’ambasciata del Sud. E per salvarsi (sembra invenzione ma il film di Ryoo Seung-wan racconta una storia accaduta) fuggono insieme verso l’ambasciata italiana.
Il film descrive con vivacità il crollo del regime somalo col progredire della rivolta, ed è indubbiamente emozionante nelle parti d’azione, che culminano nella fuga dei diplomatici verso l’ambasciata italiana – alquanto romanzata rispetto alla realtà – in auto provviste di una difesa antiproiettile di fortuna (libri attaccati alla carrozzeria con lo scotch!).

lunedì 16 maggio 2022

East Film Festival 2022: Hong Kong e Taiwan


Diviso in dodici capitoli di lunghezza diseguale, l’hongkonghese Twelve Days di Aubrey Lam racconta dodici momenti importanti nella storia di una coppia, Jeannie e Simon. Li incontriamo fidanzati (in cerca di un posto dove amoreggiare in pace), si sposano, attraversano tutti i problemi del matrimonio, si separano – e poi si rimettono insieme: ma per quanto? L'ultimo episodio mostra umoristicamente, con la centralità di un piatto di spaghetti che si raffredda, che il maschilista Simon non è cambiato.
Stephy Tang nel ruolo di Jeannie è eccezionale. Anche Edward Ma (Simon) è bravo, ma il suo compito è reso più facile dal fatto che deve interpretare un cretino. Scritto e diretto da Aubrey Lam, il film ha una natura che si può definire – in senso buono – vignettistica, ovvero la capacità fulminante nel tratteggiare un momento o una situazione. Un esempio: un episodio particolarmente breve in cui Jeannie sta giocando al bowling e vince, e si accorge che Simon (che perde) si sente umiliato; allora fa in modo di perdere, in una specie di “sacrificio d’amore”. Il film mostra in modo prismatico tutte le sfaccettature del rapporto coniugale. Quello che più colpisce è il suo carattere di totale riconoscibilità – nel senso che riconosciamo queste situazioni (e contestualmente, ci riconosciamo in esse) al di là di qualsiasi differenza culturale. 

Gli appassionati di cinema asiatico hanno un particolare amore per Hong Kong e per il cinema wuxia; e Legendary in Action! di Justin Cheung e Li Ho celebra proprio quel cinema (di cui si è visto al FEFF anche un bell’esempio d’epoca col restauro del taiwanese The Swordsman of All Swordsmen di Joseph Kuo). “Tiger” Cheung è stato ispirato a diventare regista da una serie wuxia televisiva che guardava da bambino. Ora vuole rilanciare la sua carriera pericolante con il remake del suo ultimo episodio, che sarà interpretato dallo stesso attore protagonista della serie (tranne appunto quel decimo episodio), l’ormai anziano Dragon Tin. Ma nascono pesanti guai finanziari; la moglie incinta di Tiger lo accusa di trascurarla perché troppo preso dal film; e il peggio sono i problemi sul set. Il vecchio Dragon è intrattabile, prende troppo sul serio la parte e quindi sul set mena botte da orbi, e quel ch’è peggio ha l’Alzheimer…
Il film è l’omaggio più caloroso e commosso al wuxiapian che si possa immaginare (il modellino che compare nel finale non ricorda Chor Yuen?), o meglio, a tutto il vecchio cinema popolare hongkonghese. Non solo in modo implicito: il discorso che Cheung fa alla prima del film è un vero manifesto – e al suo grido finale “Teniamo sempre su il cinema di Hong Kong!” si saranno uniti spiritualmente tutti gli spettatori del Far East Film Festival.

Anche al centro di Table for Six di Sunny Chan risuona l’amore per Hong Kong e per la sua cultura, in tutti i sensi – a partire da quello materiale, con un personaggio (interpretato da Stephy Tang) che fa collezione di memorabilia hongkonghesi (vecchie insegne di ristoranti e decorazioni varie) e ne riempie la casa dove si trasferisce. Lì abitano tre fratelli litigiosi costretti a vivere sotto lo stesso tetto dal testamento della madre (eppoi non dimentichiamo i problemi di alloggi a Hong Kong, sui quali Fruit Chan ha realizzato il memorabile Coffin Homes). L’interazione fra questi personaggi e le rispettive fidanzate, con incroci vari di rapporti, crea una commedia graffiante, parlata in cantonese naturalmente, e sorretta da ottime interpretazioni. Non è difficile indovinare che questo intrico di contraddizioni sia destinato a esplodere in una grande resa dei conti che si lascia dietro un paesaggio di macerie sia relazionali sia materiali. E tuttavia, una ricomposizione finale che rivendica il valore dell’unità familiare ricostruita assume con facilità un valore metaforico, dove possiamo vedere in questa grande casa l’ex colonia, esortata a mantenere la sua unità di fronte al regime, che prende di mira non solo le libertà democratiche ma la stessa esistenza della cultura hongkonghese. 

The First Girl I Loved è un’opera prima dei co-registi Candy Ng e Yeung Chiu-hoi. Dell’opera prima ha una certa traccia di zelo estetico: per esempio il gioco d’inquadratura rovesciata col riflesso nell’acqua che la apre è elegante, ma ha qualcosa che sa un po’ di showing off. Però questo dettaglio perde importanza davanti a una narrazione intensa, di un realismo umanistico, sull'amore tra due ragazze al tempo della high school (grande il bacio in pubblico nel cortile della scuola fra gli oooh! delle compagne), sull'amore che a volte passa a volte perdura, e sul ricordo: la differenza delle prospettive nella memoria. Non mancano alcune interessanti osservazioni verbali sul cinema. Il racconto in flashback ha leggerezza e vivezza descrittiva, che si allarga a due bei ritratti di padri comprensivi. E’ un’opera prima che fa piacere vedere – e non solo per il fatto estetico: è un film che per la sua umanità appare, come dire, più che mai civile ai tempi del cupo nazismo putiniano.

Spostiamoci ora a Taiwan. L’agrodolce Mama Boy incrocia tre personaggi: il “cocco di mamma” Xiao Hong, impacciato con le ragazze fino a risultare scostante; sua madre che cerca di procurargli una fidanzata; Sister Lele (Vivien Hsu) che è la maitresse di un bordello travestito da hotel. Il cugino porta lì Xiao Hong e va a finire che lui resta vergine ma nasce un rapporto fra lui e Sister Lele, fatto di amore celato da parte di lui, affetto quasi materno da parte di lei. Non qualcosa che la società – men che mai quella madre benintenzionata e impicciona – possa tollerare.
Forse Xiao Hong è descritto in modo un po’ troppo programmatico (ma l’interpretazione di Kai Ko è buona, col suo progressivo passare da imbranato totale a una progressiva maturità). D’altro canto in Sister Lele, una donna saggia e sfortunata, vediamo un quadro psicologico assai convincente (e Vivien Hsu, di grande espressività, è eccellente davvero). Il film di Arvin Chen ha molti tratti divertenti ma nel complesso è avvolto da un’aura malinconica, come si vede dall’inizio e la fine (circolari) dove si parla simbolicamente della morte dei pesciolini comprati nel negozio di pesci da acquario dove lavora Xiao Hong.

Certo, non siamo più ai tempi “positivisti” della Universal e della Hammer, in cui tutto era chiaro e logico: il mostro o l'infestazione da trattare come una malattia: sintomi, cura, guarigione. L’horror contemporaneo, di cui è esempio Incantation di Kevin Ko, è molto più ambiguo e allusivo.
Sei anni prima, la protagonista Ruo-nan, incinta, il fidanzato e il fratello di lui sono andati in mezzo al nulla a filmare uno strano rito della famiglia dei due, per mettere il filmato su Internet: si sentono i cittadini laici e scettici in opposizione ai paesani superstiziosi. Questi intrusi si muovono con una supponenza incredibile e finiscono per scatenare, violando una galleria proibita, la divinità maligna (chiamata la “madre-buddha”) alla quale il villaggio rivolgeva l’incantation. Sei anni dopo, Ruo-nan ha appena ottenuto la custodia di sua figlia bambina dopo varie traversie – ma il disastro è in agguato.
Il film, che si muove tra i due tempi, è un P.O.V., come REC o Cloverfield. I problemi dei film P.O.V. (peraltro in realtà il P.O.V. appartiene più all’ordine retorico che a quello narrativo, ma questo è un altro discorso) sono sempre gli stessi: a) Chi filma? C’è una spiacevole confusione tra filmato diegetico, cioè P.O.V., e ripresa oggettiva; b) Chi monta? In rapporto alla registrazione il montaggio dà sempre un’aria artificiale (a meno che non sia esplicitamente giustificata sul piano del racconto, come in The Blair Witch Project), e qui come se non bastasse l’artificialità del montaggio c’è anche un uso (limitato) di didascalie; c) Infine c’è sempre una lieve tensione sul piano logico, perché questi personaggi continuano a filmare e non mollano la videocamera neanche se, come qui, stanno scappando da una galleria dell’orrore o correndo all’ospedale. Va detto però che nel presente film questo terzo punto trova una giustificazione perché la mania del filmare è necessaria al rovesciamento finale.
Il quale è interessante invero (attenzione: spoiler). Va premesso che il film inizia con un’interpellazione al pubblico chiamando in causa le sue capacità percettive, con l’ausilio di trucchi; e sembra una micro-versione demenziale del progetto di Orson Welles per l’inizio di Heart of Darkness. Ora, alla fine c’è un appello della protagonista al pubblico a recitare con lei la formula di preghiera che conosciamo, l’incantation di benedizione. E solo dopo lei svela al pubblico che lo ha imbrogliato (per salvare sua figlia): l’incantation in realtà era l’accettazione di condividere una maledizione. Questa compromissione nella maledizione è più efficace se si vede il volto proibito della statua, coperto da un drappo che lei toglie. E che noi guardiamo: come potremmo non farlo? Ed è una mostruosità vagamente lovecraftiana.
In altri termini, il film porta al massimo la “colpevolizzandone dello spettatore” di hitchcockiana memoria, utilizzando la sua “pulsione scopica” per coinvolgerlo direttamente
nel racconto.

domenica 15 maggio 2022

Far East Film Festival 2022: Cina


Guardando The Italian Recipe, un’inusuale coproduzione cino-italiana che ha aperto il festival, ci ritroveremo a casa: non solo per le immagini “turistiche” di Roma, dirette in primo luogo al pubblico cinese ma che da noi fanno scattare un riconoscimento gradito, ma soprattutto per l’immersione nell'atmosfera e nel parlato di Roma – anch’essi mitico-turistici, si capisce, ma nessuno si aspetta i fratelli D’Innocenzo: il film di Hou Zuxin ha nell'ambientazione una cordialità da commedia populista. Adorabili quei poliziotti concentrati sulla partita in tv, e non va mancata la sottile ironia della battuta seguente su “servire il popolo”, che porta a livelli più terreni la retorica ufficiale cinese. 
Peng, un cantante pop di Pechino sperduto a Roma, conosce Mandy, una ragazza (piena di diversi lavori) della comunità cinese della metropoli. Grandi questi cinesi di Roma che parlano italiano, con Mandy che in auto grida in perfetto italiano allo scooterista che le ha tagliato la strada “Ma che cavolo fai? Ma sei veramente un idiota!”. Il riferimento è ovviamente a Vacanze romane (e sì, c’è anche il giro in Vespa!), ma non solo. Se dimentichiamo la differenza di nazionalità, ecco che ci ritroviamo nell’atmosfera della commedia anni Cinquanta alla Poveri ma belli – e potremmo perfettamente vedere Maurizio Arena e Marisa Allasio al posto di Liu Xun e Huang Yao. È, come si dice in Asia, un film feel good, il che non guasta affatto di questi tempi.
La regista Hou Zuxin ama il suo lavoro e vuole farlo bene, non si limita a mettere la sceneggiatura su pellicola. Per esempio, com’è raffinata – quando Peng e Mandy appena innamoratisi girano per Roma dalla notte all’aurora – l’improvvisa trasformazione delle inquadrature da racconto oggettivo a una serie di (diegeticamente impossibili) filmini familiari – con tanto di rigature!

Sarà distribuito in Italia, grazie alla Tucker Film, l’eccellente dramma di ambiente contadino Return to Dust di Li Ruijun. In un matrimonio combinato dai familiari, un contadino né giovane né bello, il Quarto Fratello Ma, sposa una donna considerata di nessun valore, Guiying, che essendo stata maltrattata fin da piccola è timidissima, goffa, si bagna addosso. Sembra l’inizio di una storia cupamente naturalistica – e invece Return to Dust raggiunge toni di quieta elegia contadina nel descrivere la tenerezza che nasce e perdura fra i due, con gesti di un affetto pudico, mai verbalizzato. E Guiying (un’interpretazione monumentale di Hai Qing, quanto diversa che in Operation Red Sea!) attraversa una vera trasformazione. Ma il finale è triste.
Tutto focalizzato sul marito, la moglie e il loro asino sempre presente, è un film di poche parole e molti silenzi, basato su un forte sentimento del tempo e del lavoro, con al centro la madre terra: la fatica dei gesti, il passare delle stagioni. Sullo sfondo, lo sfruttamento da parte dei potenti (compresa la parte sulle donazioni di sangue) e la campagna del governo per demolire le vecchie case contadine. Sceneggiatura, montaggio e regia sono di Li Ruijun, ma bisogna menzionare anche l’eccezionale lavoro del direttore della fotografia Wang Weihua. Non produce semplicemente l’“immagine bella” (che ormai va a un soldo la dozzina) ma articola la composizione delle inquadrature con eccezionali framing. Ce n’è uno all'inizio – con la testa del Quarto Fratello in primo piano, a sinistra la sua immagine nello specchio e a destra in alto una finestra attraverso la quale vediamo due donne che parlano – da scuola di cinema.

Fa ribaltare dalle risate la commedia di Xing Wenxiong Too Cool to Kill, remake di un film di Koki Mitani. Wei Chonggong è un (pessimo) aspirante attore; l’attrice Milan e suo fratello regista Miller sono nelle grinfie di un boss, che desidera incontrare il killer senza volto Karl per portarlo dalla sua parte. Il guaio è che nessuno lo conosce. Per guadagnare tempo per fuggire, Milan dice di poterglielo presentare. Poi per mantenere la promessa, Miller e Milan convincono Wei che stanno girando un nuovo tipo di film con mdp nascoste e senza copione, a pro della spontaneità – e che lui deve interpretare la parte del killer Karl. Convinto che tutti questi gangster che incontra sono attori del film, Wei si lancia nell’impresa con un entusiasmo eccessivo. In un film ultracitazionista, il riferimento numero uno è John Woo (e Ringo Lam), ma già l'entrata in scena del protagonista è una deliziosa (e coraggiosa, visti i tempi) presa in giro dell'attuale, pomposo cinema bellico-patriottico cinese.
Non è solo una commedia brillantissima alla Billy Wilder, con il classico meccanismo di accumulazione delle menzogne. Il protagonista (Xiang Wei, un nome da tenere presente d’ora in poi) è fenomenale. La sua recitazione si muove su tre piani: il personaggio reale – la parte che interpreta – il suo folle overacting; in più, com’era prevedibile, conosce anche il registro del patetico. Anche se tutti gli attori sono bravi (a partire dalla spiritosa Ma Li che interpreta Milan), Xiang Wei trasforma il film in un one man show. E’ sicuramente uno di quei comici irrefrenabili che hanno bisogno di moltiplicare la propria figura. Oltre alla parodia dello heroic bloodshed, è una girandola di trovate (canta anche Singin’ in the Rain rifacendo la scena del film, senza che ci sia un particolare bisogno di sceneggiatura, solo per esibire le sue abilità). Poi noi abbiamo l'ulteriore bonus di una scena in cui parla italiano.
Anche la regia di Xing Wenxiong si fa notare, perché, in un film che si presta di per sé al discorso “meta”, Xing lo trasporta abilmente sul piano del linguaggio, per esempio con l’uso delle luci cinematografiche in inquadrature “reali” – sto pensando a quella in cui un riflettore si accende e rivela il malvagio Jimmy sul divano sul fondo.

Ci sono poi le coproduzioni fra la Cina continentale e Hong Kong, che permettono budget alti e spalancano le porte di un mercato immenso ma pongono ai cineasti hongkonghesi vari problemi sia di censura sia di adeguamento ai gusti del continente. Caught in Time di Lau Ho-leung – la storia autentica della caccia della polizia cinese, sotto la guida del capitano Zhong Cheng, a un feroce rapinatore omicida, Zhang detto Eagle, negli anni '90 – cerca appunto di incrociare il ricordo dei thriller d’azione di Hong Kong col moralismo obbligatorio della Cina. Visto l'argomento, ci si aspetterebbe un film molto hongkonghese, ma invece questa coproduzione appare più cinese continentale, non solo come ideologia (l’aspetto propagandistico) ma come stile. Voglio dire che vi si ritrova quell'intellettualismo che caratterizza molti noir cinesi, e che però qui appare autocompiaciuto; in ultima analisi inutile, anche perché non è accompagnato da una capacità di dare concretezza umana ai personaggi (ciò che era una caratteristica del cinema hongkonghese). Il capitano Zhong (Wang Qianyuan) è un fantoccio imbronciato che non crea la minima empatia; il crudelissimo Eagle ha il vantaggio di essere interpretato da un attore migliore (Daniel Wu) ma non è molto meglio. Le scene d'azione, ovviamente, sono piuttosto buone, come lo è, sul puro piano fisico, lo scontro finale (peraltro sciocco sul piano narrativo) nello stabilimento dei bagni pubblici.

Altra coproduzione è Schemes in Antiques di Derek Kwok. In passato un traditore cinese, Xu, aveva consegnato ai giapponesi una famosa testa antica di Bodhisattva, pagando con la vita dopo la liberazione. Una discendente del giapponese che l'aveva ricevuta vuole restituirla alla Cina – ma la testa è un falso. Si instaura una gara per ritrovare quella vera – interpretando una serie di indizi nascosti nelle opere d'arte – fra l'ultimo membro della famiglia Xu (un ubriacone che possiede l'occhio infallibile di famiglia) e il giovane discendente della famiglia rivale Yao. Lo scopo per Xu è anche di dimostrare che in realtà suo nonno non era un traditore.
E' tratto da un romanzo cinese, ma c'è qualcosa anche di Indiana Jones, come mostra chiaramente la sequenza del crollo del sotterraneo. Un riferimento in Occidente potrebbe essere la serie di romanzi gialli di John Grant sull'antiquario inglese Lovejoy; in quei romanzi si respira un amore sviscerato per le bellezze d'antiquariato (e un interesse per la loro falsificazione), e lo stesso vale qui: gli oggetti d'arte antica cinese esibiti nel film sono così belli – non importa che secondo la trama molti siano dei falsi – che rappresentano di per sé la maggior attrattiva di tutto il film, troppo intricato per il suo stesso bene. Anche lo spettatore che cessa di seguire la trama può sempre lustrarsi gli occhi su queste meraviglie. E la scena finale in cui la vera testa viene rivelata è certamente impressiva come fotografia dell'oggetto.

sabato 14 maggio 2022

Far East Film Festival 2022: Filippine, Thailandia, Malaysia


Il filippino Leonor Will Never Die, scritto e diretto da Martika Ramirez Escobar, è il colmo in termini di metacinema. Leonor, anziana sceneggiatrice di film d’azione (una strepitosa Sheila Francisco), ormai è fuori dall'industria, è depressa perché vive col figlio Rudie ma sono estraniati, è separata dal marito e rimpiange il figlio morto Ronwaldo, ucciso in un incidente sul set (peraltro, lo vediamo ancora come fantasma). Un incidente manda Leonor in coma, e qui la sua vita si sdoppia: è in coma in ospedale, ma contemporaneamente è anche dentro un film che aveva sceneggiato molto tempo fa ma che non era mai stato girato, e che ha un protagonista di nome Ronwaldo, una sorta di idealizzazione del figlio morto, anche se ovviamente ha un altro volto. Inoltre, adesso Rudie sta cercando di far girare di far girare a una regista action proprio quella vecchia sceneggiatura rimasta nel cassetto. Sono autentiche scatole cinesi di livello narrativo, e questi livelli intersecati comprendono anche il “film base”, Leonor Will Never Die, che li contiene tutti. Infatti si conclude con un’autentica metalessi (svelamento del dispositivo cinematografico) con una canzone cantata da Sheila Francisco, con balletto finale cogli attori di tutti i livelli del film che ballano sorridendo.
Nonostante il suo impianto da seminario narratologico, Leonor Will Never Die è un film popolare. E’ in primo luogo un caldo omaggio alla stagione eroico-ingenua dell’action filippino, lontana dalla raffinatezza attuale alla Erik Matti (le scene di scontro sono realizzate in modo “cinematografico”, cioè i colpi e pugni sono visibilmente finti, e non c’è la minima ricerca di realismo nelle sparatorie). Il film contiene numerose piccole perle, e ne menziono una: un breve dialogo, nel film scritto da Leonor, fra Leonor che ora è dentro il film e una madre cui hanno ammazzato il figlio fa emergere una cosa alla quale non non si pensa mai: la sofferenza dei personaggi di una storia in termini di responsabilità morale dello sceneggiatore/scrittore che li ha creati.

Rabid di Erik Matti è un buon horror in quattro episodi. Una famiglia benestante accoglie in casa per carità una mendicante come donna di servizio – e se ne pentiranno, perché è una strega malvagia, capace di dominare magicamente le sue vittime. Un uomo, nel secondo, in b/n, un uomo cerca di curare la moglie vittima di un'epidemia di zombismo/vampirismo. Un'infermiera menefreghista paga il fio del suo disinteresse verso i pazienti finendo dal suo ospedale in una realtà fantasmatica, lo stesso ospedale ma vuoto, dove la perseguita orribilmente un vecchia che è in coma, ma vivissima qui (da notare l'uso originale dei colori: freddi nelle scene della realtà, caldi e solari nella realtà alternativa – al contrario di quello che ci si aspetterebbe). Nel quarto episodio, con una vena di humour nero e di satira, una donna che ha perso il lavoro quando la sua ditta ha chiuso il settore marketing per la pandemia cerca di reinventarsi come cuoca vendendo sul web un suo piatto filippino (kare kare), e fallisce finché non trova online una ricetta segreta condita di formula magica; ma, come si dice, la farina del diavolo va tutta in crusca.
Il Covid è inserito abilmente in tutti gli episodi, sia a livello immediato (nel primo una ragazza in fuga chiede aiuto a due passanti e questi non vogliono ascoltarla perché non ha la mascherina e greenpass) sia a livello metaforico con il discorso dell’invasione e della perdita.

Parlando di Erik Matti, va segnalato – già passato a Venezia, con Coppa Volpi a John Arcilla – il bellissimo On the Job: The Missing 8, un seguito praticamente indipendente del suo On the Job del 2013. Potrebbe essere il miglior film di Matti in assoluto. Nella città dal nome ironico di La Paz, il terribile boss Eusebio, il sindaco, è un difensore della legge e ordine a tutti i costi (non è difficile vederci una frecciata al presidente Duterte) – ma in realtà ordina crimini e delitti utilizzando i prigionieri del penitenziario, che vengono fatti uscire di nascosto come nel film precedente, e la polizia locale corrotta. Quando i suoi uomini compiono un massacro di suoi amici, il suo ammiratore Sisoy, un giornalista incline al compromesso, passa dall'altra parte della barricata. Nel film, che dura ben 3 ore e 27', c'è l'ambizione di costruire un grande affresco di corruzione e di analizzare in dettaglio gli effetti che essa può avere su una personalità; ma Erik Matti non perde mai di vista l'obiettivo di fare grande cinema popolare. Le scene di violenza sono ottimamente eseguite (da menzionare almeno, nella seconda parte, la rivolta nel penitenziario, con la pagina assai tesa della sua preparazione). Inutile dire che c’è un aggancio molto forte con la tragica realtà effettuale delle Filippine. Da notare l'uso insistito del montaggio metaforico e della discordanza fra score musicale e visuali.

Reroute di Lawrence Fajardo è un thriller in b/n (la bella fotografia è di Joshua A. Reyles) con forti tono erotici. In campagna, una coppia litigiosa è costretta da un blocco stradale a prendere una deviazione. Lui (Sid Lucero) è, vediamo subito, un imbecille aggressivo; sua moglie Trina (la bella Cindy Miranda) lo sa, ma lo ama, anche se litigano. Come di prammatica l’auto si guasta in mezzo al nulla. Vengono soccorsi da un uomo dal viso piuttosto cupo, che sembra normale e tuttavia ha in sé qualcosa di inquietante (una buona interpretazione di John Arcilla), il quale li porta a casa sua, dove c’è la sua taciturna moglie Lala (Nathalie Hart).
Avrete indovinato il resto. Come concetto il film è fortemente debitore di tutti gli horror e thriller di deviazioni in mezzo al nulla (regola: mai prenderle!) ma ciò che lo solleva è l’energia che Fajardo (anche editor) ci mette dentro… c’è anche una sodomizzazione in puro stile Un tranquillo weekend di paura… e naturalmente le interpretazioni convincenti.

Spostandoci in Thailandia, l'ottimo One for the Road di Baz Poonpiriya è un mélo sulla nostalgia e sul passato, e sul recupero degli errori commessi, in una narrazione a molti livelli, di cui qui accenno solo a quello principale. Il film è prodotto da Wong Kar Wai, e si vede bene.
E’ un classico viaggio tanto fisico, nello spazio materiale, quanto mentale, nella memoria (cinematograficamente, nel flashback). Aood sta morendo e fa tornare dall'America il suo prepotente amico Boss, barista in un bar di lusso, perché lo accompagni (facendogli da autista) in un viaggio per rivedere le sue ex fidanzate e chiudere i conti con loro. Su questo viaggio – dove la focalizzazione è su Boss – si proietta l'ombra del padre di Aood, morto da anni: era un famoso DJ, di cui i due amici ascoltano le cassette in viaggio.
Di questa missione poco fortunata menziono solo, perché aiuta a capire la vivezza del film, l'incontro con una delle ragazze che è diventata una star; la vediamo vestita da sposa e ci chiediamo: flashback? Invece è la scena di un film, in cui lei all'altare spara al suo promesso sposo (con volo di colombi alla John Woo!). Ma Aood che assiste ha sulla maglia il buco di una pallottola che sanguina... per un momento: era una visualizzazione. Dopo la scena, c'è un grande discorso fiero di lei su come il dolore aiuti a recitare; però i due, andando via in auto, gettano uno sguardo segreto a lei che piange da sola.
Questo viaggio psicologico-sentimentale comprende anche il chiudere i conti con la memoria del padre. Nota che (altro esempio di queste belle visualizzazioni simboliche) dopo aver disperso le sue ceneri i due vengono sorpassati da un'auto – sulla quale c'è il padre, che fa un gesto di saluto. Ma quando i questi conti sono stati chiusi, pensiamo che il film logicamente debba finire; eppure ecco che arriva uno straordinario rovesciamento di prospettiva; se prima vedevamo la storia di Aood attraverso gli occhi di Boss, adesso vediamo la storia di Boss. Aood gli rivela un torto che gli aveva fatto a New York anni prima (e per il quale vuole chiedergli scusa). Ciò produce una ridefinizione della storia che stiamo vedendo nel film, la cui narrazione ora diventa ancora più fortemente anacronica. La faccenda riguarda Prim, la ragazza di cui entrambi erano innamorati, e che l'arrogante Boss ha perso. Qui l'azione si concentra a New York, fra ristoranti etnici e bar (risuona la battuta “A bar is not a place. A bar is the bartender”); per inciso, One for the Road, che vuol dire “il bicchiere della staffa” ma è pure il nome del locale di Boss, è anche un film sui cocktail.
In perfetto stile mélo, One for the Road è un percorso di perdita e pentimento. Nel bel finale, un gioco articolato di direzioni e cartelli sposta il racconto su un piano vagamente irreale, confermato come tale da un'apparizione di Aood (che è morto). Una libertà narrativa che non si può non amare.

Cracked di Surapong Ploensang è un buon horror thailandese serio e solido. Una donna con la figlia malata agli occhi (nota le soggettive “offuscate” della bambina) si trasferisce da New York alla Thailandia in una casa ereditata dal padre pittore. Il film potrebbe ricordare l'indonesiano Death Knot per la casa ereditata e l'avvertimento spettrale “Non tornare!”, ma è migliore, e prende un'altra strada, relativa a fantasmi, un'antica storia di sadismo e due quadri (a tema erotico) maledetti. Il titolo Cracked allude sia alla follia sia alle crepe che compaiono sulla superficie dei quadri.
Il film fa fare dei soprassalti ma non è solo una collezione di jump scares. E' un horror alla Pupi Avati per l'uso evocativo della casa piena di vecchi oggetti, e in particolare dei quadri (e c'è un ricordo avatiano ancora più preciso, forse una citazione diretta, ma sarebbe spiacevole fare spoiler). La rivelazione del mistero che sta dietro questa infestazione spettrale è molto logica – e di estrema crudeltà. Come in molti buoni horror, al centro dell'orrore sta il dolore umano.

Infine, dalla Malaysia, The Devil’s Deception di Khabir Bhatia. Hajar, incinta di nove mesi, si reca in una villa isolata assieme al detestabile marito; pensano di dar via il bambino dopo la nascita (lei ha cercato invano di abortire). Nella villa c’è l’ambigua Junaidah, che diventa alleata di Hajar – o forse no? Hajar ha un complesso di colpa per la morte del fratellino, perso di vista, quand’era ragazzina. Subito piovono allucinazioni e visioni spettrali. Un difetto del film è nella prima parte è piuttosto ovvio: i suoi jump scares sono alquanto banali, tant’è vero che ricorre spesso all’abusato espediente del sogno/risveglio. Sul lato positivo, c’è un discreto gioco interpretativo a due fra Azira Shafinaz (Hajar) e l’ottima Nasha Aziz, la migliore del film (Junaidah). Più banale come figura, ma divertente nella sua esagerazione carognesca, Amir Nafis nel ruolo del marito; c’è poi un quarto personaggio, Nasir (Zul Ariffin), nel ruolo del forzuto sfregiato (poteva mancare?). Il film sembra una storia di fantasmi, somministrati in CGI con liberalità, ma il nome di Iblis (il diavolo) già nel titolo originale Talbis Iblis ci annuncia che c’è molto di più. E infatti la parte finale del film diventa una vera tregenda con un’esplosione satanica scatenata.
E’ sempre interessante vedere il diavolo inserito nella tradizione musulmana. Quando, tutto mostruoso, ringhia “Io sono più onorevole di voi! Dio mi ha creato dal fuoco! Voi dalla terra!”, questa non è un'invenzione degli sceneggiatori ma è purissima tradizione islamica, che vede proprio in questo il motivo della Caduta, col rifiuto del diavolo di onorare Adamo che ritiene inferiore a sé. Musulmano è anche il concetto assoluto del potere di Allah, al quale anche il diavolo deve obbedire (da noi L'esorcista faticava di più). Tuttavia, la conclusione a sorpresa è puro Rosemary’s Baby.