venerdì 25 dicembre 2020

The Old Guard

 Gina Prince-Bythewood

Un gruppo di supereroi senza mantellina e costumi super-kitsch è sempre uno spettacolo rinfrescante. Li incontriamo nel film di Gina Prince-Bythewood The Old Guard, che è tratto da una serie a fumetti scritta da Greg Rucka (anche sceneggiatore del film) e disegnata con ottime scene di battaglia da Leandro Fernandez. Il film mette in scena un percorso di scoperta progressiva, con l'apertura che vellica la curiosità degli spettatori mostrando i protagonisti tutti morti, ammazzati in un agguato. Non che lo restino a lungo: poiché si tratta di un piccolo gruppo di guerrieri immortali, che ipso facto ritornano in vita. Bella, in particolare, la resurrezione della leader del gruppo, Andy (Charlize Theron): l'occhio sbarrato del cadavere è riflesso nel pavimento lucido, vediamo la pupilla che si contrae, dopo di che lei si rialza e assieme ai suoi compagni fa polpette degli “uccisori”. A questa versatile attrice, che si esibisce in vivaci scene di combattimento, spetta il ruolo di protagonista: Andy è Andromaca di Scizia, ha 6000 anni, e la sua storia millenaria si è trascolorata in leggenda (e sì, fra l'altro è proprio l'Andromaca di Racine). Il guaio è che vuole catturarli – per vivisezionarli alla ricerca di un rimedio contro invecchiamento e malattie – un pezzo grosso di “Big Pharma” (che è poco popolare di questi tempi, ma fra tanti peccati questo non ce l'eravamo immaginato).
Lo sguardo di scoperta dello spettatore si fonde con quello soggettivo della co-protagonista Nile (Kiki Layne), una sottufficiale dei Marines che muore sgozzata in Afghanistan – e poi nell'infermeria si risveglia dalla morte di botto come un vampiro. Il film rende bene il suo smarrimento e l'isolamento in cui si ritrova (gli sguardi impauriti e ostili dei commilitoni, a partire dalle sue compagne più strette). Viene “recuperata”, con le cattive maniere, dal gruppo degli immortali; e qui compare una delle differenze ineliminabili tra i film e la vita reale. In entrambi, in una situazione simile uno avrebbe diritto a una spiegazione: ma in un film non si può dire “Adesso, figliola, sediamoci con calma e ti spiego tutto. Ci vorranno solo dieci minuti”. Ne morirebbe il ritmo, e si rovinerebbe la necessaria ignoranza degli spettatori, che amano essere edotti a tappe. Per questo nei film del genere i detentori della verità parlano in modo ellittico e criptico da Sibilla Cumana.
Quando il quadro si precisa, non manca il discorso su come un immortale debba soffrire nel veder invecchiare e morire le persone amate (questo viene da Highlander, che naturalmente era più incisivo e poetico). Così Nile entra, un po' riluttante, nella compagnia. Invero in questa parte lei spara alcune stupidaggini pacifiste/nonviolente che ci fanno temere che il film vada a rotoli, ma per fortuna quest'atteggiamento dura poco. Al contrario, la morale che attraversa il film è puramente western: “Let's get the motherfucker!”
Privo di intenti autoriali alla Nolan ma realizzato con professionalità, il film è piacevole e si giova di una buona caratterizzazione dei personaggi, dalla cupa Andy/Andromaca alla sconvolta neofita Nile ai due amanti gay reduci delle Crociate: un moro (Marwan Kenzari), che sentiamo fare una bella dichiarazione d'amore debitrice della poesia araba, e un italiano (Luca Marinelli, che sarà Diabolik nel prossimo film dei Manetti Bros.). Naturalmente qui siamo nel campo dell'action, ben messa in scena (benché non si raggiunga la bravura di Michael Bay nel memorabile 6 Underground), con sparatorie e mazzate e un bel dialogo “da duri”; ma un certo approfondimento psicologico non guasta. Il finale dice, anzi grida “State pronti per un secondo episodio” e lo si può attendere con piacere.

venerdì 11 dicembre 2020

Mank

David Fincher 

Dai giornali del 7 dicembre: Netflix ha rifiutato di aggiungere un disclaimer, com'era stato chiesto, alla serie tv The Crown: “Siamo sicuri che i nostri abbonati capiscono che la serie è un'opera di fiction basata su avvenimenti storici”. Esattamente lo stesso si può dire di Mank di David Fincher, che mette in scena – da una vecchia sceneggiatura di suo padre Jack Fincher – quel periodo nel 1940 in cui lo sceneggiatore Hermann Mankiewicz, alcoolizzato e costretto a letto da un incidente, sta scrivendo per Orson Welles quello che diventerà Citizen Kane (Quarto potere), con molti flashback sulla Hollywood degli anni Trenta.
Da che esistono i film di fiction esiste la guerra fra sceneggiatori e registi per rivendicarne la paternità. Chi è il vero autore di Quarto potere? Nel 1971 la critica Pauline Kael scrisse un saggio che prendeva posizione per Mankiewicz contro Welles (senza sorpresa Welles la detestava, e ne fa una parodia spietata in The Other Side of the Wind). E' fondamentalmente la stessa posizione che ritroviamo in Mank – dove Orson Welles appare pressoché come uno dei numerosi villains del film.
Chiariamo: la tesi della Kael era già debole all'epoca e oggi è ampiamente svalutata. E' vero che Mankiewicz scrisse il grosso della sceneggiatura, inventando il travestimento di William Randolph Hearst e Marion Davies nelle figure di Charles Foster e Susan Kane (e quindi è altrettanto vero che si rese responsabile di un basso tradimento verso la sua amica Marion Davies); ma Quarto potere è Quarto potere grazie a Welles, non a Mankiewicz. Altri dettagli storici in Mank sono ancora meno fondati. Tuttavia, Mank è – torniamo al discorso del mancato disclaimer – un'opera di finzione, e come tale va giudicata, non un saggio storico (poi gli spettatori penseranno di aver visto la vera storia di Hollywood, ma succede sempre così).
Il problema del (pur attraente) film di Fincher è un altro: non la falsità del presupposto ma le caratterizzazioni dei personaggi (in massima parte storici), che sono molto stereotipati e a volte sfiorano la caricatura. Vale per i cattivissimi (Louis B. Mayer, Irvin Thalberg e, ça va sans dire, W.R. Hearst) e ancor di più per gli “ambigui”: il fratello Joseph Mankiewicz (il futuro grande regista) e peggio di tutti John Houseman, una caratterizzazione di assoluta vacuità. La scoperta di Mank è che questi uomini erano avidi, avevano più pelo sullo stomaco di un grizzly, ed erano repubblicani – anzi, capaci di far girare un cinegiornale di fake news per sabotare l'elezione del socialista Upton Sinclair a governatore della California. Big deal.
Nota in margine. In Myra Breckinridge di Gore Vidal, ironicamente ma neanche tanto, si paragona la Hollywood classica all'Atene di Pericle. Quello che sarebbe stato più interessante era chiedersi non se Hollywood era una fabbrica di illusioni (lo era) ma come mai produceva capolavori dell'illusione (ovvero: il funzionamento della macchina e il fiuto per dirigerla). Su questo Mank fallisce nell'unica scena che poteva darne un barlume – la riunione con David O. Selznick a proposito di un film di Frankenstein – che è la più goffa del film.
Gli interpreti, a partire da un Gary Oldman quasi naturalistico, fortunatamente sono buoni, e fanno il possibile per render vivo il loro personaggio. Una menzione particolare a Charles Dance che riesce a dare una profondità a Hearst attraverso l'espressione (sarebbe sleale annotare che tutto ciò è una pallida ombra rispetto, non solo a Kane/Hearst, ma a qualsiasi personaggio di Quarto potere). Va anche ricordato l'Orson Welles di Tom Burke per il suo eccellente lavoro sulla voce: quella che sentiamo nel film è proprio la voce calda di Welles che abbiamo sentito mille volte, dal cinema alla radio (nelle registrazioni) alla pubblicità. Ed è ottima Amanda Seyfried nei panni di una dolente Marion Davies, vittima predestinata – non per nulla la sua prima comparsa nel film è su un rogo alla Giovanna d'Arco. 
Una contraddizione rispetto al didatticismo delle caratterizzazioni è che nel film le necessarie didascalie di tempo e luogo appaiono nella classica forma delle note di sceneggiatura battute a macchina – non solo, si presume, per adattarsi all'argomento, che è il lavoro di uno sceneggiatore, ma per marcare il carattere di fiction proprio del cinema.
Quel che è vivo in Mank è l'abilità della messa in scena e della regia di Fincher. Ci sono nel film varie pagine ricche di fascino. Bello L.B. Mayer che (è il suo momento più corposo) piangendo lacrime di coccodrillo va a chiedere ad attori e maestranze di ridursi la paga, e ci riesce. Bello quel night club dalle luci vagamente espressioniste dove (con un momento di frenetico montage inusuale nel film) un tabellone sancisce la sconfitta di Upton Sinclair. Bella la malinconica passeggiata di Marion Davies in compagnia di Mankiewicz fuori dal palazzo gigantesco, dove può entrare anche il vago fellinismo di Marion Davies sul bordo della fontana.
Con una scelta che potrebbe apparire schizofrenica, Fincher – dopo avere spezzato una foresta di lance in favore di Mankiewicz – rende omaggio a Welles sul piano della realizzazione. Il film (naturalmente in b/n) riproduce stilemi dichiaratamente wellesiani, dai grandangoli alle famose inquadrature dal basso che comprendono il soffitto. Naturalmente anche la struttura a flashback fa pensare a Quarto potere, benché senza la sua genialità. In effetti è evidente che Fincher si sta confrontando con l'ingombrante figura di Welles: non lo usa solo come personaggio ma mira a realizzare una sorta di Quarto potere di Quarto potere. Vedi la scena in cui Hearst e Mankiewicz totalmente ubriaco si aggirano per Xanadu... ovvero San Simeon, che di Xanadu fu il modello.
Il cinema di David Fincher è un cinema di isolamento e di panorami di sopraffazione. Non solo la condizione del protagonista, bloccato in mezzo al deserto, ma tutta la Hollywood di David Fincher (malgrado i difetti di cui sopra) rientra perfettamente nei suoi angosciosi labirinti esistenziali, onde questo film si inserisce pienamente nella sua filmografia. Appare difficile tuttavia dire che ne rappresenti uno dei vertici.


  

 

domenica 6 dicembre 2020

Elegia americana

Ron Howard

Elegia americana in originale è Hillbilly Elegy, che specifica l'ambientazione fra i bianchi poveri del Nordest (si svolge nel Kentucky). Saltando di continuo fra il 1997 e il 2011, il film è un romanzo di formazione sulla vita del futuro avvocato J.D. Vance (tratto dalla sua autobiografia). Da ragazzo vive in povertà tra una madre psichicamente borderline (Amy Adams) e una nonna (Glenn Close) saggia e super-determinata – la scena in cui mette a posto gli amici stronzetti del nipote è gustosissima, e ha un barlume di Clint Eastwoood. Cresciuto e in procinto di intraprendere la carriera legale, J.D. ritorna provvisoriamente a casa – chiamato dalla sorella maggiore – per una crisi della madre, caduta nella droga, che è andata in overdose ed è in ospedale. Il montatore si danna l'anima per inventarsi raccordi che diano forza a questo spostarsi fra un'epoca e l'altra (per esempio, telecomando/cellulare), e non sempre ci riesce.
Questo film ha fatto andare fuori dai gangheri molta critica americana, che lo ha attaccato con una veemenza come se fosse stato diretto da Donald Trump (con gli intellettuali americani si va sempre a finire lì). Ma è così brutto? No. E' il peggior film d Ron Howard? No (non dimentichiamo che Ron Howard ha girato Inferno). E' un'opera un po' vecchio stampo, un drammone familiare che avrebbe potuto essere realizzato (con qualche parolaccia in meno) nel 1958, con Bette Davis nella parte della nonna e Olivia De Havilland in quella della madre. All'antica sono anche i suoi valori, fondati sui buoni sentimenti e sulla perseveranza (mai arrendersi, mai autocompiangersi), che purtroppo oggi sono fuori moda all'epoca della “cultura del piagnisteo” (Robert Hughes). A pensar male (Andreotti diceva che si fa peccato ma ci si coglie), sono proprio questi che hanno fatto arrabbiare i critici.
Certo, la descrizione dei bianchi poveri del Kentucky non ha affatto la forza e la drammaticità che avrebbe potuto: il film è più Elegy che Hillbilly. Solo all'inizio si coglie il senso di povertà diffusa, mentre nel resto del film sembra piuttosto un fatto individuale. Ma Ron Howard (regista artigianale per eccellenza, legato alla sceneggiatura) non è Paul Thomas Anderson; e del resto, non manca di spuntare qua e là qualche tocco indovinato, come l'inizio già citato, o il funerale del nonno, dove tutti al passare delle auto si scoprono, e la nonna spiega a J.D: “Siamo gente di montagna, tesoro. Rispettiamo i nostri morti”. Alcuni buoni dettagli accadono di scorcio – per esempio un flashback, narrazione della dalla sorella, che ridefinisce la figura del nonno come il protagonista la conosceva.
Le due attrici sono in gara con la classica interpretazione mirata all'Oscar. Se Glenn Close (umanissima vecchia malandata, sigaretta in bocca e linguaggio sboccato) è indiscutibile, di Amy Adams è stato detto che carica troppo la sua interpretazione: ma si ha l'impressione che questa critica confonda l'attrice con il personaggio. Semmai il problema di questi film “di mostri sacri” è che essi rischiano di oscurare gli altri protagonisti. Anche qui, Gabriel Basso (J.D. adulto) risulta alquanto sbiadito; come prevedibile, è più convincente Owen Asztalos (J.D. ragazzino), che rende bene il mix di disperazione e incoscienza di chi vive quella situazione a quell'età.