Ron Howard
Elegia
americana in originale è
Hillbilly Elegy,
che specifica l'ambientazione fra i bianchi poveri del Nordest (si
svolge nel Kentucky). Saltando di continuo fra il 1997 e il 2011, il
film è un romanzo di formazione sulla vita del futuro avvocato J.D.
Vance (tratto dalla sua autobiografia). Da ragazzo vive in povertà
tra una madre psichicamente borderline (Amy Adams) e una nonna (Glenn
Close) saggia e super-determinata – la scena in cui mette a posto
gli amici stronzetti del nipote è gustosissima, e ha un barlume di
Clint Eastwoood. Cresciuto e in procinto di intraprendere la carriera
legale, J.D. ritorna provvisoriamente a casa – chiamato dalla
sorella maggiore – per una crisi della madre, caduta nella droga,
che è andata in overdose ed è in ospedale. Il montatore si danna l'anima per
inventarsi raccordi che diano forza a questo spostarsi fra un'epoca e
l'altra (per esempio, telecomando/cellulare), e non sempre ci riesce.
Questo film ha fatto
andare fuori dai gangheri molta critica americana, che lo ha
attaccato con una veemenza come se fosse stato diretto da Donald
Trump (con gli intellettuali americani si va sempre a finire lì). Ma
è così brutto? No. E' il peggior film d Ron Howard? No (non
dimentichiamo che Ron Howard ha girato Inferno). E' un'opera
un po' vecchio stampo, un drammone familiare che avrebbe potuto
essere realizzato (con qualche parolaccia in meno) nel 1958, con
Bette Davis nella parte della nonna e Olivia De Havilland in quella
della madre. All'antica sono anche i suoi valori, fondati sui buoni
sentimenti e sulla perseveranza (mai arrendersi, mai
autocompiangersi), che purtroppo oggi sono fuori moda all'epoca della
“cultura del piagnisteo” (Robert Hughes). A pensar male
(Andreotti diceva che si fa peccato ma ci si coglie), sono proprio
questi che hanno fatto arrabbiare i critici.
Certo, la descrizione
dei bianchi poveri del Kentucky non ha affatto la forza e la
drammaticità che avrebbe potuto: il film è più Elegy che
Hillbilly. Solo all'inizio si coglie il senso di povertà
diffusa, mentre nel resto del film sembra piuttosto un fatto
individuale. Ma Ron Howard (regista artigianale per eccellenza,
legato alla sceneggiatura) non è Paul Thomas Anderson; e del resto,
non manca di spuntare qua e là qualche tocco indovinato, come
l'inizio già citato, o il funerale del nonno, dove tutti al passare
delle auto si scoprono, e la nonna spiega a J.D: “Siamo gente di
montagna, tesoro. Rispettiamo i nostri morti”. Alcuni buoni
dettagli accadono di scorcio – per esempio un flashback, narrazione
della dalla sorella, che ridefinisce la figura del nonno come il
protagonista la conosceva.
Le due attrici sono in
gara con la classica interpretazione mirata all'Oscar. Se Glenn Close
(umanissima vecchia malandata, sigaretta in bocca e linguaggio
sboccato) è indiscutibile, di Amy Adams è stato detto che carica
troppo la sua interpretazione: ma si ha l'impressione che questa
critica confonda l'attrice con il personaggio. Semmai il problema di
questi film “di mostri sacri” è che essi rischiano di oscurare
gli altri protagonisti. Anche qui, Gabriel Basso (J.D. adulto)
risulta alquanto sbiadito; come prevedibile, è più convincente Owen
Asztalos (J.D. ragazzino), che rende bene il mix di disperazione e
incoscienza di chi vive quella situazione a quell'età.
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