domenica 6 dicembre 2020

Elegia americana

Ron Howard

Elegia americana in originale è Hillbilly Elegy, che specifica l'ambientazione fra i bianchi poveri del Nordest (si svolge nel Kentucky). Saltando di continuo fra il 1997 e il 2011, il film è un romanzo di formazione sulla vita del futuro avvocato J.D. Vance (tratto dalla sua autobiografia). Da ragazzo vive in povertà tra una madre psichicamente borderline (Amy Adams) e una nonna (Glenn Close) saggia e super-determinata – la scena in cui mette a posto gli amici stronzetti del nipote è gustosissima, e ha un barlume di Clint Eastwoood. Cresciuto e in procinto di intraprendere la carriera legale, J.D. ritorna provvisoriamente a casa – chiamato dalla sorella maggiore – per una crisi della madre, caduta nella droga, che è andata in overdose ed è in ospedale. Il montatore si danna l'anima per inventarsi raccordi che diano forza a questo spostarsi fra un'epoca e l'altra (per esempio, telecomando/cellulare), e non sempre ci riesce.
Questo film ha fatto andare fuori dai gangheri molta critica americana, che lo ha attaccato con una veemenza come se fosse stato diretto da Donald Trump (con gli intellettuali americani si va sempre a finire lì). Ma è così brutto? No. E' il peggior film d Ron Howard? No (non dimentichiamo che Ron Howard ha girato Inferno). E' un'opera un po' vecchio stampo, un drammone familiare che avrebbe potuto essere realizzato (con qualche parolaccia in meno) nel 1958, con Bette Davis nella parte della nonna e Olivia De Havilland in quella della madre. All'antica sono anche i suoi valori, fondati sui buoni sentimenti e sulla perseveranza (mai arrendersi, mai autocompiangersi), che purtroppo oggi sono fuori moda all'epoca della “cultura del piagnisteo” (Robert Hughes). A pensar male (Andreotti diceva che si fa peccato ma ci si coglie), sono proprio questi che hanno fatto arrabbiare i critici.
Certo, la descrizione dei bianchi poveri del Kentucky non ha affatto la forza e la drammaticità che avrebbe potuto: il film è più Elegy che Hillbilly. Solo all'inizio si coglie il senso di povertà diffusa, mentre nel resto del film sembra piuttosto un fatto individuale. Ma Ron Howard (regista artigianale per eccellenza, legato alla sceneggiatura) non è Paul Thomas Anderson; e del resto, non manca di spuntare qua e là qualche tocco indovinato, come l'inizio già citato, o il funerale del nonno, dove tutti al passare delle auto si scoprono, e la nonna spiega a J.D: “Siamo gente di montagna, tesoro. Rispettiamo i nostri morti”. Alcuni buoni dettagli accadono di scorcio – per esempio un flashback, narrazione della dalla sorella, che ridefinisce la figura del nonno come il protagonista la conosceva.
Le due attrici sono in gara con la classica interpretazione mirata all'Oscar. Se Glenn Close (umanissima vecchia malandata, sigaretta in bocca e linguaggio sboccato) è indiscutibile, di Amy Adams è stato detto che carica troppo la sua interpretazione: ma si ha l'impressione che questa critica confonda l'attrice con il personaggio. Semmai il problema di questi film “di mostri sacri” è che essi rischiano di oscurare gli altri protagonisti. Anche qui, Gabriel Basso (J.D. adulto) risulta alquanto sbiadito; come prevedibile, è più convincente Owen Asztalos (J.D. ragazzino), che rende bene il mix di disperazione e incoscienza di chi vive quella situazione a quell'età.

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