David Fincher
Dai
giornali del 7 dicembre: Netflix ha rifiutato di aggiungere un
disclaimer, com'era stato chiesto, alla serie tv The Crown:
“Siamo
sicuri che i nostri abbonati capiscono che la serie è un'opera di
fiction basata su avvenimenti storici”. Esattamente
lo stesso si può dire di Mank
di David Fincher, che mette in scena – da una vecchia sceneggiatura
di suo padre Jack Fincher – quel periodo nel 1940 in cui lo
sceneggiatore Hermann Mankiewicz, alcoolizzato e costretto a letto da
un incidente, sta scrivendo per Orson Welles quello che diventerà
Citizen Kane (Quarto
potere), con molti flashback
sulla Hollywood degli anni Trenta.
Da
che esistono i film di fiction esiste la guerra fra sceneggiatori e
registi per rivendicarne la paternità. Chi è il vero autore di Quarto potere? Nel
1971 la critica Pauline Kael scrisse un saggio che prendeva posizione
per Mankiewicz contro Welles (senza sorpresa Welles la detestava, e
ne fa una parodia spietata in The Other Side of the Wind).
E' fondamentalmente la stessa posizione che ritroviamo in Mank – dove Orson Welles appare pressoché come uno dei numerosi villains del film.
Chiariamo: la tesi
della Kael era già debole all'epoca e oggi è ampiamente svalutata.
E' vero che Mankiewicz scrisse il grosso della sceneggiatura,
inventando il travestimento di William Randolph Hearst e Marion
Davies nelle figure di Charles Foster e Susan Kane (e quindi è
altrettanto vero che si rese responsabile di un basso tradimento
verso la sua amica Marion Davies); ma Quarto potere è Quarto potere grazie a Welles, non a Mankiewicz. Altri dettagli storici
in Mank sono ancora meno fondati. Tuttavia, Mank è –
torniamo al discorso del mancato disclaimer – un'opera di finzione,
e come tale va giudicata, non un saggio storico (poi gli spettatori
penseranno di aver visto la vera storia di Hollywood, ma succede
sempre così).
Il problema del (pur
attraente) film di Fincher è un altro: non la falsità del
presupposto ma le caratterizzazioni dei personaggi (in massima parte
storici), che sono molto stereotipati e a volte sfiorano la
caricatura. Vale per i cattivissimi (Louis B. Mayer, Irvin Thalberg
e, ça va sans dire, W.R. Hearst) e ancor di più per gli
“ambigui”: il fratello Joseph Mankiewicz (il futuro grande
regista) e peggio di tutti John Houseman, una caratterizzazione di
assoluta vacuità. La scoperta di Mank è che questi uomini
erano avidi, avevano più pelo sullo stomaco di un grizzly, ed erano
repubblicani – anzi, capaci di far girare un cinegiornale di fake
news per sabotare l'elezione del socialista Upton Sinclair a
governatore della California. Big deal.
Nota in margine. In Myra Breckinridge di Gore Vidal, ironicamente ma neanche
tanto, si paragona la Hollywood classica all'Atene di Pericle. Quello
che sarebbe stato più interessante era chiedersi non se Hollywood
era una fabbrica di illusioni (lo era) ma come mai produceva
capolavori dell'illusione (ovvero: il funzionamento della macchina e
il fiuto per dirigerla). Su questo Mank fallisce nell'unica
scena che poteva darne un barlume – la riunione con David O.
Selznick a proposito di un film di Frankenstein – che è la più
goffa del film.
Gli interpreti, a
partire da un Gary Oldman quasi naturalistico, fortunatamente sono
buoni, e fanno il possibile per render vivo il loro personaggio. Una
menzione particolare a Charles Dance che riesce a dare una profondità
a Hearst attraverso l'espressione (sarebbe sleale annotare che tutto
ciò è una pallida ombra rispetto, non solo a Kane/Hearst, ma a
qualsiasi personaggio di Quarto potere). Va anche
ricordato l'Orson Welles di Tom Burke per il suo eccellente lavoro
sulla voce: quella che sentiamo nel film è proprio la voce calda di
Welles che abbiamo sentito mille volte, dal cinema alla radio (nelle
registrazioni) alla pubblicità. Ed è ottima Amanda Seyfried nei
panni di una dolente Marion Davies, vittima predestinata – non per
nulla la sua prima comparsa nel film è su un rogo alla Giovanna
d'Arco.
Una contraddizione
rispetto al didatticismo delle caratterizzazioni è che nel film le
necessarie didascalie di tempo e luogo appaiono nella classica forma
delle note di sceneggiatura battute a macchina – non solo, si
presume, per adattarsi all'argomento, che è il lavoro di uno
sceneggiatore, ma per marcare il carattere di fiction proprio
del cinema.
Quel che è vivo in Mank è l'abilità della messa in scena e della regia di
Fincher. Ci sono nel film varie pagine ricche di fascino. Bello L.B.
Mayer che (è il suo momento più corposo) piangendo lacrime di
coccodrillo va a chiedere ad attori e maestranze di ridursi la paga,
e ci riesce. Bello quel night club dalle luci vagamente
espressioniste dove (con un momento di frenetico montage inusuale nel film) un tabellone sancisce la sconfitta di Upton
Sinclair. Bella la malinconica passeggiata di Marion Davies in
compagnia di Mankiewicz fuori dal palazzo gigantesco, dove può
entrare anche il vago fellinismo di Marion Davies sul bordo della
fontana.
Con una scelta che
potrebbe apparire schizofrenica, Fincher – dopo avere spezzato una
foresta di lance in favore di Mankiewicz – rende omaggio a Welles
sul piano della realizzazione. Il film (naturalmente in b/n)
riproduce stilemi dichiaratamente wellesiani, dai grandangoli alle
famose inquadrature dal basso che comprendono il soffitto.
Naturalmente anche la struttura a flashback fa pensare a Quarto potere, benché senza la sua genialità. In effetti è evidente
che Fincher si sta confrontando con l'ingombrante figura di Welles:
non lo usa solo come personaggio ma mira a realizzare una sorta di Quarto potere di Quarto potere. Vedi la scena in cui
Hearst e Mankiewicz totalmente ubriaco si aggirano per Xanadu...
ovvero San Simeon, che di Xanadu fu il modello.
Il cinema di David
Fincher è un cinema di isolamento e di panorami di sopraffazione.
Non solo la condizione del protagonista, bloccato in mezzo al
deserto, ma tutta la Hollywood di David Fincher (malgrado i difetti
di cui sopra) rientra perfettamente nei suoi angosciosi labirinti
esistenziali, onde questo film si inserisce pienamente nella sua
filmografia. Appare difficile tuttavia dire che ne rappresenti uno
dei vertici.
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