Il
filippino Leonor Will Never Die, scritto
e diretto da Martika Ramirez
Escobar, è il colmo in termini di metacinema. Leonor, anziana
sceneggiatrice di film d’azione (una strepitosa Sheila Francisco),
ormai è fuori dall'industria, è
depressa perché vive col figlio Rudie ma sono estraniati, è
separata dal marito e rimpiange il figlio morto Ronwaldo, ucciso
in un incidente sul set
(peraltro, lo vediamo ancora
come fantasma). Un incidente manda Leonor in coma, e qui la
sua vita si sdoppia: è in coma in ospedale, ma contemporaneamente è
anche dentro un film che aveva sceneggiato molto tempo fa ma che non
era mai stato girato, e che ha un protagonista di nome Ronwaldo, una
sorta di idealizzazione del figlio morto,
anche se ovviamente ha un
altro volto. Inoltre,
adesso Rudie sta cercando di far girare di
far girare a una regista action proprio quella vecchia
sceneggiatura rimasta nel cassetto. Sono
autentiche scatole cinesi di livello narrativo, e
questi livelli intersecati comprendono anche il “film base”,
Leonor Will Never Die, che li contiene tutti. Infatti
si conclude
con un’autentica metalessi (svelamento del dispositivo
cinematografico) con una
canzone cantata da Sheila
Francisco, con balletto
finale cogli attori di tutti
i livelli del film che ballano sorridendo.
Nonostante
il suo impianto da seminario narratologico, Leonor
Will Never Die è un film popolare. E’ in primo luogo
un caldo omaggio alla stagione eroico-ingenua dell’action
filippino, lontana dalla raffinatezza attuale alla Erik Matti (le
scene di scontro sono realizzate in modo
“cinematografico”, cioè i colpi e pugni sono visibilmente finti,
e non c’è la minima
ricerca di realismo nelle sparatorie).
Il film contiene
numerose piccole perle, e ne menziono una: un
breve dialogo,
nel film scritto da Leonor,
fra Leonor che ora è dentro
il film e una
madre cui hanno ammazzato il
figlio fa
emergere una cosa alla quale non non
si pensa mai: la sofferenza
dei personaggi di una storia in termini di responsabilità morale
dello sceneggiatore/scrittore che li ha creati.
Rabid
di Erik Matti è un buon horror in quattro episodi. Una famiglia
benestante accoglie in casa per carità una mendicante come donna di
servizio – e se ne pentiranno, perché è una strega malvagia,
capace di dominare magicamente le sue vittime. Un uomo, nel secondo,
in b/n, un uomo cerca di curare la moglie vittima di un'epidemia di
zombismo/vampirismo. Un'infermiera menefreghista paga il fio del suo
disinteresse verso i pazienti finendo dal suo ospedale in una realtà
fantasmatica, lo stesso ospedale ma vuoto, dove la perseguita
orribilmente un vecchia che è in coma, ma vivissima qui (da notare
l'uso originale dei colori: freddi nelle scene della realtà, caldi e
solari nella realtà alternativa – al contrario di quello che ci si
aspetterebbe). Nel quarto episodio, con una vena di humour nero e di
satira, una donna che ha perso il lavoro quando
la sua ditta ha chiuso il settore marketing per la pandemia
cerca di reinventarsi come cuoca vendendo sul web un suo piatto
filippino (kare kare), e fallisce finché non trova online una
ricetta segreta condita di formula magica; ma, come si dice, la
farina del diavolo va tutta in crusca.
Il
Covid è inserito abilmente in tutti gli episodi, sia a livello
immediato (nel primo una ragazza in fuga chiede aiuto a due passanti
e questi non vogliono ascoltarla perché non ha la mascherina e
greenpass) sia a livello metaforico con il discorso dell’invasione
e della perdita.
Parlando di Erik Matti, va segnalato – già passato a Venezia, con Coppa Volpi a John Arcilla – il bellissimo On the Job: The Missing 8, un seguito praticamente indipendente del suo On the Job del 2013. Potrebbe essere il miglior film di Matti in assoluto. Nella città dal nome ironico di La Paz, il terribile boss Eusebio, il sindaco, è un difensore della legge e ordine a tutti i costi (non è difficile vederci una frecciata al presidente Duterte) – ma in realtà ordina crimini e delitti utilizzando i prigionieri del penitenziario, che vengono fatti uscire di nascosto come nel film precedente, e la polizia locale corrotta. Quando i suoi uomini compiono un massacro di suoi amici, il suo ammiratore Sisoy, un giornalista incline al compromesso, passa dall'altra parte della barricata. Nel film, che dura ben 3 ore e 27', c'è l'ambizione di costruire un grande affresco di corruzione e di analizzare in dettaglio gli effetti che essa può avere su una personalità; ma Erik Matti non perde mai di vista l'obiettivo di fare grande cinema popolare. Le scene di violenza sono ottimamente eseguite (da menzionare almeno, nella seconda parte, la rivolta nel penitenziario, con la pagina assai tesa della sua preparazione). Inutile dire che c’è un aggancio molto forte con la tragica realtà effettuale delle Filippine. Da notare l'uso insistito del montaggio metaforico e della discordanza fra score musicale e visuali.
Reroute
di Lawrence Fajardo è un thriller in b/n (la bella fotografia è di
Joshua A. Reyles) con forti tono erotici. In campagna, una coppia
litigiosa è costretta da un blocco stradale a prendere una
deviazione. Lui (Sid Lucero) è, vediamo subito, un imbecille
aggressivo; sua moglie Trina (la bella Cindy Miranda) lo sa, ma lo
ama, anche se litigano. Come di prammatica l’auto si guasta in
mezzo al nulla. Vengono soccorsi da un uomo dal viso piuttosto cupo,
che sembra normale e tuttavia ha in sé qualcosa di inquietante (una
buona interpretazione di John Arcilla), il quale li porta a casa sua,
dove c’è la sua taciturna moglie Lala (Nathalie Hart).
Avrete
indovinato il resto. Come concetto il film è fortemente debitore di
tutti gli horror e thriller di deviazioni in mezzo al nulla (regola:
mai prenderle!) ma ciò che lo solleva è l’energia che Fajardo
(anche editor) ci mette dentro… c’è anche una sodomizzazione in
puro stile Un tranquillo weekend di paura… e naturalmente le
interpretazioni convincenti.
Spostandoci
in Thailandia, l'ottimo One for the Road di Baz Poonpiriya è un mélo
sulla nostalgia e sul passato, e sul recupero degli errori commessi,
in una narrazione a molti livelli, di cui qui accenno solo a quello
principale. Il film è prodotto da Wong Kar Wai, e si vede bene.
E’
un classico viaggio tanto fisico, nello spazio materiale, quanto
mentale, nella memoria (cinematograficamente, nel flashback). Aood
sta morendo e fa tornare dall'America il suo prepotente amico Boss,
barista in un bar di lusso, perché lo accompagni (facendogli da
autista) in un viaggio per rivedere le sue ex fidanzate e chiudere i
conti con loro. Su questo viaggio – dove la focalizzazione è su
Boss – si proietta l'ombra del padre di Aood, morto da anni: era un
famoso DJ, di cui i due amici ascoltano le cassette in viaggio.
Di
questa missione poco fortunata menziono solo, perché aiuta a capire
la vivezza del film, l'incontro con una delle ragazze che è
diventata una star; la vediamo vestita da sposa e ci chiediamo:
flashback? Invece è la scena di un film, in cui lei all'altare spara
al suo promesso sposo (con volo di colombi alla John Woo!). Ma Aood
che assiste ha sulla maglia il buco di una pallottola che sanguina...
per un momento: era una visualizzazione. Dopo la scena, c'è un
grande discorso fiero di lei su come il dolore aiuti a recitare; però
i due, andando via in auto, gettano uno sguardo segreto a lei che
piange da sola.
Questo
viaggio psicologico-sentimentale comprende anche il chiudere i conti
con la memoria del padre. Nota che (altro esempio di queste belle
visualizzazioni simboliche) dopo aver disperso le sue ceneri i due
vengono sorpassati da un'auto – sulla quale c'è il padre, che fa
un gesto di saluto. Ma quando i questi conti sono stati chiusi,
pensiamo che il film logicamente debba finire; eppure ecco che arriva
uno straordinario rovesciamento di prospettiva; se prima vedevamo la
storia di Aood attraverso gli occhi di Boss, adesso vediamo la storia
di Boss. Aood gli rivela un torto che gli aveva fatto a New York anni
prima (e per il quale vuole chiedergli scusa). Ciò produce una
ridefinizione della storia che stiamo vedendo nel film, la cui
narrazione ora diventa ancora più fortemente anacronica. La faccenda
riguarda Prim, la ragazza di cui entrambi erano innamorati, e che
l'arrogante Boss ha perso. Qui l'azione si concentra a New York, fra
ristoranti etnici e bar (risuona la battuta “A bar is not a place.
A bar is the bartender”); per inciso, One for the Road, che vuol
dire “il bicchiere della staffa” ma è pure il nome del locale di
Boss, è anche un film sui cocktail.
In
perfetto stile mélo, One for the Road è un percorso di perdita e
pentimento. Nel bel finale, un gioco articolato di direzioni e
cartelli sposta il racconto su un piano vagamente irreale, confermato
come tale da un'apparizione di Aood (che è morto). Una libertà
narrativa che non si può non amare.
Cracked
di Surapong Ploensang è
un buon horror thailandese serio e solido. Una donna con la figlia
malata agli occhi (nota le soggettive “offuscate” della bambina)
si trasferisce da New York alla Thailandia in una casa ereditata dal
padre pittore. Il film potrebbe ricordare l'indonesiano Death Knot
per la casa ereditata e l'avvertimento spettrale “Non tornare!”,
ma è migliore, e prende un'altra strada, relativa a fantasmi,
un'antica storia di sadismo e due quadri (a
tema erotico)
maledetti. Il titolo Cracked allude sia alla follia sia alle crepe
che compaiono sulla superficie dei quadri.
Il
film fa fare dei soprassalti ma non è solo una collezione di jump
scares. E' un horror alla Pupi Avati per l'uso evocativo della casa
piena di vecchi oggetti, e in particolare dei quadri (e c'è un
ricordo avatiano ancora più preciso, forse una citazione diretta, ma
sarebbe spiacevole fare spoiler). La rivelazione del mistero che sta
dietro questa infestazione spettrale è molto logica – e di estrema
crudeltà. Come in molti buoni horror, al centro dell'orrore sta il
dolore umano.
Infine,
dalla Malaysia, The Devil’s Deception di Khabir Bhatia. Hajar,
incinta di nove mesi, si reca in una villa isolata assieme al
detestabile marito; pensano di dar via il bambino dopo la nascita
(lei ha cercato invano di abortire). Nella villa c’è l’ambigua
Junaidah, che diventa alleata di Hajar – o forse no? Hajar ha un
complesso di colpa per la morte del fratellino, perso di vista,
quand’era ragazzina. Subito piovono allucinazioni e visioni
spettrali. Un difetto del film è nella prima parte è piuttosto
ovvio: i suoi jump scares sono alquanto banali, tant’è vero che
ricorre spesso all’abusato espediente del sogno/risveglio. Sul lato
positivo, c’è un discreto gioco interpretativo a due fra Azira
Shafinaz (Hajar) e l’ottima Nasha Aziz, la migliore del film
(Junaidah). Più banale come figura, ma divertente nella sua
esagerazione carognesca, Amir Nafis nel ruolo del marito; c’è poi
un quarto personaggio, Nasir (Zul Ariffin), nel ruolo del forzuto
sfregiato (poteva mancare?). Il film sembra una storia di fantasmi,
somministrati in CGI con liberalità, ma il nome di Iblis (il
diavolo) già nel titolo originale Talbis Iblis ci annuncia che c’è
molto di più. E infatti la parte finale del film diventa una vera
tregenda con un’esplosione satanica scatenata.
E’
sempre
interessante vedere il diavolo inserito nella tradizione musulmana.
Quando, tutto mostruoso, ringhia “Io
sono più onorevole di voi! Dio mi ha creato dal fuoco! Voi dalla
terra!”, questa
non è un'invenzione degli sceneggiatori ma è purissima tradizione
islamica, che vede proprio in questo il motivo della Caduta, col
rifiuto del diavolo di onorare Adamo che
ritiene inferiore
a
sé.
Musulmano
è anche il concetto assoluto del potere di Allah, al
quale anche il diavolo deve obbedire
(da noi L'esorcista faticava di più). Tuttavia,
la
conclusione a
sorpresa è
puro Rosemary’s Baby.
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